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The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Marzo '93. Firmato col sangue
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Marzo '93. Firmato col sangue

Marzo 1993.

Mentre la nuova amministrazione statunitense guidata da Bill Clinton e la presidenza della Federazione Russa in mano a Boris El’cin avvallano a fatica il Piano Vance-Owen, in Bosnia ed Erzegovina procede senza sosta la contoffensiva serba nella valle della Drina [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].

Serbi e serbo-bosniaci mettono sotto assedio una dopo l’altra le città e bosniache, cancellando decine di villaggi abitati da bosgnacchi e continuando le operazioni di pulizia etnica.

La Forza di Protezione delle Nazioni Unite (UNPROFOR) è sempre più in difficoltà, ma sul piano diplomatico l’ONU cerca soluzioni per tamponare una crisi militare che da quasi un anno continua a insanguinare la Bosnia.


Il dramma di Cerska e Srebrenica

La città di Cerska cade subito, a inizio marzo. Dopo aver dato fuoco a più di venti paesi circostanti, l’Esercito della Republika Srpska guidato da Ratko Mladić prende d’assedio la città sulla Drina e la conquista in pochi giorni.

Di fronte alle notizie di massacri - come quello di oltre 700 assediati sorpresi in un’imboscata mentre cercano di scappare - il controverso comandante francese dell’UNPROFOR, il generale Philippe Morillon, prende una decisione plateale.

Il 5 marzo si reca in visita a Cerska per vedere con i propri occhi cosa sta accadendo.

Al suo ritorno annuncia alla stampa che «non c’è stato nessun massacro». E come fa a saperlo, gli chiedono i giornalisti. «Non si sentiva l’odore della morte».

L’ormai ben nota politica dell’acquiescenza francese continua inesorabilmente a fare il gioco dei più forti, i serbo-bosniaci, che proseguono l’offensiva armata contro le ultime città a maggioranza musulmana lungo il fiume Drina.

Con la caduta di Konjević Polje, tutta la riva sinistra del fiume è sotto il controllo dell’esercito di Mladić, fatta eccezione per tre roccaforti bosgnacche: Žepa, Goražde e Srebrenica.

Le città conquistate a marzo dai serbo-bosniaci lungo il fiume Drina (in blu) e quelle sotto assedio (in rosso)

In particolare a Srebrenica arrivano migliaia di profughi, mentre la città è in ginocchio. Mancano medicinali di primo soccorso, acqua, energia elettrica.

A una settimana dalle polemiche sul “non massacro” di Cerska, il comandante dell’UNPROFOR decide di recarsi in missione a Srebrenica, scortato dai caschi blu e accompagnato da medici internazionali.

Quello che però succede non è nei piani di Morillon, che deve fare buon viso a cattivo gioco.

Le donne di Srebrenica lo prendono quasi in ostaggio, non permettendo alla sua autoblindo di ripartire. Il comandante dei caschi blu è considerato un salvacondotto per evitare il peggio di fronte all’avanzata dei serbo-bosniaci.

«Sono il vostro scudo di difesa e rimarrò finché non arriverà il convoglio» per gli aiuti umanitari e l’evacuazione di feriti e vulnerabili, è la promessa di Morillon.

Dopo due giorni di trattative con Mladić, il 13 marzo il generale francese riparte da Srebrenica con la garanzia che entro la fine del mese arriveranno tre convogli dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).

Con le autorità di Sarajevo scoppia però una violenta polemica. Perché gli assedianti serbo-bosniaci bloccano gli aiuti umanitari, ma non creano problemi agli autobus vuoti necessari per portare via le persone da Srebrenica.

Per il governo bosniaco le evacuazioni condotte dall’UNHCR agevolano la pulizia etnica in una città a maggioranza musulmana al confine con la Serbia.

Il comandante della Forza di Protezione delle Nazioni Unite (UNPROFOR), il generale francese Philippe Morillon

Le posizioni sulla mappa della Bosnia

La guerra in Bosnia da mesi continua su due livelli. Quello della guerra vera e propria, combattuta nei villaggi e nella capitale Sarajevo. E quello della diplomazia internazionale, alla ricerca di una soluzione definitiva per concludere il conflitto.

