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The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Ottobre '93. Sotto scacco
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Ottobre '93. Sotto scacco

Ottobre 1993.

L’autunno balcanico è iniziato con una serie di lotte intestine che riguardano tutte le parti in conflitto: serbi, croati e bosgnacchi [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].

Mentre in Croazia e in Serbia i rispettivi presidenti - Franjo Tuđman e Slobodan Milošević - devono sfidare le dure critiche dell’opposizione, in Bosnia ed Erzegovina la situazione è resa ancora più instabile da due fattori.

Da una parte i combattimenti ininterrotti che alternano momenti di significative vittorie a periodi di pressione armata quasi insostenibile per Sarajevo.

Dall’altra parte la fondazione di una nuova entità sul territorio bosniaco, che divide il fronte bosgnacco. La Regione autonoma della Bosnia Occidentale, creata e presieduta dall’imprenditore miliardario e politico di Velika Kladuša, Fikret Abdić.


La pressione dentro e fuori Sarajevo

Dopo la furiosa avanzata dell’Esercito della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina a Mostar e nella valle del fiume Lašva, per i bosgnacchi inizia un periodo di grossa difficoltà.

A causa del ripetuto rifiuto del Piano Owen-Stoltenberg da parte di Sarajevo, il primo ottobre i Parlamenti della Republika Srpska e della Repubblica Croata dell’Erzeg-Bosnia decidono di imporre un blocco degli approvvigionamenti alla capitale bosniaca.

Il blocco mette di nuovo in ginocchio una città assediata ininterrottamente dall’aprile 1992, un anno e mezzo esatto. E un Paese intero, in cui quasi 3 milioni di persone dipendono dall’assistenza delle Nazioni Unite.

Il blocco degli approvvigionamenti non è altro che un’arma di guerra, che però colpisce anche il personale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Il 25 ottobre a un posto di blocco nella Bosnia centrale cade la decima vittima dell’UNHCR: è un autista danese, ucciso dai cecchini croati.

Mentre il segretario generale dell’ONU, Boutros Boutros-Ghali, decide di sospendere il transito di convogli per non mettere a rischio il personale internazionale, il 29 ottobre i ministri della Comunità Europea decidono di assicurare «con tutti i mezzi» l’afflusso di aiuti umanitari in Bosnia.

Ma la situazione sul campo ha ormai raggiunto livelli di crudeltà sulla popolazione civile quasi inimmaginabili.

Scatenati dal desiderio di vendicare i 29 morti durante la conquista bosgnacca del villaggio di Uzdol, la sera del 23 ottobre una squadra del Consiglio di difesa croato (l’esercito della Repubblica Croata dell’Erzeg-Bosnia) assale il villagio di Stupni Do e lo mette a ferro e fuoco.

Con le facce dipinte di nero per non farsi riconoscere da eventuali superstiti, i militari croato-bosniaci massacrano 38 persone, tra cui 5 bambini. L’indomani mattina i caschi blu svedesi giunti sul posto trovano solo macerie e corpi carbonizzati.

Stupni Do, Bosnia ed Erzegovina

Intanto nella Sarajevo sotto assedio il presidente della Bosnia ed Erzegovina, Alija Izetbegović, cerca di reagire alla pressione interna portata dalle bande criminali che da mesi spadroneggiano in città.

Perché se all’esterno di Sarajevo sono i mortai serbi a preoccupare i difensori, all’interno della capitale l’assedio è quello rappresentato dal ricatto dalle bande di criminali guidate dal capo della 10ª brigata di montagna, Musan ‘Caco’ Topalović, e dal comandante della 9ª brigata di montagna, Ramiz ‘Ćelo’ Delalić.

Se da una parte questi squadroni contribuiscono alla difesa armata, dall’altra impongono traffici di droga, armi e beni di prima necessità, terrorizzando i cittadini serbo-bosniaci e i croato-bosniaci rimasti dentro la città assediata.

Ecco perché il 24 ottobre Izetbegović ordina a 600 membri delle unità speciali dell’esercito di preparare in segreto l’Operazione Trebević, che scatta due giorni più tardi.

