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The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Aprile '92. Sarajevo sotto assedio
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Aprile '92. Sarajevo sotto assedio

Aprile 1992. 

La Bosnia ed Erzegovina ha dichiarato la propria indipendenza dalla Jugoslavia e gli scontri tra gruppi etnici si intensificano ovunque [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].

Sostenuti dall’Armata Popolare Jugoslava (JNA), gli estremisti serbo-bosniaci avanzano nell’Erzegovina orientale e nella Bosnia settentrionale (regioni a maggioranza serba).

Qui iniziano le operazioni di pulizia etnica delle unità paramilitari serbe e montenegrine, che si moltiplicano in tutta la loro atrocità.

È scoppiata la guerra e la capitale Sarajevo si trova sotto assedio. Senza neanche sapere come.


Venti di guerra

Aprile si apre con una serie di orrori che fanno capire in che direzione andrà la guerra in Bosnia ed Erzegovina.

A Bijeljina, centro strategico nella Bosnia nord-orientale a pochi chilometri dal fiume Drina, il primo giorno del mese scoppia una bomba in un caffè frequentato dai serbo-bosniaci.

È il pretesto per l’intervento delle Tigri di Arkan, già note per i massacri a Vukovar. Con le bombe a mano, sterminano tutti i musulmani radunatisi nella moschea di Solimano e trucidano chiunque cerchi di scappare.

Per tre giorni la città viene devastata senza che l’Armata Popolare Jugoslava alzi un dito. Perdono la vita 500 civili musulmani, gli altri vengono espulsi.

Le fotografie parlano da sole:

Un paramilitare delle Tigri di Arkan prende a calci il corpo senza vita di una donna riversa su un marciapiede a Bijeljina (credits: Ron Haviv)

Le Tigri - a cui si uniscono i cetnici di Vojislav Šešelj e le Aquile bianche di Dragoslav Bokan - scendono lungo il fiume Drina, massacrando ed espellendo i bosgnacchi dalla Bosnia orientale.

Tra i morti c’è anche Kjasif Smajlović, corrispondente di Oslobodjenje (il più importante quotidiano bosniaco) da Zvornik. Giustiziato nel suo ufficio perché ha condotto una lotta per la libera informazione e si è rifiutato di definire “liberazione dalle forze anti-jugoslave” l’aggressione di Belgrado alla Bosnia.

Nel frattempo, mentre i serbo-bosniaci e la JNA conquistano la città di Banja Luka e ordinano il bombardamento di Mostar, il 6 aprile la Comunità Europea riconosce la sovranità della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina

Lo stesso fanno gli Stati Uniti e anche la vicina Croazia. Che però mantiene nei confronti di Sarajevo un atteggiamento molto più che ambiguo.

Quello del presidente croato, Franjo Tuđman, è proprio un doppio gioco iniziato l’anno prima a Karađorđevo e proseguito con l’accordo di fine 1991 con l’omologo serbo, Slobodan Milošević.

Perché dietro la maschera del riconoscimento dell’indipendenza della vicina Bosnia, si nasconde il vero progetto della struttura parastatale della Herceg Bosna. Il preambolo dell’incorporamento nella Croazia dei territori abitati dai croato-bosniaci. 

Lo dimostrano le decisioni sulla resistenza organizzata all’invasione serba nel Paese.

L’8 aprile, lo stesso giorno in cui la presidenza bosniaca decide l’accorpamento di Lega Patriottica e Berretti Verdi nella Difesa Territoriale, a Grude (Erzegovina occidentale) si costituisce il Consiglio di difesa croato.  

Da questa struttura i bosniaci musulmani vengono sempre più emarginati. Nella difesa dall’aggressione serba e dalle violenze serbo-bosniache si crea una netta frattura.

Bijeljina (Bosnia ed Erzegovina)

L’assedio di Sarajevo

La guerra a Sarajevo inizia sabato 4 aprile

Le milizie di Radovan Karadžić, il leader dei serbo-bosniaci, attaccano la scuola di polizia di Vrača del ministero degli Interni, nel quartiere di Grbavica, con il sostegno dei carri armati federali.

Il presidente bosniaco, Alija Izetbegović, scioglie il Parlamento, proclama lo stato di emergenza e mobilita la Difesa Territoriale.

I vertici della JNA sono sicuri che si tratterà di una guerra-lampo, di massimo 10 giorni a Sarajevo e tre settimane in tutta la Bosnia.

Nella notte tra il 4 e il 5 aprile le forze speciali serbe cercano di occupare il palazzo presidenziale, ma vengono fermate dalle “Vespe”, un gruppo di arditi di etnia musulmana.

La domenica mattina gli incroci delle vie principali di Sarajevo sono presidiati dalle barricate. La città è tagliata in due: il centro città è circondato, mentre le zone esterne sono in mano ai serbo-bosniaci.

Intanto però inizia a radunarsi nella capitale una folla di oltre duemila persone per una grande manifestazione contro la guerra. In un giorno il numero cresce fino a 60 mila.

Il 5 aprile i manifestanti cercano di passare dal ponte di Vrbanja, sfidando una delle barricate che dividono la città in “linee etnicamente pure”.

Ma un cecchino apre il fuoco dal cimitero ebraico e uccide Suada Dilberović, studentessa di medicina di Dubrovnik.

È (convenzionalmente) la prima vittima dell’assedio di Sarajevo.

