Agosto 1994.
L’Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina ha lanciato un duro attacco contro la Regione autonoma della Bosnia Occidentale, occupando quasi tutta l’enclave secessionista attorno al feudo di Velika Kladuša [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
Mentre le forze armate bosgnacche e croato-bosniache continuano a macinare successi militari, il campo serbo è in crisi per lo scontro tra il presidente serbo, Slobodan Milošević, e il presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić.
La diatriba diventa particolarmente incandescente dopo la presentazione del Piano del Gruppo di contatto per la pace in Bosnia ed Erzegovina, avallato dal primo ma respinto dal secondo.
Il mondo del nazionalismo serbo si frantuma nelle sue mille sfaccettature, mostrando che gli appelli all’unità dei “patrioti serbi” sono solo un diversivo per spingere i rispettivi interessi personali o di parte.
La caduta di Velika Kladuša
L’offensiva dell’esercito bosniaco scaturita dall’inganno ai danni dello stesso politico secessionista fondatore della Regione autonoma della Bosnia Occidentale, Fikret Abdić, arriva praticamente fino in fondo, con la conquista della roccaforte di Velika Kladuša.
Il governo di Sarajevo concede l’amnistia ai membri della Difesa popolare della Bosnia Occidentale e a tutti gli accusati di crimini di guerra.
Tuttavia la caduta di Velika Kladuša il 21 agosto spinge circa 35 mila persone - tra civili e militari - a scappare verso la Repubblica Serba di Krajina. Oltre la metà cerca di raggiungere la Croazia, ma rimane bloccata alla frontiera informale, in condizioni disperate.
L’offensiva dell’Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina irrita tremendamente il comandante della Forza di protezione delle Nazioni Unite (UNPROFOR) in Bosnia, Michael Rose.
Il tenente generale britannico accusa i bosgnacchi di essere «guerrafondai», sospettandoli di fondamentalismo islamico. E per la prima volta dall’aprile 1992 minaccia di richiedere un intervento aereo della NATO contro di loro, se continueranno a intralciare la missione «incaricata di restaurare la pace».

Un referendum già scritto
È però il contrasto verbale e diplomatico tra Belgrado e Pale a incendiare l’estate bosniaca.
Il 3 agosto il Parlamento serbo-bosniaco respinge in modo ingegnoso il Piano del Gruppo di contatto: convocando per il 27-28 agosto un referendum popolare sulla pace in Bosnia ed Erzegovina.
La reazione del presidente serbo Milošević è durissima. Come già fatto nel maggio 1993, la Repubblica Federale di Jugoslavia chiude le frontiere con la Republika Srpska (fatta eccezione per cibo e medicine), blocca le linee telefoniche e interrompe i rapporti diplomatici.
In Serbia la società si polarizza tra un nazionalismo di sinistra che sostiene Milošević - dipinto come l’erede dei partigiani jugoslavi - e un nazionalismo di destra che difende Karadžić e lo eleva a discendente dei cetnici.
Ciò che ne emerge non è uno scontro tra le due fazioni ma, paradossalmente, reciproche accuse di crimini di guerra. Tra cui, per la prima volta, la denuncia degli orrori della guerra in Bosnia e dell’assedio di Sarajevo da parte dei giornali di regime.

L’establishment serbo-bosniaco invece cerca di giocare d’anticipo, in vista del referendum di fine mese sul Piano di pace.
Il 7 agosto viene proclamata l’economia di guerra e la mobilitazione generale nella Republika Srpska, anche se la vera scommessa è quella di impossessarsi dell’idea della Grande Serbia. La strategia si basa sulla chiamata a raccolta di tutti i “compatrioti” serbi, che attecchisce soprattutto nella Repubblica Serba di Krajina guidata da Milan Martić.
Le due Repubbliche serbe hanno proclamato già nell’ottobre del 1992 la loro unione, ma non l’hanno mai attuata. Ora però, di fronte ai contraccolpi della caduta della Regione autonoma della Bosnia Occidentale (testa di ponte serba nella regione), i serbo-croati di Martić hanno bisogno del sostegno dei serbo-bosniaci di Karadžić per rispondere alla controffensiva bosniaca che sta dilagando anche in Krajina.
Il tutto mentre il 28 agosto arriva il responso delle urne nella Republika Srpska, tanto partecipate (l’affluenza è al 91%) quanto scontate nel respingimento del Piano del Gruppo di contatto.
Il 96,65% degli elettori serbo-bosniaci vota “no”. Viene così posta l’ennesima pietra tombale all’ennesimo piano di pace della comunità internazionale, rivelatosi ancora una volta fallimentare sul campo.

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