Gennaio 1994.
Il 1993 nell’ex-Jugoslavia si è chiuso con i bombardamenti senza tregua su Sarajevo e il fallimento ormai evidente dell’ultimo piano di pace per la Bosnia ed Erzegovina, il Piano Juppé-Kinkel [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
Quando tutto sembra destinato verso un’impasse totale tra le tre parti in conflitto - bosgnacchi, serbo-bosniaci e croato-bosniaci - è il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, a imprimere una svolta inaspettata sul piano diplomatico.
Il rischio è non solo di essere percepito come impotente di fronte al conflitto nell’ex-Jugoslavia, ma soprattutto che divisione della Bosnia ed Erzegovina in tre entità porti alla creazione di una Grande Serbia, una Grande Croazia e una Grande Albania. Uno scenario sgradito a Washington.
Un triangolo inafferrabile
È sotto la spinta della diplomazia statunitense (sostenuta da quella tedesca e austriaca) che il 4 gennaio a Vienna si tiene un incontro tra il vicepremier bosniaco, Haris Silajdžić, e il ministro degli Esteri croato, Mate Granić.
Il vicepremier bosniaco assicura che non sarà fatto del male ai 65 mila croato-bosniaci in trappola nella valle del fiume Lašva (Bosnia centrale), mentre il ministro croato promette che non saranno inviate truppe a supporto del Consiglio di difesa croato.
È il preludio di un successivo incontro tra i presidenti della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, Alija Izetbegović, e della Croazia, Franjo Tuđman. Il 9 gennaio a Bonn (Germania) i due leader discutono di un piano d’intesa per la cessazione delle ostilità e il futuro assetto del territorio bosniaco.
Anche se Izetbegović non può accettare l’idea di una separazione dei territori a maggioranza croata e bosgnacca da quelli controllati dai serbo-bosniaci, si innesta un dialogo con Tuđman per una futura unione monetaria tra Sarajevo e Zagabria.
Il presidente croato non rinuncia però a muovere tutte le sue pedine. Dopo il confronto intenso con il presidente serbo, Slobodan Milošević, che nell’estate del 1992 ha portato alla nascita del Piano Owen-Stoltenberg (poi naufragato), il leader croato mantiene aperto anche questo canale di dialogo.
Il risultato è la decisione di aprire a Belgrado e Zagabria i rispettivi uffici diplomatici, un’anteprima di un possibile riconoscimento reciproco. Lo stesso fanno tra loro la Republika Srpska e la Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia rispettivamente a Pale e Mostar.

Nel frattempo però i civili sul territorio bosniaco continuano a morire, giorno dopo giorno.
Il 22 gennaio a Sarajevo quattro granate colpiscono il quartiere di Alipašino Polje, uccidendo sei ragazzini. La lista dei bambini uccisi o scomparsi durante l’assedio di Sarajevo dall’aprile 1992 supera quota 1500. Il giorno seguente ne muoiono altri quattro a Mostar.
Il 28 gennaio tre collaboratori della sede RAI di Trieste perdono la vita in un attacco armato dei soldati croato-bosniaci nel settore bosgnacco di Mostar. I loro nomi sono Marco Luchetta, Alessandro Saša Ota e Dario D’Angelo.
Dall’inizio della guerra in Bosnia ed Erzegovina sono già più di 60 i giornalisti uccisi, come in tutti i 20 anni di guerra in Vietnam.
La crisi nel campo occidentale
Di fronte all’offensiva diplomatica di Washington e alle difficoltà interne alla Forza di protezione delle Nazioni Unite (UNPROFOR) - evidenziate dalle dimissioni di Thorvald Stoltenberg da rappresentante speciale del segretario generale dell’ONU - gli alleati statunitensi ed europei sono sempre più insofferenti gli uni verso gli altri.
Lo dimostra il vertice della NATO del 10-11 gennaio a Bruxelles. Gli Stati Uniti spingono perché nella dichiarazione finale sia rinnovata la minaccia ai serbi di attacchi aerei se continueranno a strangolare Sarajevo, a bloccare i soldati UNPROFOR a Srebrenica e a impedire la riapertura dell’aeroporto militare di Tuzla.
Minacce diluite però dal Regno Unito (e dal Canada, temendo ripercussioni per i suoi caschi blu a Srebrenica), che impone prudenza sulle tempistiche e le modalità d’intervento.
Il presidente Clinton rimane piuttosto insoddisfatto e lancia un avvertimento agli alleati sul fatto che dalla risolutezza sulla guerra in Bosnia dipende la credibilità della stessa Alleanza Atlantica.
Non è un caso se le truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić non prendono particolarmente sul serio la NATO. Il 13 gennaio, in occasione del Capodanno ortodosso, lanciano un intenso bombardamento su Sarajevo in cui muoiono nove persone.
Se da una parte il capo di stato maggiore serbo-bosniaco accetta il ricambio di caschi blu a Srebrenica (ai canadesi subentrano gli olandesi), dall’altra rifiuta sia una tregua nella capitale per permettere di riparare la centrale elettrica sia la riapertura dell’aeroporto militare di Tuzla.
L’offensiva dell’esercito della Republika Srpska rende il clima tra le due sponde dell’Atlantico ancora più teso.
Il 21 gennaio il segretario di Stato statunitense, Warren Christopher, fa visita a Parigi al ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, per tentare di convincere l’Eliseo ad associarsi alla Casa Bianca nella richiesta di revocare l’embargo sulla fornitura di armi per il governo della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina (come da risoluzione ONU di dicembre 1992).
Il ministro Juppé invece si presenta all’incontro con una richiesta opposta: fare pressioni su Sarajevo per accettare il suo moribondo piano di pace (presentato a fine novembre con l’omologo tedesco, Klaus Kinkel).
Entrambi rifiutano la proposta della rispettiva controparte. Ma l’attacco più duro è quello che arriva da Parigi all’indirizzo dell’amministrazione Clinton, accusata di essere il maggiore ostacolo alla fine del conflitto.
Da Washington non si fa attendere la risposta veemente. Approvando la risoluzione per autorizzare l’invio di armi al governo bosgnacco per l’autodifesa, il Senato statunitense accusa le capitali europee di «atteggiamento idiota» nella gestione della crisi nell’ex-Jugoslavia.
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