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The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Gennaio '91. La rapina del secolo
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Gennaio '91. La rapina del secolo

È il primo mese del 1991. L’anno in cui iniziò ufficialmente il processo di disgregazione della Jugoslavia.

Gli antefatti puoi trovarli qui, nella tappa-pilota.

Il focus di questo mese è sull’economia.

Dai contrasti tra governo federale e singole Repubbliche, alla “rapina del secolo” denunciata dalla Slovenia. Fino alla guerra che iniziò prima dalle dogane che sui campi di battaglia.


Economia al collasso

Il 4 maggio del 1980 il maresciallo Josip “Tito” Broz moriva, lasciando la Jugoslavia in un mare di debiti. Per ripianare i deficit dell’economia autogestita, nei 20 anni precedenti erano stati contratti debiti sempre crescenti con l’estero.

La situazione economica della Federazione è sull’orlo del collasso e la Jugoslavia sembra essere tornata agli anni Sessanta.

I soli tassi di interesse sui debiti superano i 5 miliardi di dollari. Le regioni del Sud devono introdurre il razionamento per mancanza di generi di prima necessità.

Tutto questo, nonostante i programmi di stabilizzazione e le iniezioni del Fondo Monetario Internazionale.

Si tenta così la strada dell’austerità. Viene introdotta la tassa sull’espatrio, per bloccare la perdita di valuta. E si attiva il meccanismo della socializzazione dei debiti, un ripianamento collettivo dei buchi finanziari delle singole Repubbliche.

La strategia non ha molto successo. Un’ondata di scioperi scuote il Paese: da 699 nel 1985, a 1570 due anni dopo.

Nel 1989 l’iperinflazione tocca i 2700 punti percentuali.

Banconota da 1000 dinari (1981)

Logiche di mercato

Le Repubbliche di Slovenia e Croazia iniziano a ribellarsi. Non tollerano più il meccanismo di socializzazione dei debiti: anziché ripianare i debiti delle Repubbliche meridionali - dicono i dirigenti - potrebbero rendere competitive le proprie economie.

Iniziano a farsi strada logiche di mercato poco socialiste.

A Lubiana è sotto gli occhi di tutti il fatto che la Slovenia rappresenti il 18 per cento del PIL jugoslavo, un quarto dell’export totale e - sopra ogni cosa - un terzo delle esportazioni verso l’Occidente. Con una popolazione che rasenta l’8,3 per cento della Federazione.

Il 16 marzo del 1989 diventa premier della Jugoslavia il croato Ante Marković. Manager di successo, arriva a Belgrado con tutta la sua squadra di ministri.

La ricetta di Marković è una sorta di liberalismo. Punta sulla convertibilità del dinaro, che viene agganciato al marco tedesco (tasso di 7 a 1). Liberalizza le importazioni e introduce l’impresa privata.

L’azione del premier federale ha successo nel contrastare l’inflazione. Ma spinge sloveni e croati a rivendicare il controllo sul proprio gettito fiscale, mentre la maggior parte delle aziende serbe sa di essere destinata a soccombere sul libero mercato.

L’unico alleato su cui può contare Marković è l’esercito.

L’Armata Popolare Jugoslava è definita anche “la fucina della fratellanza e dell’unità dei popoli jugoslavi”. In realtà è praticamente la settima Repubblica jugoslava, per peso nella vita politica (ha una sua Lega dei comunisti), numero (180 mila effettivi) e prerogative (non deve rendere conto né al Parlamento, né all’opinione pubblica).

Ogni richiesta di finanziamento viene accolta in automatico e l’Armata controlla tutto il complesso militar-industriale di ogni Repubblica.

È soprattutto l’istituzione più dispendiosa, considerato il fatto che assorbe la metà del bilancio federale.

Ogni pretesa di controllo nazionale sul gettito fiscale equivale a una dichiarazione di guerra all’esercito stesso.

Soldati dell’Armata Popolare Jugoslava, 1991

La guerra delle dogane

Ma Lubiana morde il freno. Il governo sloveno non vuole più finanziare un pozzo senza fondo.

Per prima cosa, comincia ad aumentare le riserve di valuta estera e acquista 900 milioni di dollari. Subito dopo, trasferisce a Belgrado solo un terzo della sua quota di finanziamento del budget del 1991 (4 miliardi di dinari).

Infine, diminuisce i trasferimenti all’esercito (300 milioni di dinari).

Se l’avversario numero uno delle pulsioni liberali e indipendentiste slovene si chiama Armata Popolare Jugoslava, è però un altro il soggetto che aziona il detonatore.

Per vincere le elezioni presidenziali in Serbia del 9 dicembre del 1990, il neo-eletto Slobodan Milošević ha agito alle spalle delle autorità federali.

Ha immesso liquidità nel sistema per un valore di un miliardo e 405 milioni di dollari. Una quantità di moneta pari alla metà dell’emissione di denaro prevista per tutto l’anno successivo in Jugoslavia.

Lo scandalo dell’irruzione serba nel sistema monetario federale - la “rapina del secolo” - scoppia in Slovenia nei primi giorni del 1991.

L’8 gennaio il Parlamento sloveno estende il proprio controllo sull’amministrazione doganale e fiscale dell’intera Repubblica.

È iniziata la guerra delle dogane.

L’esercito è intenzionato a non mollare la Slovenia, ma il presidente serbo Milošević è di tutt’altro avviso (come abbiamo già visto nella scorsa puntata).

Due giorni dopo, il 10 gennaio, tiene un discorso paradigmatico:

«Se la Jugoslavia dovesse diventare una Confederazione di Stati indipendenti, la Serbia chiederà dei territori delle Repubbliche confinanti, affinché tutti gli otto milioni e mezzo di serbi possano vivere nello stesso Stato».

Ribadirà lo stesso concetto anche il 24 gennaio, durante una riunione della presidenza federale.

La sua attenzione è già puntata sulla Croazia…

Il presidente serbo, Slobodan Milošević

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