Maggio 1992.
La guerra in Bosnia ed Erzegovina è ufficialmente scoppiata, con l’assedio della capitale Sarajevo iniziato il 5 aprile [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
I difensori si organizzano, per impedire all’Armata Popolare Jugoslava (JNA) e ai miliziani serbo-bosniaci di conquistare il centro della città, mentre gli eccidi si estendono sul territorio di tutta la Repubblica.
Anche le potenze internazionali si trovano spiazzate da un conflitto che non sono state in grado di prevedere e sulla cui lettura c’è molta confusione e divisione.
Tutti elementi che aggravano la crisi armata in Bosnia e ritardano la risposta dell’Occidente a Belgrado.
La battaglia di Sarajevo
Quello che va in scena nei primi giorni di maggio è un assalto in piena regola alla capitale bosniaca.
Le unità serbe scendono dalle alture attorno alla città da tre direzioni diverse per tagliare Sarajevo in due e isolare completamente il centro città.
Nonostante alcuni avanzamenti, gli assedianti vengono sconfitti nel quartiere di Pofaliči, la prima vera battaglia tra la Difesa Territoriale e la JNA dominata da serbi e montenegrini.
Tramonta così il progetto di una guerra-lampo in Bosnia.
Ma nel frattempo è proprio il presidente bosniaco, Alija Izetbegović, a trovarsi particolarmente esposto all’attacco.
Tornando dai negoziati di Lisbona su un aereo della Comunità Europea, viene preso in ostaggio dai militari serbi, non appena atterrato all’aeroporto di Sarajevo.
Dopo due giorni di dure trattative, Izetbegović viene liberato in uno scambio di ostaggi con il comandante del corpo d’armata della JNA a Sarajevo, Milutin Kukanjać.
Non prima che i difensori della capitale abbiano sequestrato dal suo ufficio documenti dell’esercito federale che dimostrano i dettagli del Piano Ram. Destabilizzazione e disintegrazione delle istituzioni bosniache incluse.
Quello che spesso sfugge all’attenzione internazionale è però ciò che succede fuori da Sarajevo.
Nella Krajina bosniaca l’inizio di maggio coincide con un’ondata di eccidi e di espulsioni di massa della popolazione non-serba.
Villaggi musulmani e croati vengono saccheggiati e rasi al suolo, soprattutto nell’area di Banja Luka e Prijedor, mentre circa 50 mila bosniaci di etnia “sbagliata” finiscono nei campi di concentramento. O centri di accoglienza, come vengono chiamati.
In particolare, viene aperto quello di Luka (a Brčko), uno dei più famigerati, dove soldati e paramilitari massacrano un numero indefinito di bosgnacchi e croato-bosniaci.
Ma non fila tutto liscio per i soldati di Belgrado. A Tuzla, nella Bosnia nord-orientale, la popolazione riesce a respingere un attacco mirato alla conquista delle industrie minerarie.
Anche fuori dalla capitale bosniaca, la guerra-lampo di Belgrado è solo una chimera.
Il 4 maggio la Bosnia ed Erzegovina dichiara la Repubblica jugoslava aggressore e chiede l’aiuto internazionale attraverso un intervento diretto.
A complicare la situazione per i difensori è però l’atteggiamento dei croati di Bosnia.
Non tutti, ovviamente. Quelli della Bosnia settentrionale e Posavina cercano alleanze con i bosgnacchi per difendersi dalle violenze serbe. Quelli dell’Erzegovina occidentale, più compatti a livello etnico e più fanatici nel loro nazionalismo, guardano alla madrepatria Croazia nell’ottica del ricongiungimento.
La voce più rappresentativa di questi ultimi è il leader dell’Unione Democratica Croata di Bosnia (HDZ), Mate Boban.
Il 6 maggio si incontra con il presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, Radovan Karadžić, durante la conferenza di Graz.
