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The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Settembre '92. Chirurghi e balie di guerra
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Settembre '92. Chirurghi e balie di guerra

Settembre 1992.

A Londra è andato in scena l’ennesimo tentativo delle potenze internazionali di trovare una soluzione diplomatica alla guerra in Bosnia ed Erzegovina.

Che tuttavia non viene riconosciuta come tale, ma come un conflitto etnico la cui responsabilità è da dividere tra tutte le parti coinvolte [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].

Intanto però l’aggressione armata serba alla Bosnia continua, con l’assedio di Sarajevo che ha visto la distruzione della Vijećnica, la Biblioteca Nazionale.

A questo si aggiunge una posizione sempre più estremista della Croazia di Franjo Tuđman, sia nei confronti della minoranza serbo-croata sia delle opposizioni interne. Con mire territoriali esplicite sulla regione bosniaca dell’Erzegovina.

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Le tensioni tra Sarajevo e l’Occidente

A scombinare la tranquillità della diplomazia occidentale è l’abbattimento di un aereo italiano il 3 settembre.

Non un aereo qualunque, ma il G.222 del 98° gruppo della 46° aerobrigata dell’Aeronautica Militare Italiana, che trasporta aiuti umanitari attraverso il ponte aereo su Sarajevo.

Nell’incidente muoiono il maggiore Marco Betti, il secondo pilota Marco Rigliaco, e i tecnici di bordo Giuseppe Buttaglieri e Giuliano Velardi.

Nessuna delle parti in lotta rivendica l’abbattimento del velivolo partito da Spalato e precipitato alle pendici del monte Zec (Fojnica), a una trentina di chilometri dalla capitale bosniaca. Ma il ponte aereo viene temporaneeamente sospeso.

Come se la situazione non fosse già abbastanza tesa, cinque giorni più tardi le truppe dell’Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina cercano di rompere le linee nemiche nel sobborgo di Butmir, nei pressi dell’aeroporto di Sarajevo.

Ma l’avanzata viene fermata da una brigata francese di caschi blu dell’ONU (che tuttavia potrebbero solo scortare convogli e difendere se stessi, non imporre la pace, secondo la Risoluzione 770), permettendo ai serbo-bosniaci di ritirarsi senza troppe perdite.

Nei combattimenti, però, vengono colpiti a morte il sergente Frederic Vaudet e il caporale Eric Marot. L’UNPROFOR e Parigi accusano l’esercito e il governo bosniaco di terrorismo.

L’aereo G.222 dell’Aeronautica Militare Italiana abbattuto il 3 settembre 1992

Ma l’UNPROFOR da mesi sta diventando sempre più oggetto di disprezzo da parte delle autorità della Repubblica e della popolazione di Sarajevo. E non solo per l’incapacità acclarata di difendere i civili dopo cinque mesi dall’inizio dell’assedio.

In Bosnia ed Erzegovina arrivano soprattutto volontari attratti dall’ottima paga e dalla possibilità di fare affari nel mercato nero, più che per ragioni nobili e umanitarie.

A questo si aggiunge lo sfruttamento sessuale delle ragazze e donne musulmane, costrette a prostituirsi nei quartieri controllati dai serbo-bosniaci. Queste case chiuse sono frequentate anche dai soldati dell’ONU, compresi gli alti gradi.

Le accuse arrivano fino al generale Lewis MacKenzie, costretto alle dimissioni anche per una serie di dichiarazioni ciniche sulle possibilità della pace in Bosnia.

La sua partenza da Sarajevo è carica di risentimento nei confronti dei bosgnacchi, con tutta l’intenzione di influenzare l’opinione pubblica e la politica occidentale.

Il generale canadese Lewis MacKenzie (credits: Morten Hvaal/AP)

Tra caschi blu e contrabbando d’armi

A dire il vero, l’UNPROFOR prova a passare per una fase di rinnovamento, destinata a fallire per la mancanza di determinazione ad arrivare fino in fondo al processo.

MacKenzie viene sostitituito dal generale egiziano Hussein Abdul al-Razek, che rimane però vittima della sua stessa radicalità nelle critiche alla missione delle Nazioni Unite e dell’esplicita richiesta di poter usare la forza per imporre la pace.

Ecco perché già il 30 settembre il comando passa al generale francese Philippe Morillon, che comunque tenta di portare più disciplina ai caschi blu.

Nel frattempo il processo di rinnovamento coinvolge anche il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Con la Risoluzione 776 del 14 settembre viene istituito in Bosnia ed Erzegovina un comando speciale con autonomia operativa rispetto a quello di Zagabria. Si decide inoltre di istituire quattro nuove zone operative.

Ma non viene modificata la limitazione di utilizzo della forza esclusivamente per autodifesa, né il condizionamento finanziario (e operativo) dei Paesi che forniscono i contingenti.

Caschi blu dell’ONU trasportano salme di civili a Sarajevo

Tutto questo non migliora la considerazione dei bosniaci nei confronti dei caschi blu, ancora dentro i limiti del loro mandato umanitario - e spesso burocratico - nonostante le violenze subite dalla popolazione civile a cui assistono ogni giorno.

Il governo di Sarajevo non può nemmeno tollerare che non operino sul territorio controllato dai serbo-bosniaci, che intanto continuano senza sosta la pulizia etnica (in particolare nell’area di Banja Luka).

