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The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Settembre '94. Il Papa della discordia
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Settembre '94. Il Papa della discordia

Settembre 1994.

In Bosnia ed Erzegovina non infuria solo la guerra, ma anche il contrasto durissimo tra la Serbia di Slobodan Milošević e la Republika Srpska di Radovan Karadžić [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].

Con un referendum popolare dal risultato già scritto i serbo-bosniaci hanno respinto il Piano del Gruppo di contatto, mettendo la pietra tombale all’ultimo Piano di pace per la Bosnia ed Erzegovina. Che, tra l’altro, costituiva anche il perno della strategia del presidente serbo per sbarazzarsi delle sanzioni internazionali.

Mentre la guerra si intensifica nel nord-ovest della Bosnia (con sconfinamenti nella Repubblica Serba di Krajina) e Sarajevo è sempre sotto pesante assedio, un fattore completamente inedito arriva a sparigliare le carte sul tavolo. L’annuncio della visita di Papa Giovanni Paolo II nella capitale bosniaca.


Il giallo della visita del Papa a Sarajevo

È da mesi che Papa Giovanni Paolo II esprime interesse per un viaggio a Sarajevo, diventando sempre più esplicito sul «delitto di ignavia» dell’Occidente per non saper fermare una guerra che continua senza sosta da oltre due anni.

Il capo spirituale dei cristiani cattolici supporta l’accordo tra croato-bosniaci e bosniaci musulmani, alienandosi sempre più il favore del mondo serbo e ortodosso.

Ora però c’è una data. Il Papa sarà a Sarajevo l’8 settembre.

È qui che inizia il valzer dello scarico di responsabilità e di accuse per un viaggio che - fatta eccezione per il Vaticano e gli assediati nella capitale bosniaca - non vuole nessuno.

Il primo è il presidente serbo-bosniaco Karadžić, che avverte il Papa del fatto che «è meglio che non venga, è pericoloso e noi non possiamo garantire la sua sicurezza», puntando il dito contro i bosgnacchi: «Cercheranno di abbattere l’aereo sul quale viaggerà, per poi gettare la colpa sui serbi».

La stampa a Pale usa una similitudine inquietante. Karol Wojtyła potrebbe lasciare Sarajevo come Francesco Ferdinando 80 anni prima. In una bara.

Dal Vaticano non ci sono tentennamenti e sui muri di Sarajevo compaiono manifesti che annunciano l’imminente visita di Giovanni Paolo II.

Il 6 settembre la Santa Sede conferma il viaggio del Papa in conferenza stampa. Ma è proprio in questo momento che arriva la doccia fredda.

Papa Giovanni Paolo II

Nello stesso pomeriggio del 6 settembre il primo nunzio apostolico in Bosnia ed Erzegovina, Francesco Monterisi, comunica alla Santa Sede il contenuto della lettera ricevuta il giorno prima dal rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Yasushi Akashi.

«Eccellenza Monterisi, l’UNPROFOR avrà il piacere di fornire assistenza alla visita del Papa a Sarajevo. Nel frattempo il Vaticano deve essere cosciente del pericolo legato alla visita, come dei limiti dell’UNPROFOR per quanto riguarda il dispiegamento dei servizi di sicurezza».

Akashi spiega anche la natura del pericolo e dei rischi, non solo per Wojtyła:

«Attaccare direttamente il Papa non sarà nell’interesse di alcun partecipante al conflitto. Esiste però una preoccupante possibilità di un attacco mascherato, dopo il quale l’aggressore potrebbe accusare i suoi nemici. Questa minaccia proviene da singoli o da piccoli gruppi non collegati direttamente ad alcuna delle parti in lotta […] Anche se la decisione del viaggio a Sarajevo continua a competere a Sua Santità, vogliamo sottolinearvi la serietà dei rischi per il Papa e per quanti si trovassero nelle sue vicinanze».

La visita di Giovanni Paolo II a Sarajevo viene così definitivamente cancellata.

Il viaggio è deviato a Zagabria - nella capitale della cattolica Croazia - tra l’11 e il 12 settembre, dove il Papa tuona contro «tutti i nazionalismi».

