Febbraio 1994.
Sotto la spinta della diplomazia statunitense i governi di Croazia e Bosnia ed Erzegovina iniziano ad avvicinarsi, parlando di un possibile futuro comune e pacifico [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
Ma questa offensiva diplomatica di Washington apre anche grosse fratture nel campo occidentale. La Francia spinge ancora per la messa a terra dell’ormai moribondo Piano Juppé-Kinkel e il Regno Unito smorza le minacce più dure della NATO contro l’esercito serbo-bosniaco guidato da Ratko Mladić.
La strada però è ormai tracciata tra Zagabria e Sarajevo. Anche se proprio nella capitale bosniaca si registra l’ennesima tragedia.
Le conseguenze di un massacro
La stagione dei massacri a Sarajevo ricomincia il 4 febbraio, quando tre granate colpiscono un gruppo di persone in fila per la distribuzione del pane nel quartiere di Dobrinja. Muoiono dieci persone, di cui tre bambini.
Il giorno successivo un altro colpo di mortaio provoca una strage ancora maggiore, che per le dinamiche e il luogo ricorda quella del 27 maggio 1992. Il 5 febbraio, verso le ore 12.30, viene colpito di nuovo il mercato coperto di Markale, nel centro della città.
Rimangono uccise 68 persone e 197 ferite. È il più grave massacro di civili dall’inizio dell’assedio di Sarajevo. Gli assedianti serbo-bosniaci respingono ogni responsabilità, accusando gli assediati bosgnacchi di aver inscenato la tragedia per far revocare l’embargo internazionali sulla fornitura di armi alla Repubblica di Bosnia ed Erzegovina.
Di nuovo si parla di “effetto CNN” (emittente televisiva all-news statunitense) per la potenza delle immagini riprese a pochi minuti dallo scoppio dell’ordigno e rilanciate dalle TV di tutto il mondo.
Il presidente statunitense, Bill Clinton, reagisce con energia, non escludendo nessuna misura in risposta al massacro. Con il supporto di Francia e Regno Unito, gli Stati Uniti esortano il segretario generale delle Nazioni Unite, Boutros Boutros-Ghali, a inviare una lettera al segretario generale della NATO, Manfred Wörner, per attivare la “doppia chiave”.
Ovvero il processo congiunto per ordinare l’intervento aereo contro le postazioni di artiglieria serbo-bosniache attorno a Sarajevo, per impedire altri attacchi futuri.
Il 9 febbraio il Consiglio dell’Alleanza Atlantica dà il via libera all’ultimatum per un attacco entro un raggio di 20 chilometri dal centro della città, se gli assedianti non ritireranno le armi o non le consegneranno alla Forza di Protezione delle Nazioni Unite (UNPROFOR).
Nonostante sia stato oltrepassato il confine tra peace keeping e peace making - la pace non viene più solo mantenuta, ma anche costruita con la protezione dei civili - le potenze occidentali cercano di non umiliare i serbo-bosniaci. Pale, capitale della Republika Srpska, viene esclusa dalla zona smilitarizzata e Washington promette di spingere per far accettare al governo bosgnacco la tripartizione della Repubblica.
Tutto questo non è però sufficiente per placare il comandante serbo-bosniaco Mladić, che si dice contrario a qualsiasi ultimatum con un’arroganza giustificata solo dal sostegno che gli arriva da Mosca.
Dopo il trionfo delle forze nazional-comuniste alle elezioni di dicembre 1993 per il rinnovo della Duma di Stato, alcuni politici russi come il leader del Partito Liberal-Democratico di Russia, Vladimir Žirinovskij, iniziano a fare la spola tra Mosca, Belgrado, Pale e Knin per creare «un’unione di Stati slavi da Vladivostok alla Krajina».
Žirinovskij arriva addirittura ad affermare che un attacco areo della NATO alle postazioni serbo-bosniache attorno Sarajevo sarebbe stato «una dichiarazione di guerra alla Russia» e «l’inizio della Terza Guerra Mondiale».
Nonostante non sia questa la linea del Cremlino, per non lasciare troppo spazio di manovra all’opposizione “rosso-bruna” il presidente della Federazione Russa, Boris El’cin, è costretto ad adottare una politica estera più intransigente verso le azioni del campo occidentale.
Ma il massacro di Markale ha un impatto politico che va oltre il sostegno a parole a Belgrado. A Mosca non scema la volontà di collaborare per risolvere la questione bosniaca ed è lo stesso El’cin a proporre il 24 febbraio l’istituzione di un vertice tra capi di Stato e di governo di Russia, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania.
L’obiettivo finale è quello di elaborare un documento dal «significato storico» per mettere fine alle guerre che da quasi tre anni stanno insanguinando i Balcani, attraverso una cooperazione diplomatica tra Mosca, Washington e i partner europei.
