Settembre 1993.
Mentre il cerchio dell’assedio su Sarajevo viene chiuso dalle forze serbo-bosniache, sul piano diplomatico si registra un ennesimo fallimento [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
A Ginevra viene presentato un nuovo piano di pace per la Bosnia ed Erzegovina, il Piano Owen-Stoltenberg, che prende fin troppi spunti dall’intesa sulla spartizione del Paese tra il presidente serbo, Slobodan Milošević, e quello croato, Franjo Tuđman.
Ma l’ennesima soluzione di compromesso si scontra con l’impossibilità di attuazione sul campo, perché lascia ai bosgnacchi solo le briciole della Repubblica.
Il Piano Owen-Stoltenberg è finito non appena viene presentato. E le conseguenze - inevitabilmente - si fanno sentire anche all’interno di ciascuna parte in lotta.
Croazia. Tuđman in crisi
Nonostante l’apparente intesa tra Zagabria e Belgrado per la spartizione della Bosnia ed Erzegovina, gli scontri armati tra i due eserciti si riaccendono a inizio settembre in due aree della Croazia.
A scatenarli è il tentativo croato di riconquistare il ponte di Maslenica, otto mesi dopo la fallita operazione militare per ripristinare il collegamento vitale tra la capitale Zagabria e la Dalmazia fatto saltare dai serbi nel novembre 1991.
L’attacco questa volta ha successo e il ponte viene riaperto, ma gli scontri si estendono oltre la Dalmazia. Il 9 settembre le truppe croate attaccano Divoselo, un piccolo paese nella Krajina settentrionale.
Divoselo viene raso al suolo e 67 serbo-croati trucidati in un’esecuzione di massa. È il pretesto per una reazione furiosa dell’esercito avversario.
Le città di Zara, Spalato, Gospić, Karlovac, Samobor, Sisak, Sebenico e perfino la periferia di Zagabria vengono bombardate, costringendo Tuđman a chiedere il cessate il fuoco tre giorni più tardi.
A Zagabria le opposizioni iniziano a mettere in crisi il presidente. Il 20 settembre alcuni intellettuali di spicco criticano duramente l’intervento militare in Bosnia a sostegno della Repubblica Croata dell’Erzeg-Bosnia.
Ma sono i numeri a pesare su Tuđman. Quasi un terzo dei 900 mila croato-bosniaci è dovuto fuggire dalla Posavina (la regione della Bosnia centro-orientale confinante con la Croazia) durante l’avanzata serbo-bosniaca. Un altro terzo è in condizioni critiche nella Bosnia centrale per gli attacchi bosgnacchi.
Serbia. Šešelj contro Milošević
In Serbia la situazione non è molto più stabile e, ancora una volta, a causa delle conseguenze della conflittualità nella Republika Srpska.
A Banja Luka un gruppo di militari ostili all’arricchimento dei profittatori di guerra e vicini al comandante dell’esercito serbo-bosniaco, Ratko Mladić, tentano un golpe contro il governo del presidente Radovan Karadžić.
Il colpo di Stato fallisce - non prima che vadano distrutte le ultime delle 13 moschee di Banja Luka rimaste - ma le ripercussioni si avvertono a Belgrado.
Il leader del Partito Radicale Serbo, Vojislav Šešelj, attacca il presidente serbo Milošević, accusandolo di essere il burattinaio della tentata rivolta in Republika Srpska contro il radicale Karadžić. Ma soprattutto di voler fare lo stesso in Serbia.
Šešelj diventa sempre più aggressivo, al punto di accusare il primo ministro serbo, Nikola Šainović, di avere «vestito la patria a lutto».
Milošević coglie la palla al balzo per accusarlo - come avevano fatto i golpisti con Karadžić - di fascismo. E minaccia di processarlo per i delitti commessi dai suoi seguaci in Bosnia ed Erzegovina.
Le accuse di crimini di guerra si intensificano tra i due, svelando apertamente che tutto l’establishment politico serbo è in qualche modo coinvolto nelle atrocità in corso in Bosnia.
Bosnia. Il quarto incomodo
Ma la situazione più delicata è quella che si registra all’interno dell’establishment bosniaco.
