Aprile 1993.
La riva sinistra della Drina, la sponda bosniaca del fiume che divide Serbia e Bosnia ed Erzegovina, è quasi completamente in mano serba. Resistono solo Žepa, Goražde e Srebrenica, ma sono ormai sull’orlo del collasso [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
Di fronte a quello che dopo un anno di guerra si sta preannunciando come un disastro, il presidente della Bosnia, Alija Izetbegović, è costretto a firmare il Piano Vance-Owen per la pace.
La mappa del futuro assetto del Paese in guerra sta però creando grossi problemi sul fronte serbo, con ripercussioni sullo stesso regime di Slobodan Milošević.
Perché nelle nuove operazioni militari internazionali - ancora deboli - sui cieli della Bosnia sta prendendo sempre più spazio la NATO, nonostante le continue giravolte diplomatiche degli Stati Uniti di Bill Clinton e della Russia di Boris El’cin.
Srebrenica “area protetta”
Le dimissioni di Cyrus Vance aprono un mese quantomeno controverso. L’inviato speciale ONU per la Bosnia non tollera più le posizioni equivoche del presidente statunitense Clinton, che si trascinano da gennaio per la paura di dover inviare soldati nei Balcani.
In attesa della nomina del suo successore come inviato speciale ONU per l’ex-Jugoslavia, Vance rimane comunque in carica per proseguire le trattative di attuazione del piano di pace.
Un incarico di difficoltà immane, considerato il fatto che, oltre ai combattimenti tra serbo-bosniaci e bosgnacchi (i bosniaci musulmani), i pessimi rapporti tra bosgnacchi e croato-bosniaci sono un’altalena di stallo armato e aperta ostilità.
Come dimostra uno dei massacri più efferati compiuti nella Bosnia centrale dal Consiglio di difesa croato (l’esercito della Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia). Ad Ahmići - a una cinquantina di chilometri da Sarajevo - 116 civili bosgnacchi vengono uccisi in un attacco pianificato, con la distruzione di decine di edifici e delle due moschee del piccolo paese.
Le ostilità sono giornaliere anche tra i due attori più forti nel Paese, serbo-bosniaci e croato-bosniaci. Ma l’Esercito della Republika Srpska guidato da Ratko Mladić è più impegnato nella pulizia etnica delle aree a maggioranza musulmana della Bosnia.
Srebrenica è sempre l’obiettivo principale e il tempismo dei nuovi attacchi sciocca l’opinione pubblica internazionale.
Non appena scattata l’Operazione Deny Flight del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 12 aprile per rendere effettivo il divieto di voli militari nello spazio aereo bosniaco, i serbo-bosniaci rispondono subito con un bombardamento alla città.
Granate incendiarie e bombe a grappolo colpiscono indiscriminatamente i civili per costringere i difensori alla resa. Secondo Mladić l’assalto si concluderà in tre giorni, con la presa della città.
Mentre a New York si sblocca l’ingresso della Macedonia nell’ONU con il nome di Former Yugoslav Republic of Macedonia (FYROM) - anche se la Grecia rifiuta il riconoscimento diplomatico e impone a Skopje un embargo economico - il 16 aprile si svolge una delicatissima riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza.
La convinzione è che, in caso di resa di Srebrenica, il Piano Vance-Owen fallirà definitivamente per disinteresse serbo nell’attuare la mappa sull’assetto del Paese.
Ecco perché viene approvata la Risoluzione 819 che definisce Srebrenica una «area protetta».
Più precisamente la Risoluzione stabilisce che la città deve essere «libera da ogni attacco armato o da qualsiasi altra azione nemica». E 150 caschi blu vengono autorizzati a operare nella città.
Ma il dietro alle quinte è inquietante.
Il sottosegretario delle Nazioni Unite per gli Affari Politici e di Peacebuilding, Marrack Goulding, è consapevole che la Forza di Protezione delle Nazioni Unite (UNPROFOR) non ha la capacità per gestire la situazione in Bosnia ed Erzegovina.
Manca la volontà e la determinazione per un vero mandato nel Paese in guerra. E anche i caschi blu guardano con scetticismo alla Srebrenica «area protetta».
Senza il consenso dei serbo-bosniaci - gli assedianti, i belligeranti armati direttamente da Belgrado - la Risoluzione 819 è solo una dichiarazione di principio.
Lo stesso controverso comandante francese dell’UNPROFOR, il generale Philippe Morillon, se ne rende conto. Per questo motivo inizia trattative con Mladić e con il comandante dell’Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, Šefer Halilović.
L’obiettivo - per quanto discutibile, ma quasi una scelta obbligata - è di convincere i bosgnacchi a consegnare le armi all’UNPROFOR e i serbo-bosniaci a cessare il fuoco, permettendo l’insediamento di una compagnia di caschi blu a Srebrenica.
L’accordo del 18 aprile sulla smilitarizzazione della città non viene però rispettato completamente dai difensori. Non fidandosi delle promesse degli assedianti, consegnano ai caschi blu solo poche armi obsolete.
A Srebrnica la compagnia canadese UNPROFOR non viene vista di buon occhio, sia per il ricordo del generale Lewis MacKenzie, sia per la convinzione dell’inutilità dei soldati internazionali per fermare il progetto egemonico serbo.
