Giugno 1992.
L’assedio di Sarajevo, iniziato ad aprile, ha causato i primi massacri, come quello del mercato di Markale [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
L’opinione pubblica internazionale ha iniziato ad aprire gli occhi su quanto sta accedendo in Bosnia ed Erzegovina e sulle atrocità commesse dall’esercito serbo-bosniaco.
A causa dell’appoggio di Belgrado, le Nazioni Unite impongono sanzioni contro la Repubblica Federale di Jugoslavia, che viene bandita dalla comunità internazionale.
Ma mentre la guerra continua, l’Occidente si mostra diviso internamente, aggravando un conflitto ormai fuori controllo.
I fermenti di Belgrado
Le dure sanzioni dell’Occidente fanno seriamente vacillare il potere del presidente serbo, Slobodan Milošević.
Da parte sua, definisce «ridicola» la Risoluzione 757 dell’ONU (essendosi preparato da tempo all’eventualità), ma parte dell’opinione pubblica reagisce con rabbia.
I partiti di opposizione - che il 24 maggio si sono riuniti nel Movimento democratico della Serbia (DEPOS) - esigono le dimissioni di Milošević e danno vita a una manifestazione di protesta il 4 giugno, che raccoglie migliaia di persone a Belgrado.
Si uniscono studenti, professori, artisti e intellettuali. Ma il vero problema, già visto nelle proteste del marzo 1991, è che le ragioni anti-Milošević non fanno presa sulle masse.
La propaganda di regime che presenta la Repubblica Federale di Jugoslavia (anche se sarebbe meglio dire la Serbia) come vittima di una cospirazione globale e il presidente serbo come l’uomo del destino fa molta più breccia.
A questo si aggiunge poi un’incapacità generale dell’opposizione di interpretare il proprio ruolo, in un copione che si è ripetuto spesso nella storia.
A inizio giugno arrivano i risultati delle elezioni parlamentari jugoslave del 31 maggio, quelle che proprio l’opposizione di DEPOS ha deciso di boicottare.
In Serbia, il Partito Socialista di Milošević raggiunge il 50 per cento dei voti, mentre il 35 per cento va al Partito Radicale di Vojislav Šešelj.
Il Parlamento di Belgrado è in mano ai nazionalisti, più o meno radicali, e come conseguenza dalla capitale serba inizia ad andarsene la maggior parte della società più moderata e più istruita. I giovani studenti, soprattutto.
Scampato il pericolo, Milošević inizia a rafforzare il regime, assicurando alle forze speciali di polizia più uomini, più armi e più equipaggiamento.
Sul piano piano politico, invece, agisce sui vertici della Federazione.
Il 15 giugno si adopera perché il Parlamento elegga come primo presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia Dobrica Ćosić, marionetta del presidente serbo, ma estremamente popolare.
Essendo stato eletto un serbo alla presidenza della Federazione, la Costituzione prevederebbe che un montenegrino assuma la guida del Consiglio federale.
E invece Milošević offre su un piatto d’argento l’incarico di premier federale al miliardario Milan Panić. Ex-campione di ciclismo, in fuga dalla Jugoslavia dal 1955, si è arricchito in California fondando la ICN, un’azienda farmaceutica.
Per tornare in patria ottiene dal presidente statunitense, George H. W. Bush, la sospensione temporanea del blocco aereo imposto alla Serbia.
Mentre Milošević, senza battere ciglio, lo accoglie a Belgrado in qualità di presidente della Serbia e vero uomo forte di tutta la Jugoslavia.
L’Occidente diviso sulla Bosnia
Ciò che davvero emerge nel mese di giugno è che la Serbia di Milošević è in grado di aggirare tutte le misure restrittive messe in atto dall’Occidente, grazie ai magazzini pieni di derrate alimentari e alle ingenti riserve energetiche e di materie prime.
Ecco perché, mentre la guerra in Bosnia ed Erzegovina e l’assedio di Sarajevo proseguono senza sosta, a Washington il segretario di Stato, James Baker, prende in esame la soluzione estrema.
L’intervento militare diretto delle potenze occidentali.
Dopo alcune discussioni alla Casa Bianca - e assunta l’impraticabilità di questa opzione - un gruppo di lavoro con a capo Baker lavora a un memorandum dal titolo: Game Plan - New Steps in Connection with Bosnia.
Un documento per assicurare aiuti umanitari a Sarajevo, che prevede quattro misure:
Inviare una portaerei nell’Adriatico;
Rafforzare le sanzioni, con un blocco al porto montenegrino di Bar;
Fermare le forniture di petrolio dalla Romania alla Serbia;
Condurre attacchi aerei multilaterali contro l’artiglieria sulle montagne di Sarajevo.
Nonostante lo stesso presidente Bush si dica favorevole, ad affossare il Game Plan è l’ampia opposizione nei circoli militari a un intervento statunitense sullo stile della coalizione costituita durante la Guerra del Golfo.
Sul campo, invece, ritorna a Sarajevo l’UNPROFOR (la Forza di protezione delle Nazioni Unite), dopo che a maggio il quartier generale è stato spostato a Belgrado.
L’8 giugno viene ridefinito il mandato attraverso la Risoluzione 758, con l’invio di 60 osservatori militari e 1100 caschi blu. Tre giorni più tardi l’unità comandata dal generale Lewis MacKenzie torna a riaprire l’aeroporto della capitale bosniaca.
