Luglio 1992.
Su Sarajevo è stato stabilito un ponte aereo per gli aiuti umanitari internazionali, tra le ambiguità dell’Occidente [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
Nonostante le divisioni che si iniziano a rendersi manifeste tra bosniaci musulmani e croato-bosniaci, nell’entroterra della Dalmazia le forze congiunte riescono a penetrare e liberare la città di Mostar.
Ma anche grazie a una serie di decisioni apparentemente inspiegabili della Croazia di Franjo Tuđman, nel resto della Repubblica la situazione sul campo di battaglia è favorevole alle forze serbo-bosniache.
È qui che viene messa in atto una pulizia etnica pianificata contro la popolazione civile, colpevole solo di appartenere a un’etnia ‘sbagliata’.
I campi di sterminio in Bosnia
Da un punto di vista di opinione pubblica, il mese di luglio è un disastro per Belgrado.
Al summit della Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa (CSCE) a Helsinki, il regime di Slobodan Milošević subisce lo smacco diplomatico della condanna del ministro degli Esteri russo, Andrei Kozyrev, per la guerra in Bosnia.
Mosca si allinea a Washington in particolare dopo l’attacco fuori Sarajevo da parte di alcuni cecchini a un autobus di orfani bosniaci, diretti verso Monaco di Baviera. Rimangono uccisi in due: un bambino di un anno e una bambina di due anni.
Ma ancora più eco internazionale avrà (nel mese di agosto) il reportage del giornalista statunitense Roy Gutman, corrispondente per Newsday, sui campi di concentramento serbi nelle zone occupate in Bosnia ed Erzegovina.
La denuncia è già arrivata dal presidente bosniaco, Alija Izetbegović, in una lettera all’omologo statunitense, George H. W. Bush. Ma prove certe non ne ha, a causa dell’inaccessibilità delle zone alle autorità della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina.
Quello che invece riesce a fare Gutman in quasi un mese di lavoro investigativo è di tracciare una mappa e una stima del numero di internati nei campi di prigionia serbi in Bosnia, oltre a documentare l’inferno oltre i cancelli e il filo spinato.
Gli internati sono 400 mila, vivi o morti. Tutti civili, la stragrande maggioranza di etnia musulmana.
Questa è la dimensione (al ribasso) di quante persone sono passate dai 94 campi di concentramento allestiti in caserme, scuole, stadi, persino miniere e impianti industriali.
Nel cuore dell’Europa, a distanza di nemmeno 50 anni dall’Olocausto nazista, si è ripetuta la storia dei campi di sterminio, per eliminare una specifica componente della società sgradita, odiata, nemica.
Il campo più noto è quello di Omarska, a nord di Banja Luka, dove almeno 5 mila persone su 13 mila sono state uccise prima della pubblicazione del reportage che apre il vaso di Pandora della pulizia etnica messa in atto dai serbo-bosniaci di Radovan Karadžić.
Sul presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina vengono scaricate tutte le colpe del genocidio persino da Belgrado (nonostante campi di concentramento si trovino anche in Serbia e in Montenegro).
In un tentativo di provare l’assenza di soprusi sugli internati, lo stesso Karadžić permette all’emittente britannica ITN di filmare il campo di Omarska e a un giornalista di The Guardian, Ed Vulliamy, di visitarlo.
L’effetto sarà - ovviamente - opposto, con l’opinione pubblica internazionale sconvolta dal rivedere le immagini di donne e uomini scheletrici dietro reti di filo spinato.
Commenta così un articolo dell’Independent:
«Le terribili immagini di prigionieri bosniaci, alcuni con costole sporgenti e braccia sottili come bastoni, ebbero sulla gente in Europa occidentale e negli Stati Uniti un impatto che un anno di assassinii, compiuti da franchi tiratori e da bombe a mortaio, non era riuscito a ottenere».
Una nuova frattura
Intanto però la situazione nella Repubblica continua a peggiorare, anche per colpa della nuova frattura apertasi tra bosgnacchi e croato-bosniaci.
Il 3 luglio si tiene a Grude una riunione di alto livello dell’Unione Democratica Croata di Bosnia (HDZ), la stessa cittadina dove nel novembre dell’anno precedente è stata proclamata la nascita della Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia.
Qui il leader dell’HDZ, Mate Boban, annuncia la costituzione di un potere esecutivo provvisorio con sede a Mostar - città appena liberata dall’assedio serbo-bosniaco - per tamponare il crollo dell’amministrazione della Repubblica.
Una decisione che rende sempre più tesi i rapporti con Sarajevo e che innesca i primi seri scontri tra il Consiglio di difesa croato e l’esercito bosniaco, là dove l’offensiva congiunta è riuscita a strappare territori all’esercito serbo-bosniaco di Ratko Mladić.
Nemmeno un tentativo di confronto a Medjugorje tra i vertici politici delle due componenti etniche riesce a ripristinare la fiducia reciproca.
Pressato dall’opinione pubblica internazionale, il presidente della Croazia, Franjo Tuđman - punto di riferimento e grande burattinaio dei croato-bosniaci più estremisti - il 21 luglio firma a Zagabria con l’omologo bosniaco Izetbegović un Accordo di amicizia e collaborazione.
Un’intesa che preannuncia sforzi militari congiunti tra le due Repubbliche (Zagabria a sostegno del Consiglio di difesa croato) contro le forze serbo-bosniache, nel caso in cui l’azione diplomatica internazionale non avesse successo.
Tuđman è forte dei recenti successi del suo esercito, che il 7 luglio è riuscito a rompere l’assedio serbo alla città dalmata di Dubrovnik, iniziato quasi un anno prima.
Ma che il presidente croato sia davvero intenzionato a collaborare attivamente alla difesa e all’integrità territoriale della Bosnia ed Erzegovina è una pura illusione.
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Luglio '92. Sterminio pianificato