Agosto 1992.
L’Occidente ha appena scoperto gli orrori dei campi di sterminio serbi in Bosnia ed Erzegovina per i civili di etnia musulmana, che rendono più sistematica la pulizia etnica nei territori occupati [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
La risposta passa ancora una volta dalla diplomazia: dalle Risoluzioni delle Nazioni Unite e dalle conferenze internazionali.
Ma sul campo la situazione rimane tragica. E continua a peggiorare per il rapporto sempre più ambiguo della Croazia del presidente Franjo Tuđman, con pesanti ripercussioni sia in patria sia nel teatro di guerra bosniaco.
L’ipocrisia dell’embargo sulle armi
La pubblicazione del reportage sui campi di sterminio in Bosnia ed Erzegovina (che varrà al giornalista Roy Gutman il Premio Pulitzer) incide e non poco sulla scena politica internazionale.
Il 3 agosto il presdiente bosniaco, Alija Izetbegović, si rivolge al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per abolire la Risoluzione 713, quella che dal 25 settembre 1991 ha imposto il «generale e totale embargo su tutte le forniture di armi e materiale bellico» sul territorio jugoslavo.
È da quasi un anno che nei Balcani si stanno facendo sentire gli effetti della “mossa Kansas City” di Slobodan Milošević.
Izetbegović si richiama all’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, che garantisce a uno Stato il diritto all’autodifesa in caso di aggressione armata.
Quello che colpisce della passività dei governi occidentali è il fatto di non volersi smuovere da una posizione ipocrita, che non ha niente a che fare con la realtà.
L’embargo colpisce solo la Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, perché semplicemente Belgrado non ha bisogno di rifornimenti esterni. La guerra in Bosnia è iniziata con gli arsenali pieni, che possono rifornire quasi illimitatamente l’esercito serbo-bosniaco di Ratko Mladić.
A Sarajevo viene detto che togliere l’embargo comporterebbe un aumento delle armi in circolazione, con più morti e più distruzione.
Inevitabilmente, il supporto viene richiesto, accettato e offerto dai Paesi islamici, che hanno tutto l’interesse di espandere la propria influenza politico-religiosa nella regione balcanica.
L’inerzia dell’Occidente viene spezzata solo dal rischio di attacco serbo corso da un aereo britannico in fase di atterraggio all’aeroporto di Sarajevo.
È così che il 13 agosto viene adottata dal Consiglio di Sicurezza la Risoluzione 770, che non solo ordina «accesso libero e continuo a tutti i campi, le prigioni e i centri di detenzione» per la Croce Rossa e le organizzazioni umanitarie.
Ma soprattutto invita gli Stati membri a prendere «tutte le misure necessarie» per facilitare gli aiuti umanitari in Bosnia. Uso della forza armata inclusa.
A svuotare del suo significato la Risoluzione 770 è però - ancora una volta - il segretario generale dell’ONU, Boutros Boutros-Ghali, che la interpreta nel modo più restrittivo possibile: i caschi blu possono solo scortare convogli e difendere se stessi.
Alla missione UNPROFOR viene sì attribuito il nuovo significato di assicurare la sopravvivenza della popolazione bosniaca, ma senza il potere di imporre la pace.
Ecco perché proprio lo stesso giorno viene approvata anche la Risoluzione 771, che ordina a tutte le parti in conflitto di «cessare immediatamente ogni violazione della legge umanitaria internazionale, incluse azioni come la pulizia etnica».
Inoltre, la Commissione ONU per i diritti umani incarica il polacco Tadeusz Mazowiecki di raccogliere tutte le informazioni «possibili e credibili» sulle violazioni dall’inizio delle guerre nell’ex-Jugoslavia, nel 1991.
A Belgrado e Banja Luka tutta questa reazione alla guerra e allo sterminio di civili in atto scatena due reazioni diverse.
Il premier della Repubblica Federale di Jugoslavia, Milan Panić, cerca di migliorare l’immagine della Serbia, chiedendo che sia i passi di frontiera tra Jugoslavia e Bosnia, sia le basi militari serbe e montenegrine vengano posti sotto il controllo ONU.
Inoltre, si associa alle voci liberali (le poche rimaste) critiche nei confronti del presidente serbo Milošević, chiedendone le dimissioni.
All’opposto, i serbo-bosniaci di Radovan Karadžić portano fino in fondo il proprio scissionismo, rompendo gli ultimi stralci di legame con la Bosnia.
Dal 12 agosto i leader della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina si sbarazzano del richiamo bosniaco e la trasformano in Republika Sprska. Repubblica serba, e basta.
La svolta autoritaria in Croazia
Con l’attenzione dell’opinione pubblica e della diplomazia internazionale tutta focalizzata sulla situazione in Bosnia ed Erzegovina, ad approfittarne è il presdiente croato Tuđman.
Prima di tutto, grazie all’accordo di luglio con Izetbegović, ai croato-bosniaci viene riconosciuta la doppia cittadinanza e possono così partecipare alle elezioni parlamentari in Croazia dell’1-2 agosto.
Grazie al sostegno incondizionato della diaspora erzegovese, l’Unione Democratica Croata (HDZ) di Tuđman conquista il 43 per cento dei voti. Per il sistema maggioritario in vigore, due terzi del Parlamento sono ora in mano ai nazionalisti.
Viene sciolto il governo di unità democratica e come primo ministro viene nominato Hrvoje Šarinić, una marionetta nelle mani del presidente croato.
La svolta autoritaria si fa sentire anche sul piano delle «violazioni della legge umanitaria internazionale» secondo la Risoluzione 771.