Questo non impedisce però né l’aumento dei bombardamenti sulla città, né l’assedio dell’enclave musulmana di Bihać (nel nord-ovest del Paese).
La conseguenza è duplice.
Primo. Il 20 giugno il presidente bosniaco, Alija Izetbegović, dichiara lo stato di guerra e la mobilitazione generale.
Secondo. I leader della Comunità Europea reagiscono con forza e approvano la risoluzione proposta dal ministro degli Esteri tedesco, Klaus Kinkel. Nel testo viene specificato che «pur dando priorità ai mezzi pacifici, non si esclude l’uso di mezzi militari», nel caso i serbi e serbo-bosniaci impediscano l’afflusso di aiuti umanitari.
Una reazione dura, che sembra presagire finalmente unità tra i Dodici.
E invece viene vanificata dall’azione solitaria del presidente francese, François Mitterrand.
Il 28 giugno Mitterrand vola a Sarajevo senza consultare i partner, per avvalorare la tesi francese della gestione del conflitto: in Bosnia è in atto una guerra civile, non un’aggressione militare. Dunque, non si può intervenire dall’esterno, se non con aiuti umanitari.
La missione è stata progettata nei minimi dettagli, tanto che i serbi proclamano un cessate il fuoco unilaterale alla vigilia dell’arrivo del presidente francese.
Nonostante Mitterrand sia arrivato per aprire simbolicamente il ponte aereo a Sarajevo - e la popolazione lo accolga in festa - sul suo viaggio pesa il rapporto controverso tra Parigi e Belgrado.
Il giorno scelto coincide con quello della battaglia di Kosovo Polje del 1389 contro le truppe ottomane, celebrata dai serbi come base mitologica della nazione (e del motivo per cui il Kosovo apparterrebbe indiscutibilmente alla Serbia).
Inoltre, secondo diversi politici e militari francesi la presenza dell’Islam in Bosnia rappresenta un elemento di destabilizzazione per l’Europa, non riuscendolo a interpretare come realtà storica e culturale, ma solo come proiezione del mondo arabo.
E infine, pesano sia la forte tradizione centralista francese - che pone sloveni, croati e bosniaci sotto la luce del separatismo - sia la presunta autorevolezza delle uniformi dei serbo-bosniaci di Ratko Mladić (rispetto all’informalità dell’esercito bosniaco).
C’è tutto questo carico di pregiudizio e presunzione nella missione a Sarajevo di Mitterrand. Ma anche una buona dose di dolo nell’aver impedito, con la sua presenza, l’azione militare internazionale proprio contro la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina di Radovan Karadžić.
Obbedendo alla Risoluzione 761 delle Nazioni Unite, il 29 giugno le truppe serbo-bosniache lasciano il controllo dell’aeroporto di Sarajevo ai caschi blu dell’ONU. Dimostrando, all’apparenza, che l’intervento militare esterno è ingiustificato.
Inizia così la grande illusione del ponte aereo sulla capitale bosniaca.
I fronti di guerra
L’operazione Provide Promise a Sarajevo sarà il ponte aereo più duraturo della storia, con 12.951 voli, oltre 160 mila tonnellate di cibo e quasi 16 mila di medicinali convogliati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
Tuttavia, al netto dei proclami e dell’inaugurazione a effetto da parte del presidente francese, si dimostrerà inizialmente un fiasco.
Non solo perché la sicurezza nel corridoio tra aeroporto e città è molto bassa, nonostante la gestione dei caschi blu francesi, egiziani e ucraini (mentre nessuno pensa di rimettere in funzione la ferrovia che collega il Mar Adriatico a Sarajevo).
Ma anche perché alla popolazione arriva solo il 20 per cento delle derrate alimentari inviate quotidianamente. Parte della responsabilità è dell’esercito serbo-bosniaco, un’altra buona dose del capo delle forze bosniache, Šefer Halilović, che organizza una rete di controllo per rivendere a caro prezzo il cibo ai cittadini sarajevesi affamati.
Nel frattempo però la situazione sul campo nel resto della Repubblica si complica, a causa dell’atteggiamento del presidente della Croazia, Franjo Tuđman, messo sotto pressione dall’opinione pubblica internazionale dopo la conferenza di Graz.
Nel tentativo di difendersi dalle accuse di voler costituire la Grande Croazia (cosa vera), Tuđman dà l’ordine di ritirare tre brigate dalla Posavina, lungo il fiume Sava. In realtà ci sarebbero le condizioni per infliggere perdite ai serbo-bosniaci.
Questa decisione permette alle forze serbe a Banja Luka e Bijeljina di ricongiungersi e creare il 28 giugno un corridoio etnicamente compatto nei territori controllati nella Bosnia settentrionale e orientale.
Alle cessioni in Posavina si controbilancia l’avanzata delle forze croato-musulmane nell’entroterra della Dalmazia.
Il 17 giugno viene liberata la città di Mostar, assediata dai serbo-bosniaci da sei settimane, e viene occupata una vasta porzione di territorio sulla riva sinistra del fiume Neretva.
Sarà questa una delle ultime operazioni congiunte di croato-bosniaci e bosgnacchi, il cui rapporto è incrinato da tempo.
Basta ormai un nulla per aprire un nuovo fronte di guerra.
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A questo link puoi trovare il riassunto del 1991.
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