Aprile 1994.
Due anni di guerra in Bosnia ed Erzegovina hanno visto per la prima volta una svolta per la stabilizzazione della regione: la pace tra croato-bosniaci e bosgnacchi e la nascita della Federazione di Bosnia ed Erzegovina [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
Eppure questo non significa la fine della guerra sul territorio bosniaco, perché la componente etnica serba non intende abbandonare le armi e rinunciare ai suoi obiettivi egemonici.
Nonostante la situazione economica critica, l’esercito jugoslavo (di fatto le forze armate serbe e montenegrine) e quello serbo-bosniaco sferrano una nuova pesantissima offensiva nella valle del fiume Drina.
La prima enclave bosgnacca a finire sotto attacco è Goražde, «area protetta» dell’ONU scarsamente presidiata dall’esercito di Sarajevo.
I 26 giorni di Goražde
Con l’assedio di Goražde iniziato il 30 marzo, il mese di aprile si apre con la richiesta disperata del presidente della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, Alja Izetbegović, al rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Jasushi Akashi, di inviare un contingente di caschi blu a protezione della città.
La promessa di mobilitare 800 soldati ucraini dell’UNPROFOR viene tradita, lasciando campo libero ai più di 100 carri armati serbi di avvicinarsi ed entrare nell’enclave nella valle della Drina.
Un atteggiamento che infastidisce non poco i vertici della NATO, già pronti a intervenire - come a fine febbraio - con attacchi aerei contro le postazioni serbe proprio per la violazione dell’area protetta istituita dalle Nazioni Unite.
Solo quando decine di villaggi sulla riva destra della Drina vengono dati alle fiamme e la stessa Goražde sembra spacciata, anche Akashi attiva la “doppia chiave” per far intervenire gli F-16 statunitensi di base ad Aviano. Ma senza avvisare Mosca.
Il 10 aprile vengono sganciate tre bombe sull’esercito serbo. L’attacco viene ripetuto il giorno seguente, provocando la dura reazione dei serbo-bosniaci. Il presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić, definisce l’UNPROFOR una «forza potenzialmente nemica» e il 14 aprile aprile Sarajevo è di nuovo sotto assedio.
Anche su Goražde continua l’offensiva, fino al crollo della linea di difesa il 15 aprile. Quando i carri armati si avvicinano al centro città, si ripropone la controversia tra le Nazioni Unite e la NATO sulla possibilità di un nuovo attacco alle postazioni serbe.
Ma non solo. Anche tra i leader di Stati Uniti e Russia si aprono frizioni a causa della mancanza di comunicazione nei due attacchi precedenti. Il presidente russo, Boris El’cin, minaccia di ritirare i suoi soldati dall’UNPROFOR nel caso di un nuovo ordine dell’omologo statunitense, Bill Clinton, di raid aerei in Bosnia.
È così che il 22 aprile viene convocata una sessione d’emergenza del Consiglio del Nord Atlantico, in cui si delibera un ultimatum all’esercito jugoslavo e serbo-bosniaco (rafforzato dalla Risoluzione 913 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU).
Entro le 01.00 del 24 aprile gli assedianti si dovranno ritirare di 3 chilometri dal centro di Goražde, garantendo il transito di convogli umanitari e medici. Entro le 01.00 del 27 aprile si dovranno ritirare da un raggio di 20 chilometri, area che - come nel caso di Sarajevo - deve essere smilitarizzata.
In caso di non-rispetto dell’ultimatum le forze aree NATO-Sud di stanza a Napoli potranno bombardare artiglieria e armi pesanti di Belgrado nell’area di Goražde (ma in futuro, in caso di necessità, anche a Žepa, Srebrenica, Tuzla e Bihać).
Alla prima scadenza - anche se l’ultimatum non viene davvero rispettato - i caschi blu ucraini e francesi entrano nella città. Due giorni più tardi l’esercito serbo-bosniaco comunica alla NATO di aver completato il ritiro dall’area smilitarizzata, dopo aver fatto terra bruciata e distrutto case e centrali elettriche.