I cittadini di etnia serba - le «canaglie bizantine», come li chiama Tuđman, riferendosi alla loro fede ortodossa - subiscono una persecuzione che attira scarsa attenzione internazionale (in modo colpevole) solo per il livello raggiunto da quella contemporaneamente in atto in Bosnia.
A Gospić, Karlovac, Sisak, Virovitica, Ogulin e Saruvar vengono commessi veri e propri massacri. Ma non si contano le devastazioni di case ed edifici di culto serbi, gli sgomberi dalle aree di confine, i soprusi e gli omicidi dei prigionieri di guerra.
Il leader croato si appella alla «causa nazionale» nel conflitto in atto contro Belgrado e bolla come «nemici interni» tutti coloro che denunciano la persecuzione dei serbi, il potere della polizia segreta e le violazioni dell’indipendenza della magistratura.
Tra Londra e Sarajevo
Considerato il livello di complessità della situazione nella regione balcanica, il Regno Unito (che detiene la presidenza di turno della Comunità Europea) decide di convocare a Londra una Conferenza allargata sull’ex-Jugoslavia.
Sono in molti a partecipare alla Conferenza di Londra.
I Paesi membri della Comunità Europea, le Repubbliche dell’ex-Jugoslavia (Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Macedonia), Stati Uniti, Canada, Russia, Cina, Giappone, Cecoslovacchia (presidente di turno della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa), Turchia (rappresentante dell’Organizzazione della cooperazione islamica), i Paesi confinanti (Albania, Austria, Bulgaria, Romania e Ungheria). Come osservatori, la Federazione Jugoslava e i rappresentanti della Serbia, dei croato-bosniaci, dei serbo-bosniaci e del Kosovo.
La Conferenza del 26/27 agosto - presieduta da Boutros-Ghali e dal premier britannico, John Major - ha come obiettivo la definizione della pace nei Balcani, una volta per tutte.
A Belgrado arriva la resa dei conti tra le due correnti. Il premier federale Panić non vorrebbe Milošević a Londra («Non voglio essere nella squadra perdente»), ma il presidente della Serbia viene invitato esplicitamente dai britannici.
L’uomo forte a Belgrado è pur sempre Milošević, che sta riuscendo nel suo progetto della Grande Serbia. In Croazia mantiene ancora il controllo di parte della Slavonia e della Krajina, in Bosnia ha conquistato due terzi del territorio: ovunque sono in atto le operazioni di omologazione etnica (con genocidi e diaspore dei non-ortodossi).
Il governo della Bosnia è sempre più insofferente e meno fiducioso in una soluzione diplomatica.
A esprimere questa disilussione è proprio il presidente Izetbegović, prima a parole e poi con i fatti.
In un’intervista per il quotidiano degli Emirati Arabi Al Khaleef Izetbegović afferma apertamente che «il nostro Paese non sarà liberato se non con le armi».
Detto fatto, alla vigilia della Conferenza di Londra, il 25 agosto scatena l’operazione Jug ‘92, un’offensiva per rompere l’accerchiamento a Sarajevo e liberare la capitale.
Ma proprio nella notte tra il 25 e il 26 agosto si registra anche uno degli episodi più drammatici dell’assedio di Sarajevo. L’attacco e la distruzione della Vijećnica, la Biblioteca Nazionale della Bosnia ed Erzegovina.
Dall’alto delle colline le forze serbo-bosniache prendono deliberatamente la mira sullo storico edificio che incarna le diverse anime intrecciate di Sarajevo.
Oltre un milione e mezzo di volumi antichi prende fuoco e secoli di storia vanno in fumo in poche ore, nonostante i tentativi disperati dei cittadini e dei pompieri (presi si mira dai cecchini).
In particolare Aida Buturović, studentessa universitaria, poi conosciuta come “la bibliotecaria di Sarajevo”. Dopo essere entrata nella sezione storica in mezzo all’incendio, riesce a recuperare alcuni dei tomi più preziosi. Ma fuggendo in strada, una scheggia di granata la colpisce alla testa e la uccide sul colpo.
Intanto, il documento approvato all’unanimità alla Conferenza di Londra si contraddistingue per i grandi ideali e per le novità burocratiche, più che per gli impegni realmente attuabili.
I 13 principi per la costruzione della pace includono il non-riconoscimento dei territori conquistati con la forza, il rispetto dei diritti umani, la chiusura dei campi di concentramento, la responsabilità personale per crimini di guerra e pulizia etnica.
In Bosnia ed Erzegovina, entro 96 ore le truppe serbe dovrebbero porre le armi pesanti sotto il controllo dell’UNPROFOR e allontanarsi entro una settimana dalle città di Sarajevo, Goražde, Jajce e Bihać.
La comunità internazionale decide anche di costituire un Comitato direttivo per coordinare gli sforzi per la pace: un enorme apparato burocratico (con un segretariato e sei gruppi di lavoro) con sede a Ginevra.
Considerati i risultati della Conferenza e la non-interruzione della guerra in Bosnia, il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung pubblica un editoriale che suona di sentenza: Cabaret e genocidio.
Il perché riesiede in tutto ciò che non è stato affrontato a Londra:
L’intervento armato dell’Occidente;
L’inasprimento delle sanzioni contro la Repubblica Federale di Jugoslavia;
L’eredità esclusiva della Federazione di Tito reclamata dalla Serbia;
L’oppressione delle minoranze, inclusi gli albanesi del Kosovo;
Il rapporto con le autorità della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, dal momento in cui i rappresentanti della Republika Sprska e della Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia vengono trattati alla pari.
Ancora una volta la comunità internazionale riempie di parole la regione balcanica, ma la situazione sul campo rimane inalterata.
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A questo link puoi trovare il riassunto del 1991.
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