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The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Gennaio '93. Sogni diplomatici infranti
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Gennaio '93. Sogni diplomatici infranti

Gennaio 1993.

Il 1992 si è chiuso con l’avvertimento degli Stati Uniti a Belgrado di non seguire una strada politica di egemonia violenta ed estremista in Kosovo, a costo di un intervento militare diretto [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].

Le elezioni presidenziali in Serbia hanno riconfermato la leadership di Slobodan Milošević e il primo ministro della Repubblica Federale di Jugoslavia, Milan Panić - sconfitto - deve anche subire il voto di sfiducia del Parlamento federale.

Sullo scacchiere internazionale i nazionalisti serbi cercano e trovano un’intesa con i nazionalisti comunisti e imperialisti in Russia, esasperando la convinzione di essere soli contro il mondo.

È proprio dalla diplomazia internazionale che si cerca di ripartire con l’anno nuovo.


Il Piano Vance-Owen

Dopo mesi di negoziati a Ginevra, il 2 gennaio si svolge per la prima volta una sessione della Conferenza sull’ex-Jugoslavia in cui sono presenti tutti i rappresentanti delle parti in guerra in Bosnia ed Erzegovina.

I leader militari e politici della Republika Sprska, della Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia e il governo di Sarajevo.

Manca solo il neo-rieletto presidente serbo Milošević alla presentazione del Piano Vance-Owen, il nuovo piano di pace siglato dal negoziatore della Comunità Europea per l’ex-Jugoslavia, David Owen, e dall’inviato speciale ONU per la Bosnia, Cyrus Vance (già autore del Piano Vance per la Croazia nel dicembre 1991).

La versione definitiva del Piano Vance-Owen parte dal presupposto che non può esserci altra soluzione se non uno Stato decentralizzato, per tre ragioni:

  1. Tre Stati territorialmente distinti causerebbero pulizia etnica e trasferimenti forzati di popolazioni;

  2. Una confederazione sarebbe instabile, perché le componenti serba e croata stringerebbero subito forti legami rispettivamente con Belgrado e Zagabria;

  3. Uno Stato centralizzato non sarebbe accettabile da almeno due componenti etniche (sempre quella serba e quella croata).

Al centro, da sinistra: il negoziatore della Comunità Europea per l’ex-Jugoslavia, David Owen, e l’inviato speciale ONU per la Bosnia, Cyrus Vance

Il Piano Vance-Owen è un fascicolo di 20 pagine, diviso in tre sezioni:

  • principi costituzionali;

  • programma militare, con un cessate il fuoco incondizionato sotto l’egida delle Nazioni Unite;

  • mappa per l’organizzazione geografica della nuova Bosnia ed Erzegovina.

Il progetto costituzionale riconosce l’esistenza di 3 popoli costitutivi (serbi, croati e bosgnacchi), a ciascuno dei quali viene affidata la maggioranza etnica in 3 province (su 10 totali). Al distretto di Sarajevo viene concesso invece uno statuto speciale.

La Costituzione nazionale può cambiare solo con il consenso unanime dei tre popoli costitutivi.

Il governo centrale è composto di 9 membri (tre per ogni popolo costitutivo), mentre ogni provincia è retta da una propria assemblea unicamerale ed è dotata di una propria forza di polizia. Le province hanno poteri legislativi e giudiziari, ma la politica estera e la difesa sono di competenza esclusiva del governo centrale.

Nazioni Unite e Comunità Europea assumono l’incarico di garantire il rispetto delle frontiere esterne e, all’interno, di aprire le cosiddette “strade blu” per la libera circolazione di merci, beni e aiuti umanitari.

La divisione geografica della Bosnia ed Erzegovina secondo il Piano Vance-Owen: in rosso le province serbe, in verde quelle bosgnacche, in blu quelle croate e in giallo il distretto di Sarajevo

Complessivamente, i bosgnacchi controllerebbero il 32,3% del territorio, i serbo-bosniaci il 42,3% e i croato-bosniaci il 24,5%.

Sono proprio questi ultimi, quelli a cui viene riconosciuto meno controllo sul territorio, a essere gli unici soddisfatti dal Piano Vance-Owen.

Ai croato-bosniaci guidati del presidente della Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia, Mate Boban, vengono assegnate tre province - due nell’Erzegovina Occidentale e una in Posavina - tutte con frontiere comuni con la Croazia.

Il presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić, è invece furente e solo l’intervento di Milošević - pressato economicamente e militarmente dalla comunità internazionale - sblocca la situazione al Parlamento dei serbo-bosniaci a Pale.

Quasi un quarto del territorio conquistato in 9 mesi di guerra dovrebbe essere abbandonato e, accettando il nuovo Piano di pace, sfumerebbe il sogno della Grande Serbia: due province su tre sono scollegate e indifendibili da Belgrado.

Non va molto meglio al presidente della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, Alija Izetbegović, deluso da quello che considera un tradimento dei principi della Conferenza di Londra per un Paese unito, sovrano e democratico.

A questo si aggiunge il fatto che i bosgnacchi rimangono isolati tra due componenti etniche che hanno conquistato con la forza il territorio della Repubblica e a cui ora - in particolare i serbi - viene garantita l’amnistia.

Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić, della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, Alija Izetbegović, e della Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia, Mate Boban

Ma il Piano Vance-Owen riscuote poco successo anche sul piano dell’opinione pubblica internazionale, in particolare in Germania.

I due diplomatici sono attaccati per aver implicitamente sancito la pulizia etnica in Bosnia, per non aver previsto alcuna forza coercitiva e per non aver considerato quel 20% della popolazione che non si è riconosciuta in nessuno dei tre “popoli costitutivi” alle elezioni del 1990.

