S5E10. Lo spirito del 1994 passato, presente e futuro
Un riassunto del quarto anno di dissoluzione della Jugoslavia, esattamente 30 anni fa. Mese dopo mese il racconto degli eventi con il podcast di BarBalcani per scoprire il destino della storia europea
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Oggi riavvolgiamo il nastro e scopriamo gli eventi salienti di quest’anno.
Il 1994.
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Il quarto anno di guerra
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Il 1993 si è chiuso con i bombardamenti senza tregua su Sarajevo, la vittoria dei nazionalisti alle elezioni parlamentari in Serbia e il fallimento ormai evidente dell’ultimo piano di pace per la Bosnia ed Erzegovina, il Piano Juppé-Kinkel.
A gennaio si impostano i primi contatti tra i presidenti della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, Alija Izetbegović, e della Croazia, Franjo Tuđman, per la cessazione delle ostilità e il futuro assetto del territorio bosniaco. Anche se Tuđman non rinuncia ancora al dialogo con il presidente della Serbia, Slobodan Milošević.
Mentre la diplomazia internazionale è incagliata nella crisi dei rapporti tra Parigi e Washington, in Bosnia le persone continuano a morire. Il più grave massacro di civili dall’inizio dell’assedio accade a febbraio, quando viene colpito il mercato coperto di Markale.
L’impatto sull’opinione pubblica è talmente forte che il presidente della Federazione Russa, Boris El’cin, invoca un vertice tra i leader di Russia, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania per elaborare un documento dal «significato storico» che metta fine alle guerre nei Balcani.
La pressione è tutta su Zagabria e Sarajevo. Gli alleati spingono croati e bosgnacchi ad accettare un progetto di federazione in grado di chiudere pacificamente un conflitto che dal luglio 1992 è costato oltre 10 mila vite di cittadini bosniaci.
È così che a marzo viene firmato l’Accordo di Washington che dà vita alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina, con la possibilità di istituire una confederazione tra la nuova Federazione e la Croazia. È questa la fine della Repubblica Croata dell’Erzeg-Bosnia, il progetto secessionista croato in Bosnia.
Nonostante guerra, sanzioni internazionali e inflazione fuori controllo stiano imponendo un costo insostenibile per l’economia serba, Milošević decide di passare all’offensiva nella valle del fiume Drina, dove ci sono enclave bosgnacche isolate: Goražde, Žepa, Srebrenica e Tuzla.
Su Goražde viene sferrato un attacco feroce che dura per 26 giorni, fino ad aprile inoltrato. L’offensiva serba svela le frizioni tra Nazioni Unite e NATO sulla possibilità di attaccare le postazioni degli assedianti.
Il Consiglio del Nord Atlantico riesce a imporre un ultimatum che porta al completo ritiro serbo dall’area smilitarizzata di 20 chilometri di raggio. Ma, dopo Srebrenica, un’altra enclave bosgnacca viene privata delle armi e la popolazione rinchiusa nell’area protetta.
Nel frattempo la comunità internazionale sta continuando a cercare un piano di intesa per mettere fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina. Dopo due mesi di sforzi diplomatici nasce il Gruppo di contatto - Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Germania - che dovrebbe rendere più rapido e snello il processo di pacificazione.
La prima bozza del Piano del Gruppo di contatto presentata a maggio riprende la divisione del territorio bosniaco secondo il defunto Piano Juppé-Kinkel con circa le stesse percentuali, ma in due parti (non in tre): il 51% ai croato-bosniaci/bosgnacchi e il 49% ai serbo-bosniaci.
Sul campo di battaglia si sta saldando l’unità tra bosgnacchi e croato-bosniaci contro i serbo-bosniaci a Brčko, nella Bosnia nord-orientale, a ridosso della Croazia e della Serbia. Il punto di passaggio obbligato tra Belgrado, capitale della Repubblica Federale di Jugoslavia, e Banja Luka, capitale de facto della Republika Srpska.
Tagliare il corridoio di Brčko permetterebbe di interrompere i rifornimenti inviati da Belgrado al presidente serbo-bosniaco, Radovan Karadžić, e di rompere la continuità territoriale tra le conquiste serbe nel nord e nell’est del Paese.
L’ora dei serbo-bosniaci
Dal momento della presentazione della prima bozza del Piano del Gruppo di contatto Karadžić si rivela essere il più grande ostacolo non solo per l’intesa sulla pace ma anche per i piani di Milošević.
Il leader serbo-bosniaco non comprende che la sistemazione territoriale del Piano di pace agevolerebbe la creazione di una “piccola Grande Serbia” - ovvero l’unione della Republika Srpska con la Jugoslavia - prima del raggiungimento dell’obiettivo della “grande Grande Serbia”.
A giugno l’escalation di tensione nei Balcani tocca anche la Macedonia, Repubblica ex-jugoslava indipendente dal settembre 1991. Il presidente macedone, Kiro Gligorov, avverte che «il pericolo viene da nord», a causa dei continui sconfinamenti delle truppe jugoslave lungo una frontiera che per l’80% della sua lunghezza (pari a 270 chilometri) non è definita da alcun trattato ufficiale.
È a luglio che viene presentato il Piano del Gruppo di contatto. I serbo-bosniaci devono cedere il 22% del territorio controllato in Bosnia ed Erzegovina, mentre le enclavi di Srebrenica, Žepa e Goražde sono assegnate alla Federazione. Per due anni Sarajevo sarà un protettorato delle Nazioni Unite e Mostar dell’Unione Europea.
Il Parlamento serbo-bosniaco dà il via libera al Piano, ma vincolato a 6 condizioni e solo come base di partenza per nuove trattative. Karadžić spinge per respingerlo completamente.