Qui discuteno il piano di divisione della Bosnia tra la Grande Serbia e la Grande Croazia, sulla falsariga di quanto già ampiamente concordato tra i due presidenti di Croazia e Serbia, Franjo Tuđman e Slobodan Milošević.
I bosgnacchi si sentono traditi dai croato-bosniaci e si registrano i primi scontri armati tra le due componenti etniche.
L’ondata di indignazione raggiunge anche gli Stati Uniti, dove il Washington Post paragona il patto tra Tuđman e Milošević a quello tra Hitler e Stalin nel 1939. Allora c’era sul tavolo la spartizione della Polonia, oggi quella della Bosnia.
Squilibri di forze in campo
Nonostante il crollo del sogno serbo della guerra-lampo in Bosnia, la situazione sul campo è decisamente squilibrata.
Dopo la sua istituzione formale il 20 maggio, l’esercito bosniaco può contare su circa 75 mila volontari (con a capo il bosgnacco Šefer Halilović e come vice il croato Stjepan Siber e il serbo Jovan Divjak).
Ma non ci sono abbastanza fucili per armarli e sul fronte opposto le forze sono dieci volte superiori. Carri armati, blindati, veicoli militari e obici sono quasi assenti negli arsenali bosniaci, mentre quelli dei corpi d’armata avversari sono ben riforniti.
A Sarajevo ci sono solo 6 fucili di precisione semiautomatici, contro i 285 degli assedianti serbi.
In verità sarebbe più corretto parlare di esercito serbo-bosniaco. Perché il 4 maggio Milošević mette fine all’esercito di Tito, sciogliendo l’Armata Popolare Jugoslava (ufficialmente il 20 maggio) e richiamando - di facciata - i soldati della Federazione dalla Bosnia.
In realtà cambiano solo l’uniforme e si arruolano nel nuovo esercito serbo della Bosnia - composto anche degli ex-paramilitari del Partito Democratico Serbo di Karadžić - a cui viene destinato il 70 per cento delle armi che furono della JNA.
A capo dell’apparato militare serbo-bosniaco viene posto Ratko Mladić, il ‘macellaio di Knin’. Soprannome “guadagnato” durante le battaglie nella Krajina croata e ora divenuto generale dell’esercito della Bosnia serba.
La sua parola d’ordine è «far esplodere il cervello» agli abitanti di Sarajevo.
Paradossalmente, nello stesso giorno in cui Mladić viene nominato comandante dell’esercito aggressore in Bosnia (il 15 maggio), gli organismi internazionali iniziano la burocratica e macchinosa ricerca di una soluzione alla crisi nella Repubblica.
Lo fa il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, approvando la Risoluzione 752, che chiede alle unità della JNA di ritirarsi dalla Bosnia o di sottomettersi alle autorità bosniache.
Ma la JNA - formalmente - in Bosnia non c’è più, perché l’Armata si è sciolta. Il gioco di prestigio di Milošević è riuscito, complice anche una conoscenza piuttosto scarsa della situazione sul terreno da parte delle ambasciate occidentali.
C’è una buona dose di responsabilità anche nell’atteggiamento del segretario generale dell’ONU, Boutros Boutros-Ghali, che non vede nessun ruolo per i caschi blu in Bosnia e respinge la richiesta di un contingente per un’operazione di peacemaking.
Le Nazioni Unite e le cancellerie occidentali spostano l’attenzione dall’aggressione serba contro la Bosnia ed Erzegovina agli «aspetti umanitari della crisi».
La volontà politica di alcuni Stati (Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina) è precisa: tenere lontani gli Stati Uniti da un «problema interno all’Europa», che non vogliono riconoscere come aggressione armata.
Il massimo che si riesce a fare - sempre nell’ottica della risposta umanitaria - è decidere di prendere possesso dell’aeroporto di Sarajevo per istituire un ponte aereo, attraverso l’impiego delle forze di pace.
Ma dopo un attacco subito il 14 maggio, il quartier generale dell’UNPROFOR viene spostato da Sarajevo a Belgrado, lasciando solo un centinaio di caschi blu nella capitale bosniaca.
