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The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Dicembre '92. Fratelli ortodossi, nemici Yankee
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Dicembre '92. Fratelli ortodossi, nemici Yankee

Dicembre 1992.

La Repubblica Federale di Jugoslavia è isolata e il transito navale quasi completamente bloccato dalle sanzioni internazionali [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].

Nel frattempo, a Belgrado, il leader serbo, Slobodan Milošević, e il premier federale, Milan Panić, si sfidano nella campagna elettorale per le presidenziali del 19 dicembre.

Ma la tensione aumenta esponenzialmente, con i nazionalisti serbi che accusano Panić di tramare con la minoranza etnica albanese in Kosovo e minacciano una possibile guerra civile, etnica e religiosa anche oltre la Bosnia ed Erzegovina.

La comunità internazionale non può accettarlo.

Ma si iniziano già a intravedere i segnali di quale Paese i nazionalisti serbi guardano con più speranza e di quale invece iniziano a odiare come il nemico più temibile.


I Balcani visti da Mosca

L’alleanza tra Mosca e Belgrado diventa sempre più salda, man mano che la guerra nell’ex-Jugoslavia prosegue.

Volontari russi, bielorussi, ucraini, cosacchi e moldavi sono impegnati a combattere in Bosnia ed Erzegovina e compaiono tra i consiglieri del comandante dell’esercito della Republika Srpska, Ratko Mladić.

Milošević cerca in particolare la sponda dei cosiddetti “rosso-bruni”, ovvero le forze comuniste e imperialiste critiche verso la nuova politica di Mosca dialogante con l’Occidente.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica c’è un universo di nazionalisti pronti a preparare i nuovi “patrioti” russi, così come ad aiutare i “fratelli ortodossi” nei Balcani.

Si delinea così l’asse tra i nazionalisti russi e i nazionalisti serbi.

Li accomuna la fede ortodossa, l’odio per il potere internazionale dell’Occidente e la lotta ideologica contro i gruppi etnici di fede musulmana (i serbi vengono accusati dalla Risoluzione 798 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di «sistematiche violenze contro donne e bambine» bosgnacche, anche nei campi di concentramento).

Scrive Rossija, il giornale dei nazionalisti russi moderati:

«La Russia deve impedire l’intervento militare in quest’area. La stabilità nei Balcani è la stabilità della Russia. E oggi è posta in questione persino la sua unità».

La Repubblica Federale di Jugoslavia (in blu) e la Federazione Russa (in rosso)

I Balcani visti da Washington

Quest’intesa sempre più pericolosa tra Mosca e Belgrado (o almeno tra gli estremisti di entrambe le parti) crea non pochi grattacapi dall’altra sponda dell’Atlantico.

Dopo un anno e mezzo di guerra e di dissoluzione della Jugoslavia, gli Stati Uniti si rendono conto che i Balcani Occidentali non sono affatto un contesto isolato e circoscritto di instabilità regionale, nel più ampio contesto internazionale.

La Serbia sta diventando la proiezione dei timori dei nazionalisti russi sulle conseguenze della caduta dell’Unione Sovietica (paragonata alla Jugoslavia).

E, di ritorno, a Washington si teme che quello che sta accadendo in Bosnia e Croazia (con ripercussioni anche in Macedonia e Kosovo) possa replicarsi su scala ancora maggiore nel territorio della Federazione Russa.

La Repubblica Federale di Jugoslavia (in blu) e gli Stati Uniti d’America (in giallo)

A questo si somma il contesto politico statunitense e internazionale di fine 1992.

Sconfitto da Bill Clinton alle elezioni presidenziali, George H. W. Bush non ha più nulla da perdere e si lancia in un’accusa radicale contro la componente serba dell’ex-Jugoslavia.

Alla sessione del 16 dicembre della Conferenza sull’ex-Jugoslavia il segretario di Stato, Lawrence Eagleburger, paragona Milošević, Mladić, Karadžić, Šešelj e Ražnatović ‘Arkan’ a «criminali nazisti», chiamati a rispondere di crimini contro l’umanità:

«Noi sappiamo che sono stati compiuti, e sappiamo quando e dove. Sappiamo anche quali forze hanno compiuto questi delitti, come e al comando di chi operano».