Tutto inizia con un sussulto inaspettato del Piano Owen-Stoltenberg per iniziativa del politico che ha contribuito ad affossarlo a fine agosto: il presidente della Bosnia ed Erzegovina, Alija Izetbegović.
Nonostante i combattimenti continuino con pochissime tregue a interromperli, Izetbegović si dice pronto a ridiscutere l’ultimo piano di pace a due condizioni. Che le due Repubbliche separatiste (serba e croata) garantiscano un referendum entro due anni per sancire la volontà del popolo, e che alla Repubblica musulmana sia riservato un seggio all’Assemblea delle Nazioni Unite.
È così che il 20 settembre le tre parti si incontrano in acque internazionali sull’incrociatore britannico ‘Invincible’, nel Mar Adriatico. Si discute nuovamente della spartizione del territorio bosniaco, dell’accesso al mare e delle amministrazioni speciali di Sarajevo e Mostar.
Ma il Piano Owen-Stoltenberg naufraga ancora. E ancora una volta per l’opposizione di Izetbegović, che punta al rialzo sulla percentuale di territorio da ottenere, forte di un nuovo fattore. I successi militari nella Bosnia centrale e nell’Erzegovina.
Dopo il via del piano operativo “Neretva 93” i bosgnacchi riconquistano oltre tremila chilometri quadrati di terreno, infliggendo pesanti sconfitte al Consiglio di difesa croato (l’esercito della Repubblica Croata dell’Erzeg-Bosnia) a Mostar e nella valle del fiume Lašva, tra Vitez e Travnik.
È così che i bosgnacchi vivono un momento di estasi nazionalista.
Un’assemblea composta dalle istituzioni culturali, politiche e musulmane decide di ripristinare il nome storico bošnjak al posto di ‘bosniaco musulmano’, anche se il termine ha più una connotazione etnica che esclusivamente religiosa: in Bosnia tutti i musulmani sono bošnjak, ma non tutti i bošnjak sono musulmani.
Anche il Parlamento bosniaco approva la linea dell’assemblea informale. E Izetbegović mette il punto sui negoziati di pace: «L’unica scelta rimasta è quella fra una guerra giusta e una pace ingiusta».
La reazione dei serbi è rabbiosa, con l’intensificazione dei bombardamenti su Tuzla, Zenica, Maglaj, Olovo e sulla stessa Sarajevo. Dalle alture sopra la città viene aperto il fuoco sull’Holiday Inn dove è riunito il Parlamento.
La linea dura di Izetbegović e dell’establishment politico di Sarajevo ha però anche un altro effetto, nello stesso campo bosniaco.
Perché Fikret Abdić - imprenditore e politico di Velika Kladuša, fondatore di uno dei conglomerati agricolo-industriali più importanti della Jugoslavia degli anni Ottanta, la Agrokomerc - si mette di traverso. E da leader della fazione “moderata” opposta al presidente bosniaco decide di alzare la posta in gioco.
Potendo contare sul sostegno pressoché incondizionato di 200 mila persone nell’estremità nord-occidentale della Bosnia, Abdić decide di forzare la mano con l’appoggio di Milošević e Tuđman, ben disposti nei confronti di un miliardario in grado di rompere il fronte bosgnacco.
L’imprenditore bosniaco propone di dividere la Bosnia ed Erzegovina non in tre ma in quattro parti. La quarta entità dell’Unione delle Repubbliche di Bosnia ed Erzegovina dovrebbe essere la regione che comprende Velika Kladuša e Bihać, abitata al 90% da bosniaci musulmani.
Il governo bosniaco si rifiuta categoricamente di accogliere la proposta. Abdić taglia i ponti con Sarajevo, accusando Izetbegović di fondamentalismo islamico.
Non solo. Il 27 settembre convoca un’assemblea di 400 membri che vota all’unanimità a favore della sua proposta di costituire la Regione autonoma della Bosnia Occidentale. Velika Kladuša ne è la capitale e Abdić il presidente, con la Difesa popolare della Bosnia Occidentale come esercito.
In Bosnia ed Erzegovina si apre così un nuovo fronte di guerra.
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Settembre '93. La stagione delle lotte intestine