Lo stesso fa l’alto commissariato dell’ONU per i rifugiati (che paragona la crisi in Bosnia a quella in Mozambico e «peggio di quella cambogiana») e anche la Croce Rossa Internazionale, dopo l’uccisione del suo capo-missione mentre scortava un convoglio di alimenti.
Sarajevo viene abbandonata da intellettuali, politici, professionisti bosniaci. Il loro vuoto viene riempito principalmente dai profughi musulmani del Sangiaccato e della Bosnia orientale.
La gestione del potere rimane nelle mani di pochi bosgnacchi vicini al presidente Izetbegović, che saranno incaricati di gestire le donazioni dai Paesi arabi per la difesa della Repubblica: 10 miliardi di marchi tedeschi finiti anche in conti offshore.
Morire comprando il pane
Il punto di svolta arriva nella seconda metà del mese.
Il 18 maggio le truppe di Mladić bombardano con grande intensità Sarajevo e distruggono deliberatamente l’Istituto Orientale, mandando in fiamme più di 5 mila preziosi manoscritti arabi, persiani, turchi, ebraici e bosniaco-ottomani.
Il tentativo di annientare la città culmina con il massacro del 27 maggio.
Alle 9 di mattina a fare la fila per comprare il pane davanti al mercato coperto di Markale, nel centro della città, sono circa 200 sarajevesi. Si fidano della tregua promessa dai serbo-bosniaci.
Ma dalle postazioni sulle colline circostanti vengono sparati tre colpi di obice. Muoiono in 25 e più di 100 rimangono feriti. E i cecchini continuano a sparare anche sui soccorritori.
Sul posto arriva subito una troupe della televisione di Sarajevo, che riprende la scena in tutta la sua crudezza. È così che l’opinione pubblica internazionale può vedere in diretta cosa sta accedendo sotto i bombardamenti di Mladić.
Si parla di “effetto CNN” (emittente televisiva all-news statunitense), tanto è potente l’impatto delle immagini rilanciate dalle TV di tutto il mondo.
La reazione della politica occidentale contro la Jugoslavia serba è pesantissima.
Il 30 maggio il presidente USA George H. W. Bush emette l’ordine di congelamento di tutti i beni dei membri dei governi serbo e montenegrino nel Paese.
Lo stesso giorno il Consiglio di Sicurezza dell’ONU introduce le sanzioni contro la Repubblica Federale di Jugoslavia, attraverso la Risoluzione 757.
La motivazione è il mancato rispetto della precedente Risoluzione 752, quella che due settimane prima aveva ordinato il ritiro delle truppe federali dalla Bosnia.
Belgrado viene bandita dalla comunità internazionale: le sanzioni coinvolgono il commercio internazionale, il traffico aereo, le collaborazioni in ambito sportivo, culturale e scientifico.
Con la Risoluzione 757 si istituisce una zona di sicurezza attorno all’aeroporto di Sarajevo, per far affluire gli aiuti umanitari. E viene anche incaricata la NATO di organizzare un’operazione di monitoraggio marittimo nell’Adriatico.
Quello che però rimane dietro le quinte - ma ancora per poco - sono le tensioni tra gli alleati statunitensi ed europei, in particolare con Francia e Regno Unito.
Per convincere i due Paesi (entrambi con diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU) a votare a favore della Risoluzione, da Washington arrivano due concessioni non irrilevanti.
Primo, alla Repubblica Federale di Jugoslavia non viene negato definitivamente lo status di successore esclusivo della Federazione che fu di Tito.
Secondo, tra i sanzionati non compaiono i serbo-bosniaci, che possono continuare ad accedere ai mercati internazionali e anche ai rifornimenti di armamenti esteri.
Contraddizioni e tensioni tra partner che contribuiranno indirettamente all’inasprimento del conflitto in Bosnia e a Sarajevo.
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A questo link puoi trovare il riassunto del 1991.
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