La richiesta di un tribunale internazionale per giudicare i crimini di guerra arriva dall’Organizzazione della Conferenza Islamica, dopo che a novembre anche la Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa (CSCE) l’aveva evocato.

Convocata da Re Fahd dell’Arabia Saudita, l’Organizzazione della Conferenza Islamica approva la linea moderata, affossando la richiesta di Turchia e Iran di intervenire militarmente in Bosnia ed Erzegovina.

Di concerto con i partner statunitensi, l’Arabia Saudita fa passare una risoluzione che chiede al Consiglio di Sicurezza dell’ONU - oltre al tribunale per i crimini di guerra - anche l’abolizione dell’embargo sulle armi per Sarajevo entro il 15 gennaio 1993 e l’invio dei caschi blu sulle frontiere bosniache e serbo-montenegrine.

Tra i nazionalisti serbi si rafforza così la convinzione di essere soli contro il mondo intero, soli con i “fratelli ortodossi” russi a sostegno.

Gli Stati membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica

Il fallimento di Panić

A Belgrado però l’attenzione nel mese di dicembre è tutta sulle elezioni presidenziali e parlamentari del 20 dicembre, in cui si sfidano Milošević e il premier federale Panić.

Panić si è candidato a fine novembre, puntando su una strategia fatta di azioni molto aggressive. Che però si rivelano un fiasco, una dopo l’altra.

Non va in porto l’alleanza con il leader della Lega Democratica del Kosovo, Ibrahim Rugova, per cercare di convincere gli elettori di etnia albanese a non boicottare il voto.

Il patto elettorale viene respinto da Rugova per non rischiare di perdere la credibilità tra i suoi concittadini, nello scenario di un futuro Kosovo indipendente.

Allo stesso modo non riesce a convincere gli Stati Uniti (da dove era partito in giugno alla volta di Belgrado, dopo una permanenza di 37 anni) ad abolire le sanzioni in cambio del rovesciamento di Milošević.

Non riesce nemmeno a radunare attorno a sé tutta l’opposizione al presidente serbo e a scrollarsi di dosso l’appellativo di “traditore”.

Da sinistra: il segretario generale dell’ONU, Boutros Boutros-Ghali, e il primo ministro della Repubblica Federale di Jugoslavia, Milan Panić

Tutto questo porta al risultato ormai scontato del 20 dicembre.

Con il 57,5% dei voti, Milošević viene riconfermato presidente della Serbia (mentre due giorni prima anche Radovan Karadžić è riconfermato presidente della Republika Srpska).

Panić si ferma appena al 34,6% e il 29 dicembre viene sfiduciato dalle due camere del Parlamento federale.

Al Parlamento di Belgrado, invece, il Partito Socialista di Serbia perde la maggioranza assoluta (101 seggi su 250). Ma a controbilanciarlo c’è l’affermazione del Partito Radicale Serbo di Vojislav Šešelj, che diventa seconda forza con 73 deputati.

In Parlamento entra anche il “macellaio” di Slavonia, Krajina e Bosnia Željko Ražnatović (alias Comandante Arkan), eletto deputato del Kosovo.

È la consacrazione del nazionalismo militarista e criminale, violento e analfabeta. Il trionfo di una Serbia profonda, pronta a seguire l’illusione di grandezza sbandierata dalle frange conservatrici ed estremiste della politica e della società.

Tanto che il 24 dicembre da Washington arriva un telex firmato da Eagleburger, “l’avvertimento di Natale”:

«In caso di di conflitto nel Kosovo provocato dall’azione serba, gli Stati Uniti saranno pronti a impiegare la forza militare contro i serbi nel Kosovo e contro la stessa Serbia».

Il 1993 sta per iniziare. E gli auspici sono tutt’altro che buoni.

Il segretario di Stato, Lawrence Eagleburger, alle spalle del presidente degli Stati Uniti, George H. W. Bush (credits: Ron Edmonds / Associated Press)

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A questo link puoi trovare il riassunto del 1991.

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