Sul campo esultano non solo i nazionalisti serbi, ma anche quelli croati, che non hanno mai digerito l’accordo tra il presidente della Croazia, Franjo Tuđman, e l’omologo bosniaco, Alija Izetbegović, sulla nuova Federazione di Bosnia ed Erzegovina.

Ancora una volta sono gli assediati a Sarajevo a subire il contraccolpo psicologico. Nella mente c’è ancora la beffa delle parole di Akashi - vero responsabile per il fallimento della visita del Papa - a pochi giorni dalla lettera inviata a Monterisi: «Sarajevo è tra le città più sicure del mondo».

Da sinistra: il presidente della Bosnia ed Erzegovina, Alija Izetbegović, e il primo nunzio apostolico in Bosnia ed Erzegovina, Francesco Monterisi (Sarajevo, 6 settembre 1994)

L’appello alla pace inascoltato

A nulla serve l’invito alla pace e al perdono lanciato da Papa Giovanni Paolo II a Zagabria.

Su tutto il territorio della Bosnia ed Erzegovina infuria la guerra.

L’esercito serbo-bosniaco lancia una nuova campagna di pulizia etnica nelle aree di Banja Luka, Rogatica e Bijeljina, e taglia le vie per Goražde, Srebrenica e Žepa con l’obiettivo di prenderle per fame.

L’11 settembre si riaccende la tensione anche su uno dei fronti che da marzo sembrava chiuso. A Mostar gli ultranazionalisti croato-bosniaci attentano alla vita del tedesco Hans Koschnik, dal 23 luglio sindaco del capoluogo dell’Erzegovina secondo il mandato della Comunità Europea.

Koschnik non è un target casuale, in quanto incaricato di avviare i lavori di ricostruzione della città e di spingere il dialogo tra due componenti etiche ancora non completamente riappacificate nella regione: bosgnacchi e croato-bosniaci.

Il 22 settembre l’attenzione torna a Sarajevo. La smilitarizzazione dell’area attorno alla capitale bosniaca imposta a febbraio viene violata dall’esercito serbo-bosniaco per l’ennesima volta, provocando la reazione delle forze aree NATO.

Ma il bombardamento, tanto dimostrativo quanto inefficace, sulle postazioni dell’esercito di Ratko Mladić ha conseguenze pesanti per Sarajevo. La città è senza elettricità e gas, ma ora anche senza acqua e cibo, a causa del blocco dei convogli umanitari imposto dai serbo-bosniaci come forma di vendetta contro la NATO.

I territori controllati dai serbo-bosniaci (in rosa), dai bosgnacchi (in verde) e dai croato-bosniaci (in giallo)

Nel frattempo, fallito il Piano del Gruppo di contatto che avrebbe potuto agevolare la realizzazione della “Grande Serbia” per tappe graduali, il presidente serbo Milošević decide di fare da sé per convincere la comunità internazionale a revocare le sanzioni contro la Repubblica Federale di Jugoslavia.

Prima di tutto priva dell’immunità parlamentare e fa arrestare il leader del Partito Radicale Serbo, Vojislav Šešelj, costante spina nel fianco per Milošević ma reo di averlo accusato esplicitamente di essere il responsabile della pulizia etnica in Bosnia.

In secondo luogo accetta il dispiegamento di 135 ispettori ONU per il controllo della frontiera tra la Repubblica Federale di Jugoslavia e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, dopo aver chiuso quella con la Republika Srpska a inizio agosto.

I membri del Gruppo di contatto (Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Germania) considerano queste mosse di Milošević come la prova tangibile di serietà nel processo negoziale per la pacificazione della regione.

È così che il 23 settembre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva due testi di natura diametralmente opposta.

La Risoluzione 942 introduce sanzioni economiche contro la Republika Srpska e impone l’interruzione di qualsiasi contatto diplomatico con i suoi rappresentanti politici. La Risoluzione 943 sospende provvisoriamente (per un periodo di 100 giorni) una parte delle sanzioni imposte contro Belgrado dal maggio 1992.

Da sinistra: il presidente della Serbia, Slobodan Milošević, e il presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić

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