Si chiude il 26 aprile l’attacco più violento a Goražde, costato la vita a 716 civili in 26 giorni e la riduzione del perimetro dell’enclave da 350 a 30 chilometri quadrati. Come nel caso di Srebrenica, un’altra enclave bosgnacca viene privata delle armi e la popolazione rinchiusa nell’area protetta.
L’intrigo delle armi iraniane
Nel bel mezzo dell’assedio di Goražde va in scena un intrigo internazionale sul quadrilatero Teheran-Sarajevo-Zagabria-Washington, che ha al centro l’invio di armi iraniane in Bosnia ed Erzegovina.
Il 7 aprile viene aperta a Sarajevo l’ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran, segno di un ulteriore rafforzamento del rapporto tra i due governi, già particolarmente forte. A combattere al fianco dell’Esercito della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina ci sono centinaia di mujaheddin e Guardie rivoluzionarie iraniane.
In particolare dopo la pace tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina, Teheran e Sarajevo guardano con interesse la possibilità di aumentare il flusso d’armi attraverso il territorio croato.
È così che il presidente bosniaco Izetbegović si rivolge all’omologo croato, Franjo Tuđman, per chiedere di dare il suo assenso a questo traffico d’armi.
Tuđman si trova ora in una posizione molto difficile: un ‘no’ metterebbe già in crisi i rapporti tra Sarajevo e Zagabria, un ‘sì’ rischierebbe di scatenare le ire degli Stati Uniti, che da tempo considerano l’Iran “sponsor del terrorismo internazionale”.
Dopo settimane di confronti e tentennamenti, è lo stesso presidente Clinton a prendere la decisione più elusiva. Ordina all’ambasciatore statunitense in Croazia, Peter Galbraith, di comunicare a Tuđman che non ha ricevuto istruzioni da Washington.
Nella comunicazione di Galbraith viene fatto notare al presidente croato «non solo ciò che gli è stato detto, ma anche quello che non gli è stato detto», lasciando aperta la porta a un consenso tacito e non esprimibile da parte di Washington al transito di armi iraniane verso Sarajevo.
La decisione è così segreta che nemmeno CIA e Pentagono ne sanno niente. Al punto che le spie statunitensi nei Balcani iniziano a tenere sotto controllo i diplomatici connazionali, convinte che sia in atto un doppio gioco all’insaputa di Washington.

La nascita del Gruppo di contatto
Nel frattempo la diplomazia internazionale sta continuando a cercare un piano di intesa per mettere fine alle guerre nei Balcani.
Dopo la proposta di fine febbraio del presidente russo El’cin di elaborare un documento dal «significato storico», il 21 aprile viene annunciata la nascita di un Gruppo di contatto che dovrà cercare l’accordo preliminare sulla pace da imporre poi alle parti in guerra.
Un gruppo composto da Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Germania, che esclude le Nazioni Unite e l’Unione Europea e che dovrebbe rendere più rapido e snello il processo di pacificazione della Bosnia ed Erzegovina.
Inevitabilmente il Gruppo di contatto scatena le gelosie degli esclusi. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Boutros Boutros-Ghali, Spagna, Paesi Bassi e soprattutto Italia, che per ripicca nega alla CIA una nuova base militare per i droni spia da inviare in Bosnia ed Erzegovina.
Nonostante le tensioni il Gruppo di contatto si riunisce per la prima volta a Londra il 26 aprile, per cercare prima un coordinamento tra i diplomatici britannici, francesi e tedeschi, poi con quelli statunitensi e infine con quelli russi.
La prima azione è quella di indurre a una tregua le parti in guerra in Bosnia ed Erzegovina, per arrivare poi a una soluzione definitiva.
Ma i primi a non mostrarsi propensi ai negoziati di pace sono i bosgnacchi che, dopo la fine degli scontri con i croato-bosniaci, spostano le truppe dalla Bosnia centrale alla Bosnia settentrionale e con le armi iraniane sperano di rompere il corridoio serbo di Brčko con la Bosnia orientale.

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