La Conferenza di Ginevra riprende il 23 gennaio, ma scivola subito nel caos e le tre delegazioni bosniache non firmano il Piano.

La sessione plenaria del 30 gennaio chiude un’inconcludente mese di trattative. Vance e Owen devono partire per Washington, con la speranza che almeno il nuovo governo statunitense guidato da Bill Clinton sostenga il Piano di pace.

Il negoziatore della Comunità Europea per l’ex-Jugoslavia, David Owen, e l’inviato speciale ONU per la Bosnia, Cyrus Vance, presentano il Piano di pace (2 gennaio 1993)

La ripresa delle ostilità

I tentativi diplomatici fallimentari hanno come contraltare l’intensificarsi dei combattimenti, sia in Bosnia ed Erzegovina sia in Croazia.

All’inizio di gennaio l’esercito bosniaco si riorganizza nella vallata della Drina (nella Bosnia orientale) sotto la guida dell’ufficiale di polizia Naser Orić, per rispondere alla pulizia etnica dei serbo-bosniaci che ha ridotto città come Srebrenica a roccaforti musulmane isolate e assediate.

Il 7 gennaio le forze di Orić attaccano il villaggio di Kravica e massacrano una quarantina di civili. Pochi giorni dopo fanno lo stesso a Skelani, da dove bombardano la sponda destra della Drina, territorio della Repubblica Federale di Jugoslavia.

Belgrado teme che la “jihad bosgnacca” possa espandersi al vicino Sangiaccato e per questo motivo la risposta serba è durissima.

Tutto l’arsenale militare jugoslavo - bombe al napalm incluse - vanno a sostegno del comandante dell’Esercito della Republika Srpska, Ratko Mladić, per ricacciare indietro le truppe di Orić.

Le città sulla riva sinistra della Drina sono di nuovo sotto assedio.

Skelani (Bosnia ed Erzegovina)

Intanto a Sarajevo va in scena un episodio atroce, che scredita definitivamente agli occhi dei bosgnacchi il ruolo della Forza di protezione delle Nazioni Unite (UNPROFOR).

L’8 gennaio il vicepremier bosniaco, Hakija Turajlić, si trova su un mezzo blindato dell’UNPROFOR in direzione dell’aeroporto di Sarajevo, per incontrarsi con una delegazione turca.

Dopo l’incontro, a nemmeno un chilometro dall’aeroporto, l’autoblindo viene bloccata da due carri armati e una cinquantina di paramilitari serbi di Vojislav Šešelj (leader del Partito Radicale Serbo, seconda forza al Parlamento di Belgrado). Sono convinti che a Sarajevo siano arrivati 60 mujaheddin.

Nonostante sia proibito dal regolamento dei caschi blu delle Nazioni Unite, dall’inizio del loro mandato le forze dell’UNPROFOR hanno implicitamente accettato le ispezioni dei propri veicoli da parte dei militari serbi e dei miliziani serbo-bosniaci.

Lo stesso accade proprio l’8 gennaio, con il benestare del colonnello francese Patrice Sartre.

Ma questa volta i paramilitari cetnici (ultra-conservatori) aprono il fuoco e uccidono a sangue freddo il vicepremier Turajlić.

Pochi giorni più tardi il responsabile - il comandante Stanislav Galić - viene nominato generale dell’Esercito della Republika Srpska, davanti agli occhi del francese Philippe Morillon, da settembre 1992 a capo proprio dell’UNPROFOR.

La notizia dell’omicidio del vicepremier bosniaco, Hakija Turajlić, a Sarajevo (8 gennaio 1993)

Dopo un anno relativamente tranquillo sul territorio croato - grazie allo status quo sancito dal Piano Vance - la situazione torna a riaccendersi per le azioni bellicose del presidente croato, Franjo Tuđman.

La tregua - non pace - siglata a Sarajevo nel gennaio 1992 sotto gli occhi dell’allora inviato speciale ONU per la Croazia, Cyrus Vance, viene violata un anno più tardi con l’attacco all’area protetta dalle Nazioni Unite (UNPA) della Krajina.

Il 22 gennaio scatta l’Operazione Maslenica, con l’intervento di forze terrestri e marittime a sud di Knin.

L’obiettivo è ripristinare il ponte di Maslenica (fatto saltare dai serbi nel novembre 1991), cruciale a livello strategico ed economico perché rappresenta il cordone ombelicale tra la Croazia centrale e la Dalmazia.

La prima fase dell’operazione è un successo per Zagabria, con l’allontanamento dell’esercito serbo dal perimetro di Zara.

Anche qui la reazione di Belgrado è violentissima. Il 25 gennaio scatta la controffensiva serba, che riconquista buona parte delle alture che dominano la città dalmata, con il supporto dei paramilitari cetnici di Šešelj e delle Tigri di Arkan.

Ma è soprattutto la comunità internazionale a rimanere più scossa, perché tutti i Piani di pace si stanno rivelando un fiasco.

Tra i caschi blu dell’ONU coinvolti nei combattimenti nell’UNPA della Krajina ci sono russi e francesi. Motivo per cui da Mosca e Parigi arrivano le risposte più dure.

La Francia invia nell’Adriatico la portaerei Clemenceau e quattro fregate, come avvertimento a Zagabria, supportata dalla portaerei britannica Ark Royal.

La Russia spinge il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ad approvare la Risoluzione 802, che minaccia la Croazia con sanzioni economiche se non ritira immediatamente le truppe dal territorio «occupato».

Ponte di Maslenica, presso Zara (Croazia)

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