Luglio 1993.
Nel pieno degli scontri armati in Bosnia centrale e orientale tra bosniaci musulmani, serbo-bosniaci e croato-bosniaci, Serbia e Croazia hanno impostato un dialogo politico di alto livello [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
Il presidente serbo, Slobodan Milošević, e il presidente croato, Franjo Tuđman, hanno concordato un piano di divisione etnica della Bosnia. Un progetto risalente al 1991, ma che questa volta ha fatto un salto di qualità.
Alla sessione del 16 giugno della Conferenza per l’ex-Jugoslavia Milošević e Tuđman hanno presentato ufficialmente la proposta di dividere la Bosnia ed Erzegovina in tre Stati etnicamente omogenei.
La comunità internazionale inizia seriamente a pensarci. È la pietra tombale posta sul Piano Vance-Owen per la pace in Bosnia.
Sarajevo sotto scacco
Il presidente della Bosnia ed Erzegovina, Alija Izetbegović, se n’è andato da Ginevra contrariato dalla proposta Milošević-Tuđman e riservandosi di dare l’ultima parola dopo una consultazione a Sarajevo con la Presidenza collettiva.
Proposta che, senza troppe sorprese, viene bocciata dalla Presidenza della Bosnia il 9 luglio.
Izetbegović si trova però a fronteggiare una situazione particolarmente complessa a Sarajevo, sia sul piano politico sia su quello sociale.
Perché più di un anno di guerra in Bosnia ha creato due fazioni: una moderata - disposta a scendere a compromessi con serbi e croati - e una nazionalista - che chiede la destituzione dello stesso Izetbegović.
Per parare i colpi dei nazionalisti, il presidente bosniaco deve accentuare il carattere radicale della sua politica, anche oltre quanto lo spingerebbe la propria indole.
A questo si aggiunge uno scenario sempre più critico a Sarajevo, sotto assedio dall’aprile del 1992. La popolazione è ormai senza cibo, acqua potabile, elettricità e gas e il fiume Miljacka è pieno di cadaveri in decomposizione.
L’8 luglio l’alta commissaria delle Nazioni Unite per i rifugiati, Sadako Ogata, denuncia l’esercito di Ratko Mladić per il continuo blocco dei convogli dell’UNHCR per requisire il carburante necessario al funzionamento delle pompe d’acqua in città.
Sarajevo è anche terrorizzata all’interno dalle bande di criminali guidate dal capo della 10ª brigata di montagna, Musan Topalović-Caco, e dal comandante della 9ª brigata di montagna, Ramiz Delalić-Ćelo. A farne le spese sono soprattutto i cittadini serbo-bosniaci e i croato-bosniaci rimasti dentro la città assediata.
Sull’onda dell’emozione per quanto sta accadendo a Sarajevo, a Tokyo si apre il 7 luglio il vertice dei leader del G7.
Rispetto a quanto emerso al vertice di Copenaghen della Comunità Europea di fine giugno, i leader dei sette Paesi più industrializzati al mondo decidono di fare un passo indietro e mettono nero su bianco che non accetteranno nessuna soluzione di divisione territoriale imposta con la forza ai bosgnacchi (i bosniaci musulmani).
È sempre la solita politica degli appelli alla ragione e dei tentativi di de-escalation, che però non hanno un impatto reale sul campo di battaglia. E soprattutto non è una posizione intransigente.
Nel frattempo diversi Stati membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica - Algeria, Bangladesh, Indonesia, Malesia, Marocco, Pakistan e Turchia - creano ancora più instabilità, inviando (a scopo propagandistico) 18 mila soldati a sostegno dei bosgnacchi.
Un nuovo Piano in vista
La dichiarazione del G7 non è per nulla intransigente. E lo dimostrano anche gli sviluppi del nuovo round di negoziati della Conferenza per l’ex-Jugoslavia, tra il 27 e il 30 luglio a Ginevra.
A presiederla sono il negoziatore della Comunità Europea per l’ex-Jugoslavia, David Owen, e il rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Thorvald Stoltenberg.
I due co-presidenti dei negoziati di pace prendono atto della radicale revisione della posizione di Izetbegović, passato nel giro di nemmeno un mese dalla strenua difesa di un Bosnia multietnica, multiculturale e indivisibile a una Bosnia smembrata su base etnica.
Alla base di questo cambio di rotta ci sono settimane di sconfitte dell’Esercito della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina a Mostar, Banja Luka, Brčko, Goražde e Žepče.
In particolare le truppe serbo-bosniache di Mladić sono riuscite a tagliare i collegamenti tra Sarajevo, Foča e Goražde, creando un corridoio che collega i territori nella Bosnia nord-orientale con quelli dell’Erzegovina.
«Spero che nessuno me ne vorrà, se m’impegnerò questa volta per trovare una soluzione per il popolo musulmano, il più colpito dalla guerra», commenta in modo amaro il presidente Izetbegović prima di iniziare i colloqui a Ginevra.
Il 30 luglio il presidente bosniaco accetta il compromesso informale presentato da Owen e Stoltenberg, che sa già di nuovo piano per la pace.
La base è chiaramente quella tratteggiata nella proposta Milošević-Tuđman. Un triplice smembramento della Bosnia ed Erzegovina su base etnica, con il trucco lessicale di “Unione delle Repubbliche di Bosnia ed Erzegovina” per non risolvere la questione se il Paese dovrà diventare una federazione o una confederazione.
È chiaro che serbi e croati di Bosnia ne escono vincitori e i bosgnacchi devono raccogliere le briciole.
Ma diversi problemi rimangono al momento irrisolti: l’ampiezza del territorio controllato dai bosgnacchi, cosa fare delle enclave nella Bosnia orientale, lo status di Sarajevo, l’accesso al fiume Sava e all’Adriatico.
Altrettanto evidente - ma non per questo ovvio per i negoziatori - è che il nuovo piano di pace ancora all’orizzonte sta nascendo già storto.
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