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The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Luglio '94. L'ultima offerta da Ginevra
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Luglio '94. L'ultima offerta da Ginevra

Luglio 1994.

Come ampiamente previsto dal presidente serbo, Slobodan Milošević, il Piano del Gruppo di contatto per la pace in Bosnia ed Erzegovina incontra la dura opposizione del presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].

Ma più Karadžić cerca di rendersi indipendente da Milošević, più ostacola gli sforzi del leader serbo di far revocare dalla comunità internazionale le sanzioni contro l’intera Repubblica Federale di Jugoslavia, e allo stesso tempo di perseguire l’obiettivo della “Grande Serbia” per tappe graduali.

Al punto di minacciare una guerra regionale estesa a Serbia, Montenegro, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina, «se le mappe non saranno corrette» dal Gruppo di contatto.


Il caos sulle mappe del Piano di pace

È il 5 luglio quando a Ginevra il Gruppo di contatto (formato da Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Germania) pubblica le mappe ufficiali sulla nuova divisione della Bosnia ed Erzegovina, ricalcando la prima bozza del 13 maggio.

Il Piano del Gruppo di contatto riprende lo schema del Piano Juppé-Kinkel del novembre 1993, ma con una suddivisione in due parti (non in tre): il 51% alla nuova Federazione tra croato-bosniaci e bosgnacchi, e il 49% ai serbo-bosniaci.

Questi ultimi devono cedere il 22% del territorio attualmente controllato in Bosnia ed Erzegovina, mentre le enclavi di Srebrenica, Žepa e Goražde sono assegnate alla Federazione. Per due anni Sarajevo sarà un protettorato delle Nazioni Unite e Mostar dell’Unione Europea.

Il Piano viene presentato come «l’ultima offerta della comunità internazionale», da accettare o respingere entro il 19 luglio. In caso di opposizione, saranno introdotte sanzioni economiche (o inasprite, se già esistenti).

La divisione geografica della Bosnia ed Erzegovina secondo il Piano del Gruppo di contatto: in rosso le province serbe, in verde e blu quelle della Federazione di Bosnia ed Erzegovina e in giallo il distretto di Sarajevo

Il Piano del Gruppo di contatto ha però delle lacune evidenti. A partire dal fatto che le minacce sulle sanzioni sono vaghe e non c’è consenso tra gli alleati su come debbano essere applicate.

Se per i croato-bosniaci la soluzione può funzionare (il 90% della componente etnica croata nel Paese si troverebbe dentro gli stessi confini), lo stesso non può dirsi per i bosgnacchi, che denunciano l’assenza di riferimenti al ritorno dei profughi, alla punizione per i criminali di guerra e la sottrazione di un 7% di territorio.

Ma alla fine il via libera arriva, «a condizione che la Bosnia ed Erzegovina resti un unico Stato nelle sue frontiere internazionalmente riconosciute». Sia perché l’alternativa - respingere il Piano - sarebbe peggiore, sia perché tutti sanno che lo scoglio dei serbo-bosniaci è praticamente insuperabile.

E infatti arriva Karadžić a sparigliare le carte, nonostante l’impegno preso per iscritto a Belgrado con Milošević sull’ok al Piano di pace. Non appena tornato a Pale, è lo stesso presidente della Republika Srpska a esortare i deputati del Parlamento serbo-bosniaco a respingere la proposta, appoggiato dalla Chiesa ortodossa e dallo Stato maggiore dell’Esercito della Repubblica Federale di Jugoslavia.

Il presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić

Proprio il 19 luglio, il giorno ultimo per comunicare la decisione al Gruppo di contatto, il Parlamento serbo-bosniaco dà il via libera al Piano, ma vincolato a 6 condizioni:

  • chiarimenti sull’ordine costituzionale della Bosnia ed Erzegovina;

  • modifiche al cessate il fuoco;

  • sbocco sul mare per la Republika Srpska;

  • divisione dell’amministrazione di Sarajevo;

  • modalità rapide di abolizione delle sanzioni;

  • riconoscimento internazionale della Republika Srpska.

Per l’establishment politico serbo-bosniaco il Piano del Gruppo di contatto non è altro che una base di partenza per nuove trattative, e non un punto di arrivo.