La guerra intanto non si ferma e sul fronte nord-occidentale l’Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina si riorganizza per colpire la Regione autonoma della Bosnia Occidentale di Fikret Abdić. Con l’Operazione Tigre viene occupata quasi tutta l’enclave secessionista.
La roccaforte di Velika Kladuša cade ad agosto. Nonostante l’amnistia concessa da Sarajevo ai membri della Difesa popolare della Bosnia Occidentale, circa 35 mila tra civili e militari scappano verso la vicina Croazia, dagli alleati della Repubblica Serba di Krajina.
Nello stesso momento i nazionalisti serbo-croati di Milan Martić rispondono alla chiamata a raccolta dei “compatrioti” serbi lanciata dal serbo-bosniaco Karadžić per impossessarsi dell’idea della Grande Serbia e opporsi al Piano di pace.
La reazione di Milošević è durissima: la Repubblica Federale di Jugoslavia chiude la frontiera con la Republika Srpska (fatta eccezione per cibo e medicine), blocca le linee telefoniche e interrompe i rapporti diplomatici.
Ma il referendum popolare sulla pace in Bosnia ed Erzegovina convocato nella Republika Srpska respinge con il 96,65% dei voti il Piano del Gruppo di contatto. È l’ennesima pietra tombale all’ennesimo piano di pace della comunità internazionale.
A settembre l’attenzione torna a Sarajevo, quando Papa Giovanni Paolo II annuncia l’intenzione di voler fare visita alla capitale assediata. Viaggio che viene annullato all’ultimo per l’incapacità delle Nazioni Unite di garantire la sicurezza del Papa da «un attacco mascherato, dopo il quale l’aggressore potrebbe accusare i suoi nemici».
Sarajevo è senza elettricità e gas, ma ora anche senza acqua e cibo, per il blocco dei convogli umanitari imposto dai serbo-bosniaci. È una vendetta contro la NATO che ha bombardato le postazioni dell’esercito di Ratko Mladić, a causa della violazione della smilitarizzazione dell’area attorno alla capitale bosniaca.
Grazie all’arsenale bellico che si sta rimpinguando grazie al flusso di armi di contrabbando dall’Iran e dalla Turchia, l’esercito bosniaco passa all’offensiva nella Bosnia nord-occidentale a ottobre in parallelo con l’attacco del Consiglio di difesa croato (l’esercito croato-bosniaco).
Per la prima volta una città occupata dai serbo-bosniaci viene riconquistata. Kupres, a metà strada tra Bihać e Mostar, rappresenta un centro di enorme importanza per il controllo della Bosnia centrale e dell’Erzegovina occidentale.
Le forze croato-bosniache sono anche pronte a scatenare insieme all’esercito della Croazia una manovra a tenaglia contro i serbo-croati per riconquistare Knin, la capitale della Repubblica Serba di Krajina.
Di fronte al rischio esistenziale per i serbi di Bosnia e di Croazia, Milošević non abbandona i “compatrioti” nonostante i duri contrasti politici degli ultimi mesi. Con l’enorme offensiva di novembre la situazione sul campo si ribalta completamente.
Il 5° corpo d’armata bosniaco è attaccato da sud/sud-est dai serbo-bosniaci e da nord/nordovest da serbo-croati e secessionisti bosgnacchi. Perché l’attacco a tenaglia coinvolge anche ciò che è rimasto della Difesa popolare della Bosnia Occidentale, fino a marciare con successo su Velika Kladuša.
Ora è Bihać a trovarsi a un passo dal baratro. L’enclave bosgnacca viene bombardata dall’esercito serbo-bosniaco con bombe al napalm e a frammentazione. Gli aerei che colpiscono Bihać decollano dall’aeroporto di Udbina, appena oltre il confine croato, nel cuore del territorio della Repubblica Serba di Krajina.
Doppi standard e appeasement verso la parte serba da parte dei vertici della Forza di Protezione delle Nazioni Unite (UNPROFOR) portano a un duro scontro con quelli della NATO, pronti invece ad attaccare in modo massiccio le postazioni serbe.
Mentre i carri armati continuano ad avanzare verso il cuore di Bihać, una proposta di smilitarizzazione NATO congela lo status quo, che però è del tutto a favore delle forze di Mladić.
L’imprevisto si scatena a dicembre. Il Gruppo di contatto dà il via libera alla cosiddetta “variante di Bruxelles” del Piano di pace, che permetterebbe ai serbo-bosniaci di confederarsi con la Repubblica Federale di Jugoslavia, così come la Federazione di Bosnia ed Erzegovina con la Croazia.
Ma soprattutto il presidente serbo-bosniaco Karadžić propone come mediatore per la pace l’ex-presidente statunitense Jimmy Carter. L’intesa parte da un cessate il fuoco di quattro mesi su tutto il territorio bosniaco, che dovrebbe costituire il preambolo per i colloqui di pace sulla base della “variante di Bruxelles”.
Il 31 dicembre a Sarajevo si contano mille giorni di assedio. È l’assedio più lungo della storia contemporanea, più lungo anche di quello di Stalingrado durante la Seconda Guerra Mondiale.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio e del nostro anno insieme.
E come ogni dicembre, l’oste di BarBalcani ci propone due specialità per riscaldare le nostre giornate invernali.
Sul bancone troviamo un bicchierino di rakija bollente, una delle più tipiche bevande natalizie dei Balcani, facilissima da preparare.
E poi c’è una tazza di kuhano vino, il vin brulé balcanico. Il vino cotto con combinazioni a piacimento di noce moscata, chiodi di garofano, cannella, zucchero di canna, succo e scorza d’arancia.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per l’undicesima tappa.
Un abbraccio e buon cammino!
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