Dopo 20 ore di combattimenti per le strade di Sarajevo i due signori della guerra vengono arrestati e Topalović freddato in un tentativo di fuga.

Ne segue una repressione dai contorni torbidi, in cui vengono coinvolti molti alti ufficiali. Tra questi anche l’ex-capo di stato maggiore dell’esercito, Šefer Halilović, inviso al presidente bosniaco e già destituito a giugno.

La mappa di Sarajevo assediata

Il nuovo nazionalismo islamico in Bosnia

La crisi in Bosnia ed Erzegovina si aggrava ancora di più dopo la nascita della Regione autonoma della Bosnia Occidentale, sostenuta finanziariamente da Tuđman e Milošević per frammentare le forze bosgnacche.

Dopo il rifiuto da parte di Izetbegović della proposta di Abdić per dividere il Paese non in tre ma in quattro parti, lo stesso presidente bosniaco ordina di mettere sotto stato di assedio i comuni dell’area ribelle, in particolare Velika Kladuša e Bihać.

Ne scaturisce un nuovo fronte di guerra nel nord-ovest della Bosnia tra la Difesa popolare della Bosnia Occidentale (le bande armate da Abdić) e il 5° corpo d’armata dell’esercito bosniaco.

La nuova entità bosgnacca ribelle viene rifornita di armi dai serbi e di petrolio dai croati, riuscendo così a tenere testa all’esercito regolare della Repubblica. Tra il 21 e il 22 ottobre vengono firmati i Trattati di amicizia della Regione autonoma della Bosnia Occidentale rispettivamente con la Repubblica Croata dell’Erzeg-Bosnia (a Zagabria) e con la Republika Srpska (a Belgrado)

Ma le trame dell’imprenditore/politico miliardario inaspriscono il clima anche nella capitale Sarajevo, dando impulso al nazionalismo musulmano.

In primis l’Assemblea musulmana - dopo aver ripristinato il nome storico bošnjak al posto di ‘bosniaco musulmano’ - di fatto esautora e prende il posto del Parlamento eletto democraticamente.

Inoltre Izetbegović riceve il via libera per un terzo mandato presidenziale, la Presidenza collettiva viene epurata dai membri più moderati e si costituisce un governo di guerra senza i ministri croato-bosniaci. Compreso il premier, Mile Akmadžić, sostituito dall’intransigente Haris Silajdžić.

Il territorio controllato dalla Regione autonoma della Bosnia Occidentale (in azzurro), dalla Repubblica di Bosnia ed Erzegovina (in verde), dalla Republika Srpska (in rosa), dalla Repubblica Serba di Krajina (in giallo) e dalla Croazia (in arancio)

Nuove elezioni in Serbia all’orizzonte

Nel frattempo anche in Serbia si assiste a un’epurazione, come conseguenza del durissimo scontro tra il presidente Milošević e il leader del Partito Radicale Serbo, Vojislav Šešelj.

Uno scontro che culmina il 20 ottobre con la decisione del presidente serbo di sciogliere il Parlamento di Belgrado con la scusa della paralisi causata dalle opposizioni. Dal dicembre 1992 il Partito Radicale Serbo è la seconda forza con 73 deputati.

Le nuove elezioni vengono indette per il 19 dicembre. La data non è casuale: è il giorno in cui si celebra San Nicola, particolarmente caro ai serbi, e questo fattore dovrebbe garantire più probabilità di assenteismo alle urne da parte degli elettori tradizionalisti (bacino elettorale del Partito Radicale).

Nell’attesa del voto, Milošević cerca di mettere un freno a Šešelj non sciogliendo le sue unità paramilitari - mossa che potrebbe causare una guerra civile in Serbia - ma epurando dalle forze armate i leader più vicini ai radicali.

E allo stesso tempo favorisce la nascita di un nuovo partito ultranazionalista più facile da manipolare: il Partito dell’Unità Serba fondato da Željko ‘Arkan’ Ražnatović. Il leader dello squadrone paramilitare delle Tigri di Arkan.

Željko ‘Arkan’ Ražnatović

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