Il piano di pace del negoziatore della Comunità Europea per l’ex-Jugoslavia, David Owen, e dall’inviato speciale ONU per la Bosnia, Cyrus Vance, dopo le prime resistenze sembra prendere sempre più slancio.

Il 25 marzo anche il presidente della Bosnia, Alija Izetbegović, è costretto a firmarlo a causa della situazione sempre più critica nel Paese, nonostante il tradimento delle promesse dell’Occidente sul mantenimento di un Paese unito, sovrano e democratico.

È una firma con il sangue, quello dei suoi concittadini. «Non siamo riusciti a salvare lo Stato, ma abbiamo salvato il nostro popolo», è il commento laconico che rilascia a New York.

Di fronte al rischio di farsi schiacciare da un’entità croata sostenuta da Zagabria e una serba foraggiata da Belgrado, le autorità a Sarajevo si attrezzano per rinforzare quel che rimane di uno Stato che impedisca la scomparsa dei bosniaci musulmani.

Per esempio, nell’Esercito della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina si vedono sempre meno bosniaci di etnia croata o serba, in particolare tra i livelli di comando.

La divisione geografica della Bosnia ed Erzegovina secondo il Piano Vance-Owen: in rosso le province serbe, in verde quelle bosgnacche, in blu quelle croate e in giallo il distretto di Sarajevo

La mappa del futuro assetto della Bosnia ed Erzegovina viene accettata anche dal presidente della Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia, Mate Boban, mentre per i serbo-bosniaci la situazione è molto più delicata.

Il presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić, è contrario al Piano Vance-Owen e cerca di prendere tempo.

Le minacce degli Stati Uniti di revocare l’embargo sulla fornitura di armi su tutto il territorio dell’ex-Jugoslavia sono in realtà prive di credibilità per le stesse giravolte diplomatiche dell’amministrazione Clinton.

Il Piano Vance-Owen è stato sì accettato nei suoi punti principali, ma senza alcuna intenzione di sostenerlo con una risoluzione dell’ONU. La motivazione è sempre la stessa: Washington non vuole rischiare di dover inviare soldati nei Balcani.

E, di riflesso, i serbi sono ormai certi di non dover temere bombardamenti statunitensi.

Il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton

L’Operazione Deny Flight

A proposito di bombardamenti, l’ultimo giorno del mese a New York viene dato seguito a una nuova decisione che ha dirette conseguenze nei cieli della Bosnia.

La Risoluzione 816 approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 31 marzo autorizza l’uso di «tutte le misure necessarie» per rendere effettivo il divieto di voli militari nello spazio aereo bosniaco.

In soli sei mesi oltre 500 violazioni sono state commesse quasi esclusivamente da velivoli di Belgrado, per trasportare armi e soldati dell’esercito serbo-bosniaco.

Quella che viene battezzata Operazione Deny Flight (“negare il volo”, appunto) è una dimostrazione prettamente politica di potenza militare da parte della comunità internazionale, a sostegno dell’azione diplomatica del Piano Vance-Owen.

Per la prima volta nella storia è l’Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord (NATO) a essere incaricata di attuare l’operazione militare fuori dal territorio dei suoi Paesi membri.

Per non rischiare di mettere il presidente russo El’cin in una posizione insostenibile, i 16 alleati decidono di limitare l’azione delle forze aeree NATO, su richiesta di Mosca.

Gli aerei dell’Alleanza Atlantica non possono né sparare su obiettivi terrestri (anche se attaccati), né inseguire velivoli nello spazio aereo della Repubblica Federale Jugoslava.

Nei fatti è una no-fly zone, ma con grossi ostacoli per la sua implementazione posti già in fase di istituzione.

Un F-15C dell'United States Air Force utilizzato per l’Operazione Deny Flight in fase di decollo

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