Il politico Ejup Ganić, ben noto per le sue metafore colorate (come quella sulla fine del tempo del caffè in Bosnia), riassume in maniera efficace il rapporto controverso tra Sarajevo e l’Occidente sulla missione UNPROFOR:

«Ci aspettavamo un chirurgo e invece ci hanno inviato una balia».

Una balia che qualche volta tenta di farsi chirurgo, cercando di soccorrere gli assediati. Ma sempre bloccata dai comandi superiori, la cui risposta è il silenzio.

È lo stesso generale Morillon a imprimere la politica dell’acquiescenza alla missione. Fedele alla linea del presidente francese, François Mitterrand, è convinto che per salvare più vite possibile i caschi blu non debbano prendere posizione a favore di nessuna delle parti etniche in lotta.

Quella in Bosnia sarebbe una guerra civile (non una guerra d’aggressione di Belgrado), per cui in qualche misura tutti i belligeranti sono responsabili. La pensano così a Parigi e ora anche al quartier generale dell’UNPROFOR.

Ma la politica dell’acquiescenza fa il gioco dei più forti - serbi e serbo-bosniaci - con l’embargo alle armi indiscriminato su tutto il territorio dell’ex-Jugoslavia che si dimostra ogni giorno sempre più come la più grande ipocrisia dell’Occidente.

Perché, mentre i depositi dei serbo-bosniaci di Ratko Mladić sono pieni delle armi dell’ormai smantellata Armata Popolare Jugoslava (JNA), le altre parti in conflitto ne hanno un disperato bisogno.

Come si sa, dove c’è una domanda, il mercato risponde. Sempre. E se non può farlo in modo legale, si ingrossano le vie del contrabbando.

I bosgnacchi - complice il sentimento di tradimento dell’Occidente - si rivolgono all’area islamica. Finanziatori in armi e denaro sono l’Arabia Saudita, la Turchia, il Pakistan, l’Iran, la Malesia e il Brunei, oltre alle organizzazioni estremiste Al-Qaeda, Hezbollah, Harkat ul-Ansar e il Gruppo Islamico Armato di Algeria.

A rinvigorire il timore dei Paesi dell’Europa Occidentale di un aumento del radicalismo islamico in Bosnia (ma alimentato dalla loro stessa mancanza di supporto alle autorità di Sarajevo), la città di Travnik - antica sede dei vizir turchi - diventa la base di mujaheddin veterani della guerra in Afghanistan.

I finanziatori in denaro e armi della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, tra Paesi (in verde) e organizzazioni estremiste (in nero) dell’area islamica

I croati e croato-bosniaci, invece, si riforniscono principalmente da Bolivia e Sudafrica, grazie all’estesa ragnatela di rapporti della diaspora.

Ma un grosso supporto arriva anche dalle industrie di armi di Germania, Austria, Italia e dei Paesi europei dell’ex-Unione Sovietica.

I finanziatori in denaro e armi della Croazia e della Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia, tra Paesi (in arancio) e industrie belliche (in nero)

Anche i serbi e serbo-bosniaci continuano in realtà ad ampliare il proprio arsenale, ricevendo materiale dalla Russia (dove il KGB costituisce compagnie private apposite con la partecipazione della mafia russa).

Vengono coinvolti in questo affare anche i cristiano-maroniti del Libano, i copti d’Egitto, i circoli della destra in Sudafrica, oltre a Israele, Siria, Iraq e Corea del Nord.

I finanziatori in denaro e armi della Repubblica Federale di Jugoslavia e della Republika Sprska, tra Paesi (in marrone) e organizzazioni politico-religiose (in nero)

Cartellino rosso alla Jugoslavia

Ciò che l’Occidente sembra far meglio è avviare processi di pace e prendere decisioni sul piano della diplomazia.

Dopo la Conferenza di Londra, il 18 settembre si aprono presso il palazzo delle Nazioni Unite i colloqui di Ginevra. Una mediazione quasi impossibile, per diverse ragioni.

Prima di tutto, per il fatto che il presdiente bosniaco, Alija Izetbegović, si rifiuta di sedersi allo stesso tavolo dei rappresentanti della Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia e della Republika Sprska.

Punto secondo, perché viene subito tradita dai serbi la promessa fatta a Londra di cessare i bombardamenti su Sarajevo.

Quasi inaspettatamente a New York succede qualcosa di storico. Il 22 settembre la Jugoslavia viene espulsa dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Dopo le sanzioni economiche adottate a maggio contro Slobodan Milošević, la Risoluzione 777 riconosce che la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia ha cessato di esistere e che la Repubblica Federale di Jugoslavia non può ereditarne il seggio alle Nazioni Unite.

La Risoluzione viene adottata con 127 voti a favore, 6 contrari, 26 astensioni e 20 assenze. Per rientrare all’Assemblea Generale dell’ONU, la Federazione serbo-montenegrina deve ripresentare domanda di adesione.

È un colpo durissimo al prestigio in patria del presidente serbo Milošević, che ha sempre spinto in ogni sede internazionale per il riconoscimento alla Serbia dell’eredità esclusiva della Federazione di Tito.

La Repubblica Federale di Jugoslavia nel 1992

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A questo link puoi trovare il riassunto del 1991.

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