Statunitensi e tedeschi considerano la risposta un rifiuto nella sostanza. Francesi, britannici e russi la considerano un’apertura da non mettere a rischio con nuove sanzioni alla Repubblica Federale di Jugoslavia.

Ecco perché si decide a Ginevra di posticipare la scadenza di altri 10 giorni, per coordinare i partner e sperare in un ammorbidimento della posizione di Karadžić.

Falliscono l’una e l’altra speranza.

Perché quando il 30 luglio il Gruppo di contatto torna a riunirsi non c’è una conclusione condivisa: i Cinque convergono solo su una dichiarazione che concede ulteriore tempo per decidere se accettare o rifiutare il Piano. Sarà invece il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a decidere se inasprire le sanzioni internazionali contro Belgrado (in atto dal maggio 1992).

I territori controllati dai serbo-bosniaci (in rosa), dai bosgnacchi (in verde) e dai croato-bosniaci (in giallo)

Controffensive armate e verbali

Mentre ai tavoli negoziali va in scena l’ultimo disperato tentativo di raggiungere la pace attraverso la diplomazia, la guerra in Bosnia ed Erzegovina prosegue. Giorno dopo giorno.

A Sarajevo si contano ora 10 mila vittime dall’inizio dell’assedio nell’aprile 1992. Ma dopo la pace tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina e la nascita della nuova Federazione, le forze armate bosgnacche e croato-bosniache hanno iniziato a collaborare in modo strutturale per tentare di rompere la continuità territoriale tra le conquiste serbe nel nord e nell’est del Paese.

Questo permette all’Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina di riorganizzarsi anche sul fronte nord-occidentale, dove dall’ottobre 1993 è in corso la guerra contro la Regione autonoma della Bosnia Occidentale.

Il 5° corpo d’armata dell’esercito bosniaco passa all’attacco contro la Difesa popolare della Bosnia Occidentale, le bande armate del magnate agricolo-industriale e politico secessionista di Velika Kladuša Fikret Abdić.

Nell’ambito dell’Operazione Tigre, tra il 7 e il 9 luglio il generale Atif Dudaković assesta il colpo definitivo al feudo di Abdić, traendolo in inganno.

A Velika Kladuša viene inviato il vice-comandante del 5° corpo d’armata, che convince lo stesso Abdić di essere alla testa di una fazione di alti ufficiali pronti a ribellarsi a Sarajevo e passare dalla sua parte.

Il capo dei secessionisti abbocca e attinge dall’arsenale della Difesa popolare le armi più moderne fornitegli dal leader della Repubblica Serba di Krajina, Milan Martić (alleato imprescindibile per Abdić).

È quasi la fine dell’esperienza della Regione autonoma nella Bosnia nord-occidentale, con l’occupazione di quasi tutta l’enclave secessionista da parte dell’esercito bosniaco. Resiste solo Velika Kladuša, ma in condizioni disperate.

Il territorio controllato prima dell’offensiva di luglio del 5° corpo d’armata dalla Regione autonoma della Bosnia Occidentale (in azzurro), dalla Repubblica di Bosnia ed Erzegovina (in verde), dalla Republika Srpska (in rosa), dalla Repubblica Serba di Krajina (in giallo) e dalla Croazia (in arancio)

Il mese di luglio si chiude però ancora con lo scontro tra Belgrado e Pale sulla proposta di pace del Gruppo di contatto.

Il 30 luglio Milošević bolla l’establishment serbo-bosniaco come «profittatore di guerra», interessato a lucrare contro una pace che «è l’interesse maggiore di tutti i serbi». Soprattutto considerato il possibile scenario di revoca delle sanzioni economiche, che sono ormai insostenibili per la Repubblica Federale di Jugoslavia.

Solo un giorno più tardi interviene su Politika per attaccare Karadžić, sostenendo che il Piano del Gruppo di contatto deve essere accettato nella sua interezza e non ponendo ulteriori condizioni:

«Chi ha il diritto di rifiutare la pace in nome del popolo serbo? La risposta è: nessuno ha tale diritto».

Da sinistra: il presidente della Serbia, Slobodan Milošević, e il presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić

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