Il braccio di ferro tra Belgrado e Pale
Quello che nel frattempo accade sul piano politico e diplomatico tra le varie anime del mondo nazionalista serbo mostra che il fronte non è così compatto. E, come sempre, una divisione può costare caro.
Il 3 aprile il Parlamento serbo-bosniaco (riunito a Pale) respinge per l’ennesima volta il Piano Vance-Owen. La motivazione è sempre la stessa.
Più di un quarto del territorio conquistato in quasi un anno di guerra dovrebbe essere abbandonato. Sfumerebbe così il sogno della Grande Serbia: due delle tre province assegnate ai serbo-bosniaci sarebbero scollegate da Belgrado.
Nemmeno il presidente serbo Milošević riesce a muovere le sue pedine come vorrebbe.
E intanto la Repubblica Federale di Jugoslavia viene colpita con ulteriori pesanti sanzioni economiche, come stabilito dalla Risoluzione 820 del Consiglio di Sicurezza ONU.
Una Risoluzione che ha una grande eco soprattutto in Russia, dove i nazionalisti nazional-comunisti attaccano pesantemente sia le Nazioni Unite sia il presidente El’cin per quella che viene considerata un’offesa ai fratelli ortodossi.
La situazione a Mosca è molto delicata. Tanto che l’ONU decide di congelare momentaneamente le sanzioni contro Belgrado fino al 26 aprile, data del referendum sulle riforme di libero mercato volute da El’cin nella Federazione Russa.
Questi eventi radicalizzano i serbo-bosniaci, che di nuovo il 25 aprile votano contro il Piano Vance-Owen e sul campo sferrano attacchi da Bihać a Brčko.
«Tutti sono contro di noi. A parte Dio, la Russia e altri fratelli ortodossi», è la posizione intransigente del presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić.

Ma quasi contemporaneamente scoppia la bolla di illusione sia per i serbo-bosniaci, sia per i bosniaci musulmani.
Perché proprio il 25 aprile viene rinnovato l’embargo internazionale sulla fornitura di armi su tutto il territorio dell’ex-Jugoslavia. Una decisione che da molti mesi sta creando enormi problemi all’Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina.
Il 26 aprile va invece in fumo la convinzione di Karadžić che la Russia sia un alleato della Republika Srpska. A Mosca El’cin vince il referendum da lui stesso indetto.
E così, sventati possibili contraccolpi della Risoluzione 820 sulla stabilità istituzionale russa, le sanzioni contro Belgrado vengono scongelate.
Il flusso di merci verso la Repubblica Federale di Jugoslavia viene rigidamente controllato con «tutte le misure necessarie» dalla NATO e dalla UEO (Unione Europea Occidentale).
E l’Operazione Sharp Guard (“guardia rigida”, appunto) implementerà il mandato di monitoraggio della flotta delle due organizzazioni - rispettivamente presenti nell’Adriatico e sul Danubio - anche alle acque territoriali serbe e montenegrine, in caso di mancata firma del Piano Vance-Owen entro il 5 maggio.
Nel frattempo gli Stati uniti congelano tutte le proprietà jugoslave sul proprio territorio e lo stesso fa la Russia di El’cin: «Non proteggeremo coloro che si oppongono alla comunità mondiale».
Le sanzioni travolgono letteralmente la Repubblica Federale di Jugoslavia. Il 28 aprile il Parlamento di Belgrado dà subito il via libera al piano di pace, esortando anche quello serbo-bosniaco a fare lo stesso. Ma ormai l’economia jugoslava è in ginocchio.
È dal maggio 1992 che la comunità internazionale ha imposto misure restrittive per il coinvolgimento di Belgrado nella guerra in Bosnia.
Per i primi mesi non sembrano sortire grossi effetti. Ma mesi e mesi di guerra - con finanziamenti militari ai serbi di Bosnia e di Croazia che toccano un terzo del prodotto interno lordo - rendono la situazione dell’inflazione insostenibile.
Il paniere supera del 117% la paga media di un cittadino serbo o montenegrino e la disoccupazione tocca l’80% della popolazione. Nel frattempo un’élite di circa un milione di persone si sta arricchendo con i profitti di guerra.
La Repubblica Federale di Jugoslavia è di fatto uno dei 40 Paesi più poveri al mondo.
Milošević lo sa e si rende conto che la retorica nazionalista si sta sgonfiando. «Se questo è il prezzo per ottenere l’abolizione delle sanzioni, è la maniera più economica», confessa a proposito della necessità di una soluzione alla crisi bosniaca.
Questo non significa l’addio del progetto della Grande Serbia, ma un cambio di paradigma: ci si arriverà per gradi. È il serbo-bosniaco Karadžić che lo deve capire, come si legge in una lettera scritta dal presidente serbo, insieme a quello del Montenegro, Momir Bulatović, e della Repubblica Federale, Dobrica Ćosić:
«Questo non è il tempo delle competizioni patriottiche. È il tempo delle decisioni accorte, lungimiranti e coraggiose. Una guerra inutile non può che portare disgrazie e lutti».
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