Dicembre 1991.
In Croazia, dopo tre mesi di assedio la città di Vukovar si è arresa alle forze serbe regolari e paramilitari [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
Intanto anche la Bosnia ed Erzegovina inizia a sfaldarsi e di fronte agli evidenti fallimenti europei in Jugoslavia, la Comunità Europea decide di rimettersi nelle mani dell’ONU.
C’è però ancora un po’ di spazio per influenzare le dinamiche nelle ex-Repubbliche socialiste.
Anche se sta diventando sempre più impossibile mettere ordine a un groviglio ormai inestricabile di rivendicazioni e violenze etniche.
L’Europa riconosce le nuove Repubbliche
Sulla scorta di alcune decisioni del mese precedente, il 2 dicembre la Comunità Europea decide di imporre sanzioni contro Serbia e Montenegro.
A dire il vero, a Bruxelles si decide di toglierle a tutte le altre Repubbliche (rispetto a quanto concordato a novembre) e di lasciarle solo ai responsabili delle violenze di Vukovar e delle devastazioni di Dubrovnik.
La misura, accolta con astio a Belgrado, è arrivata su pressione tedesca. A due anni dalla riunificazione, Berlino sta cercando di scrollarsi di dosso l’etichetta di “gigante economico, ma nano politico”.
E la Germania non si ferma qui.
Nel corso di un vertice notturno tra il 15 e il 16 dicembre, il cancelliere tedesco, Helmut Kohl, riesce a strappare agli altri 11 leader europei l’impegno di riconoscere l’indipendenza e la sovranità di Slovenia e Croazia entro il 15 gennaio 1992.
Ma c’è di più. La Comunità Europea apre a tutte le Repubbliche che lo desiderano la possibilità di presentare richiesta di riconoscimento internazionale entro una settimana. La domanda sarà poi esaminata da un’apposita commissione d’arbitraggio.
Slovenia e Croazia hanno la corsia preferenziale. Ma l’invito viene accolto anche da Kosovo, Bosnia ed Erzegovina e Macedonia.
A proposito di quest’ultima, la Grecia pone il veto sul nome di “Repubblica di Macedonia”. È a metà dicembre del 1991 che si può rintracciare l’origine di tutti i problemi di Skopje con le potenze occidentali.
Quanto deciso dai leader europei non è poi così azzardato.
D’altronde, da mesi la Jugoslavia è in disintegrazione e ora si parla apertamente di una Federazione defunta.
Il primo a farlo è Stipe Mesić. Dimettendosi dalla carica di presidente federale, il 5 dicembre afferma che «la Jugoslavia non esiste più».
Solo quattro giorni più tardi, la commissione d’arbitraggio della Comunità Europea presieduta da Robert Badinter conferma nuovamente alla Conferenza di pace dell’Aja che «la Federazione è in piena disintegrazione».
Nel rapporto si legge che, come conseguenza della dissoluzione, le Repubbliche potranno formare liberamente nuove associazioni di Stati, nel rispetto del diritto internazionale e della dignità delle minoranze etniche.
Serbia e Montenegro, colpite anche dalle sanzioni europee, contestano il documento. Contro la secessione delle altre Repubbliche, rivendicano il diritto esclusivo alla successione della Federazione jugoslava.
Il secessionismo dei serbi (fuori dalla Serbia)
Banditer e i colleghi della commissione sono consapevoli delle divisioni etniche laceranti in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina.
Per questo motivo viene riconosciuto ai serbi - fuori dalla Serbia - il diritto a una propria identità. Ma non alla secessione.
Secondo la Costituzione jugoslava del 1974, sono titolari della sovranità le sei Repubbliche socialiste, non i popoli che abitano dentro i confini della Federazione.
Nel momento in cui la Federazione stessa si sta disintegrando, le Repubbliche possono sì separarsi unilateralmente, ma senza variazioni di frontiere. A meno di «liberi e mutui accordi».
In più, in base al Piano Vance elaborato a novembre, i soldati dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA) si dovranno ritirare in Serbia, mentre i paramilitari dovranno consegnare le armi ai caschi blu dell’ONU.
Con il congelamento dello status quo a partire da inizio 1992, saranno create tre aree protette dalle Nazioni Unite (UNPA) che coincidono con i territori conquistati dai serbi in Croazia nei mesi di guerra: Krajina, Slavonia e Banija.
Ma più di qualcuno si oppone al Piano.
In Krajina, il leader dei serbo-croati, Milan Babić, teme che il ritiro dell’Armata federale possa tagliare il collegamento teeritoriale vitale tra Knin e Belgrado, che passa anche dalla Bosnia serba.
Il primo passo per contrastare questo pericolo è la proclamazione d’indipendenza della Repubblica serba di Krajina del 19 dicembre.
Il primo presidente è Babić, che presenta immediatamente richiesta di riconoscimento internazionale alla Comunità Europea.
Qualcosa di simile succede in Bosnia.
In contrasto con i croato-bosniaci e i bosgnacchi che aspirano all’indipendenza, il leader serbo-bosniaco, Radovan Karadžić, minaccia la guerra in caso di scissione della Repubblica dalla Jugoslavia.
E invece la scissione la fanno proprio i serbi di Bosnia.
Il 21 dicembre, l’autoproclamato Parlamento del popolo serbo dichiara la nascita della Repubblica serba della Bosnia ed Erzegovina (Republika Srpska). Come primo presidente della nuova entità viene nominato proprio Karadžić.
Il presidente bosniaco, Alija Izetbegović, non si fa sorprendere dall’ennesimo strappo del suo nemico in casa e cerca di mantenere bassi i toni dello scontro: «Non ci sarà la guerra, perché bisogna essere in due per combattere».
Il problema è che in molti sono pronti a combattere, dentro e fuori i confini della Bosnia.
E spesso la situazione è ai limiti del paradossale.
Per esempio, i presidenti di Croazia e Serbia (Franjo Tuđman e Slobodan Milošević) si stanno affrontando in una serie di azioni belliche sanguinose sul territorio croato, per arrivare nella condizione più vantaggiosa possibile allo scoccare dello status quo.
Ma nel frattempo si accordano per spartirsi la Bosnia ed Erzegovina ai danni dei bosgnacchi (la componente etnica musulmana).
Il primo colloquio è stato quello di marzo a Karađorđevo, con il tema della spartizione della Repubblica sul tavolo. Entrambi hanno concordato che la Bosnia ed Erzegovina è «un’entità fasulla».
Negli otto mesi successivi - nonostante le dinamiche della guerra in Croazia - il piano è proseguito grazie al lavoro di una commissione segreta, istituita proprio per tracciare i confini tra la Grande Serbia e la Grande Croazia.
A confermarlo - preannunciando un 1992 di violenze in Bosnia - è proprio il presidente croato.
Durante il ricevimento di Capodanno per i giornalisti, Tuđman dichiara che la divisione della Repubblica (e la creazione di uno Stato-cuscinetto musulmano) «corrisponderà agli interessi a lungo termine di tutti e tre i popoli».

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