Dicembre 1993.
Dopo il crollo dello Stari Most, niente in Bosnia ed Erzegovina è più uguale a prima [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
La guerra non può più fermarsi e le tre parti in conflitto - bosgnacchi, serbo-bosniaci e croato-bosniaci - non hanno più alcun interesse a sedersi al tavolo dei negoziati di pace.
Gli sforzi diplomatici della Conferenza per l’ex-Jugoslavia non trovano alcuno spunto risolutore, nonostante la nuova presenza dell’Unione Europea a Ginevra.
Tutto è congelato, in attesa degli sviluppi politici su due fronti, più vicini di quanto sembri. In Serbia e in Russia.
Il ritorno dei fratelli ortodossi
Proprio come nel dicembre 1992, anche le elezioni parlamentari del 19 dicembre 1993 consegnano al presidente serbo, Slobodan Milošević, una netta vittoria.
Di nuovo il suo Partito Socialista di Serbia non raggiunge la maggioranza assoluta, ma ci si avvicina molto (123 seggi su 250). A puntellarla arrivano i 6 deputati liberali di Nuova Democrazia, che manda così in frantumi la coalizione di opposizione di centro-destra Movimento Democratico di Serbia.
Le elezioni in Serbia si intersecano con un altro appuntamento elettorale cruciale in Europa. Quello del rinnovo della Duma di Stato in Russia il 12 dicembre.
Il presidente della Federazione Russa, Boris El'cin, si trova a dover affrontare un’opposizione “rosso-bruna” (i nazional-comunisti) che in Parlamento è ora la prima forza con 106 seggi su 450. E che invoca la rinascita dell’Impero, con la questione bosniaca come fattore di politica interna.
È così che non solo a Belgrado, ma soprattutto a Banja Luka si riaccende il fuoco della “fratellanza ortodossa”.
A evocarla è proprio il presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić, che parla di un’unione di Paesi a maggioranza ortodossa attorno alla Russia per far nascere la «rivoluzione culturale slava». Un nuovo «centro di resistenza all’Occidente», accusato di voler imporre il proprio ordine del mondo.
Un Natale senza tregua
Proprio questa nuova fiammata di retorica nazionalista e anti-occidentale nel campo “ortodosso” spinge l’amministrazione statunitense di Bill Clinton a interessarsi con maggiore urgenza alla situazione balcanica.
Il nuovo approccio basato sull’intangibilità dei confini è legato non solo al rischio che gli Stati Uniti siano percepiti come impotenti di fronte al conflitto nell’ex-Jugoslavia, ma soprattutto al fatto di voler impedire il corso degli eventi tratteggiato in un controverso rapporto della propria intelligence.
Con la divisione della Bosnia ed Erzegovina in tre entità (secondo tutti i piani di pace presentati dalla comunità internazionale nell’ultimo anno), lo scenario è quello della creazione di una Grande Serbia, una Grande Croazia e una Grande Albania.
Sembra dimostrarlo anche l’ultimo incontro tra il presidente serbo Milošević e quello croato, Franjo Tuđman, tra il 20 e il 21 dicembre a Ginevra. I due si accordano per una spartizione della Bosnia ed Erzegovina secondo le linee tracciate dal nuovo Piano Juppé-Kinkel.
Ma il piano viene respinto dal presidente bosniaco, Alija Izetbegović, in particolare per lo smembramento della Repubblica in tante piccole enclave e per la mancanza di precisione sullo status delle città di Sarajevo e Neum.
Nemmeno l’unico risultato concreto raggiunto all’ultima sessione della Conferenza per l’ex-Jugoslavia viene rispettato. La tregua natalizia concordata tra le parti non trova nessuno disposto a metterla in atto. A Sarajevo muoiono cinque cittadini sotto le bombe.
Nel frattempo a New York l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva una risoluzione che, tra le altre cose, esorta il Consiglio di Sicurezza a revocare l’embargo sulla fornitura di armi per il governo della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina.
Gli Stati Uniti votano a favore, proprio in virtù del cambio di atteggiamento dell’amministrazione Clinton. Gli alleati europei si astengono, riparandosi dietro all’ennesimo piano di pace che non sembra avere nessuna speranza sul campo.
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