La pace tra Sarajevo e Zagabria
Il riavvicinamento tra Mosca e Belgrado ha però anche un altro effetto. Il dialogo aperto a gennaio tra i governi di Croazia e Bosnia ed Erzegovina viene sostenuto da tutti gli attori diplomatici interessati a una pacificazione tra le due parti in conflitto.
Vaticano, Chiesa cattolica croata, frati francescani bosniaci, Germania, Stati Uniti, Turchia.
Il 17 febbraio viene presentato un progetto di federazione tra bosgnacchi e croato-bosniaci, che implica la rinuncia del presidente della Croazia, Franjo Tuđman, al dialogo con l’omologo serbo, Slobodan Milošević, per la spartizione del territorio bosniaco
In caso di assenso, Zagabria potrebbe ottenere appoggio alla riconquista della Krajina e finanziamenti per la ripresa economica. Un rifiuto potrebbe invece costare le sanzioni economiche minacciate da un anno dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
È così che il 21 febbraio Tuđman accetta il progetto patrocinato da Washington, anche considerato l’ormai crollo senza possibilità di ripresa del Consiglio di difesa croato nella Bosnia centrale.
Una disfatta militare che si è già riverberata sulla struttura politica della Repubblica Croata dell’Erzeg-Bosnia. L’8 febbraio a Livno il presidente Mate Boban viene costretto a rassegnare le dimissioni ed è sostituito dal moderato Krešimir Zubak.
Il cambio di guardia a Mostar ha spinto di conseguenza la Croazia ad accettare il controllo delle Nazioni Unite alle sue frontiere con la Bosnia ed Erzegovina, rinunciando a ogni piano di annessione dell’Erzegovina.
Due giorni dopo il via libera di Tuđman al progetto di federazione tra bosgnacchi e croati in Bosnia, i comandanti dell’esercito bosniaco e del Consiglio di difesa croato firmano un cessate il fuoco che ha solide basi politiche per reggere sul campo.
Si chiude così un progetto bellico che in un anno e mezzo è costato oltre 10 mila vite di cittadini bosniaci e che ha costretto quasi metà degli 880 mila croato-bosniaci ad abbandonare le proprie case a causa della controffensiva bosgnacca.
Sarajevo smilitarizzata
L’offensiva diplomatica di Washington si rivolge anche a Belgrado, per arrivare a una sistemazione pacifica di tutta la penisola balcanica (incluso il riconoscimento della Macedonia a quasi un anno dall’ingresso nell’ONU).
Ma il costante rifiuto del presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić, di ritirare le armi pesanti dalle alture sopra Sarajevo rende sempre più reale un bombardamento NATO sulle postazioni serbo-bosniache: 200 aerei sono già in stato di allerta nelle basi italiane e francesi, e su tre portaerei nel Mar Adriatico.
È il presidente russo El’cin a scongiurare il pericolo, proponendo a Milošević di stanziare circa 400 paracadutisti russi in quella che dovrebbe essere l’area smilitarizzata attorno Sarajevo.
Un compromesso che permette sì di evitare un’escalation di violenza tra l’Alleanza Atlantica e Belgrado (Milošević lo accetta il 17 febbraio), ma che allo stesso tempo rafforza l’ambiguità della Russia nei rapporti con serbi e serbo-bosniaci.
Entrando il 20 febbraio a Pale, i paracadutisti vengono accolti da una folla in delirio, rispondendo a loro volta con il saluto “alla serba” - con le tre dita (pollice-indice-medio) sollevate e le altre chiuse - un gesto religioso preso in prestito dai paramilitari cetnici.
Senza considerare che - mentre il governo bosniaco è costretto a consegnare le armi all’UNPROFOR - ai serbo-bosniaci è consentito reindirizzare verso altri fronti di combattimento i mortai allontanati da Sarajevo.

È proprio grazie a questa riorganizzazione di materiale bellico che, subito dopo la smobilitazione da Sarajevo, le truppe di Mladić lanciano una pesante offensiva su Bihać (nella Bosnia nord-occidentale) e sulle città di Tuzla, Olovo e Maglaj nella Bosnia centro-orientale. Il nome dell’operazione è “Frontiere 1994”.
La NATO vuole subito mettere in chiaro i nuovi rapporti di forza e il 28 febbraio due caccia F-16 abbattono quattro Soko G-4 Super Galeb dell’esercito jugoslavo nei cieli di Banja Luka, per aver violato la no-fly zone a Novi Travnik e Bugojno.
Dalla Risoluzione 816 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU - che ha autorizzato l’uso di «tutte le misure necessarie» per rendere effettivo il divieto di voli militari nello spazio aereo bosniaco - sono passati 334 giorni e 816 violazioni impunite.
Il battesimo di fuoco della NATO è a tutti gli effetti un tentativo di Belgrado di capire la serietà delle intenzioni occidentali e di provare a seminare zizzania tra Washington e Mosca. Ma questa volta la legittimità dell’azione militare non viene contestata dal Cremlino.
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