Sarajevo, 6 aprile 1992

Verso le ore 14 la folla passa davanti all’Holiday Inn, il quartier generale del Partito Democratico Serbo (SDS) e altri cecchini aprono il fuoco.

Rimangono a terra senza vita 4 manifestanti. L’Armata popolare - complice - decide di non intervenire, mentre i miliziani bosgnacchi invadono l’edificio per snidare i cecchini.

Alla difesa della città, che ora tutti capiscono si trova sotto assedio, partecipano i civili di ogni etnia. Serbi compresi, in particolare gli intellettuali, profondamente disgustati dal barbaro nazionalismo di Karadžić.

A partire dalla fine della prima settimana di aprile Sarajevo è una città-ghetto.

Il centro storico e i quartieri di Dobrinja e Butmir (a ridosso dell’aeroporto) sono circondati dai serbo-bosniaci e dalle truppe serbe, che colpiscono la città dai monti circostanti e hanno in mano gli impianti per l’erogazione di acqua, luce e gas alla città.

La linea del fronte corre lungo il fiume Miljacka, mentre giorno dopo giorno l’Ulica Zmaja od Bosne, la strada principale che collega la città vecchia con la zona industriale, si trasforma nel viale dei cecchini.

Una delle vie più mortali della storia, dove i cittadini sono esposti quotidianamente al fuoco preciso dei tiratori dai palazzi e dalle montagne.

La mappa della Sarajevo divisa e assediata

Inizia la pulizia etnica

Mentre tutta l’attenzione è rivolta a Sarajevo, gli squadroni paramilitari - sempre con l’appoggio dei carri armati federali - continuano a lanciare attacchi rapidi nella Bosnia orientale e nord-occidentale.

Lo schema prevede una divisione di compiti tra le unità paramilitari, che prendono d’assalto i villaggi, e l’esercito, che bombarda le maggiori città (da cui gli abitanti di etnia serba vengono evacuati preventivamente).

Lo scopo di queste azioni è triplice.

In primis, assicurarsi il controllo di tutti i ponti sul fiume Drina, che collegano sponda serba e sponda bosniaca.

Come seconda cosa, mantenere il possesso delle industrie belliche chiave: Travnik per i missili, Mostar per gli aerei, Rajlovac per i motori, Vitez per gli esplosivi, Konjic e Goražde per le munizioni.

E poi continuare con le operazioni di pulizia etnica, per “purificare” i territori conquistati e riportati nella Grande Serbia.

È probabile che proprio qui, a Zvornik, nella Bosnia orientale, i cetnici di Šešelj abbiano usato per la prima volta il termine čist (pulito) per riferirsi al nuovo ordine portato nella città.

Vittime della pulizia etnica non sono solo i bosgnacchi, ma anche i serbo-bosniaci non considerati fedeli alla causa (anche se spesso vengono arruolati a forza e sotto minaccia di violenze sui parenti).

Nella realtà pratica, la pulizia etnica si manifesta in azioni precise e crude.

A ogni famiglia viene imposta la firma di una dichiarazione di fedeltà alla Jugoslavia.

Parte degli uomini (esponenti politici e culturali di spicco) viene massacrata sul posto, un’altra parte rinchiusa in campi di concentramento e costretta a rinunciare a ogni proprietà.

Donne, bambini e anziani, se non internati, vengono deportati a forza fuori dalle “terre serbe”

La violenza dei paramilitari implica ogni sorta di abuso, omicidio arbitrario e tortura immaginabile e non. Ogni bene materiale da case, negozi o fabbriche viene razziato.

Un bosniaco musulmano catturato dalle Tigri di Arkan a Bijeljina (credits: Ron Haviv)

I serbi conquistano così in poco più di un mese quasi due terzi del territorio bosniaco. Sotto il controllo della nuova Repubblica rimane solo la Bosnia centrale, l’Erzegovina occidentale, la regione di Bihać e parte della Posavina (a nord-est).

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) parla già di 400 mila profughi, di cui un quarto interni, la metà in Croazia e i restanti negli altri Paesi della regione.

Di fronte alle violazioni dei principi dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), a Belgrado arriva un pesante ultimatum.

Se il governo non ritirerà entro il 29 aprile l’Armata Popolare e le unità paramilitari dalla Bosnia, la Serbia verrà cacciata dall’organizzazione e diventerà «un paria internazionale». 

Milošević risponde con i consueti toni vittimistici e propagandistici, accusando di essere vittima di «un’azione ben orchestrata» e condannando piuttosto la persecuzione dei serbo-bosniaci da parte di «fascisti croati e fondamentalisti islamici».

Due giorni prima dell’ultimatum, il 27 aprile, l’Assemblea federale di Belgrado proclama la nascita di una nuova entità statale.

La Repubblica Federale di Jugoslavia. Che reclama per sé a livello internazionale l’eredità della fu Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.

Ne fanno parte Serbia e Montenegro, comprese le regioni autonome di Vojvodina e Kosovo. Le altre Repubbliche ex-jugoslave possono entrare a farne parte, a condizione che «risolvano le questioni aperte».

In pochi partecipano alla cerimonia di proclamazione: Grecia, Russia, Cina, Canada e i Paesi non allineati.

Intanto l’assedio di Sarajevo e la guerra in Bosnia proseguono senza pausa.

Bandiera della Repubblica Federale di Jugoslavia (1992-2006)

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A questo link puoi trovare il riassunto del 1991.

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