Aprile 1991.
La primavera jugoslava si sta tingendo di rosso sangue, con i combattimenti a Titova Korenica, nella regione croata della Krajina [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
Circa 400 turisti - di cui 200 italiani - si svegliano nel mezzo di uno scenario bellico, ma la diplomazia occidentale mostra comunque di non saper reagire.
Europa e Stati Uniti capiscono che qualcosa sta succedendo sui Balcani, ma per diversi mesi quasi nessun diplomatico si dimostrerà all’altezza di un evento epocale.
Difendere lo status quo
C’è un concetto fondamentale che chiarisce l’approccio della diplomazia occidentale alla questione balcanica.
Ogni analisi è viziata dalla convinzione che la guerra è evitabile e si eviterà, non importa quali tensioni, schermaglie o combattimenti si verifichino.
Non solo. L’integrità territoriale della Jugoslavia è un dogma. Altrimenti si rischierebbero separatismi ovunque in Europa: dalle Repubbliche sovietiche all’Irlanda del Nord, dalla Corsica ai Paesi Baschi.
Già nel 1977 il corrispondente tedesco Carl Gustav Stream si chiedeva se la Jugoslavia avrebbe potuto resistere alla morte di Tito. La risposta - lasciata tra le righe - era no.
Anche quando nei primi sei mesi del 1991 tutti i segnali indicano la direzione della guerra, a partire da Slovenia e Croazia, le cancellerie occidentali rimangono cieche.
Lo spettro della scissione della Jugoslavia avanza per tutto il mese di aprile, con la Slovenia a passo spedito verso l’indipendenza [qui l’episodio del gennaio ‘91] e la Croazia a destreggiarsi tra progetti indipendentisti e crisi armate con i serbo-croati in Krajina e Slavonia [qui l’episodio del febbraio ‘91].
L’Europa però è come paralizzata. E gli Stati Uniti, adattandosi all’atteggiamento degli alleati, lo sono altrettanto.
Germania, Austria e Vaticano - probabilmente gli unici ad avere cancellerie con rapporti capillari e una conoscenza storica della regione - spingono per riconoscere l’indipendenza di Lubiana e Zagabria.
Gran Bretagna, Francia e Italia (e a ruota il resto del continente) rimangono al fianco di Belgrado. Non tanto del presidente serbo, Slobodan Milošević, quanto più dell’entità-Jugoslavia.
Le ragioni sono diverse.
Prima di tutto per la paura che una penisola balcanica divisa in tanti Stati-nazione possa ricadere nella sfera d’influenza della Germania riunificata. La Grande Germania spaventa più dell’instabilità dei Balcani per la sicurezza europea.
Cè poi la già citata prevenzione dalle aspirazioni all’indipendentismo negli altri Paesi europei. La pigrizia delle classi politiche a interpretare le sfide della contemporaneità.
Gli storici legami tra Parigi e Belgrado. Il rassicurante pensiero che la Jugoslavia sia una creatura dell’intesa franco-britannica. L’astio italiano verso sloveni e croati per la questione delle foibe.
E infine la preoccupazione per le sorti dell’Europa orientale, che dalle tensioni in Jugoslavia arriva fino alla moribonda Unione Sovietica, passando dalle incognite di Cecoslovacchia e Romania. Con gli Stati Uniti impegnati con la crisi del Golfo.
Tutto questo non giova a una lucida analisi delle dinamiche sui Balcani.
Errori geo-strategici
C’è un giornalista che ha spiegato gli errori della diplomazia europea e statunitense con estrema lucidità. È Viktor Meier, corrispondente per 30 anni dai Balcani per Neue Zürcher Zeitung e Frankfurter Allgemeine Zeitung.
«I diplomatici occidentali, molti dei quali uscivano dalla capitale [Belgrado, ndr] solo con grande riluttanza […], sembravano non aver capito la realtà del Paese. Negli ultimi sei mesi della Jugoslavia, la loro ostilità verso la realtà assunse dimensioni grottesche».
Meier ha sfruttato il suo punto di vista privilegiato per lanciare attacchi duri ma argomentati:
«Le analisi che ascoltai dal circolo dei diplomatici occidentali in quel periodo facevano un’impressione quasi sconvolgente, tanto che mai prima di allora avevo incontrato un simile garbuglio di errori politici, pigrizia di pensiero e superficialità. Questa gente ha la sua parte di responsabilità nei catastrofici errori della politica occidentale in Jugoslavia».
I responsabili hanno nomi e cognomi:
«Tra di loro, i più importanti erano Warren Zimmermann (Stati Uniti), Sergio Vento (Italia), Hansjorg von Eiff (Germania), Michel Chatelais (Francia) e Peter Hall (Gran Bretagna)».
Per quanto riguarda l’Italia, la situazione ha contorni quasi tragicomici. La Farnesina riceve i rapporti sia del già citato ambasciatore Vento da Belgrado, sia del console Salvatore Cilento da Zagabria.
Il console Cilento gode della panoramica più chiara sugli eventi del fronte occidentale. L’ambasciatore Vento invece arriva addirittura a negare il coinvolgimento dell’Armata Popolare Jugoslava negli scontri in Croazia.
A essere premiato - metaforicamente e praticamente, con l’assegnazione della carica di rappresentante permanente italiano all’ONU nel 1999 - è però Vento.
Si spiega così l’atteggiamento del ministro degli Esteri, Gianni De Michelis, nella missione della trojka europea nel giugno ‘91 a Belgrado e Zagabria (con lui, gli omologhi lussemburghese, Jacques Poos, e olandese, Hans von den Broek).
I tre ministri arrivano sui Balcani pensando di convincere serbi, croati e sloveni della follia della guerra, quando invece il ricorso alle armi alla vigilia dei dieci anni di guerre nell’ex-Jugoslavia è tutt’altro che irrazionale.
Se ne andranno convinti di esserci riusciti e di aver imposto la pace. Invece tutto rimane ambiguo e il risultato sarà un chiaro fallimento.
Ma a Washington non tira un’aria migliore.
Il 21 giugno, a pochi giorni dalla guerra in Slovenia, il segretario di Stato, James Baker, vola a Belgrado per invocare l’unità, mettendo in guardia da «azioni unilaterali». Non indica però nella pratica qual è la via d’uscita per scongiurare la guerra.
Il giorno seguente il New York Times scrive un articolo durissimo:
«Bush e Baker hanno scommesso sul cavallo perdente. Come può una società liberale come quella statunitense difendere un regime come quello jugoslavo? […] Solo i banchieri temono la disgregazione della Jugoslavia: se la Slovenia e la Croazia, stanche di venir munte da comunisti incompetenti, se ne vanno, sarà impossibile riscuotere i debiti di Belgrado».
Il 12 aprile ci ha già pensato Milošević, in un discorso al Parlamento di Belgrado, a mettere alla berlina gli statunitensi. Secondo il presidente serbo, Washington non sarebbe intervenuta nel ginepraio balcanico, perché consapevole delle difficoltà:
«È difficile che le grandi potenze intervengano in un qualsiasi Paese europeo e sicuramente non in uno dove ci sarebbero perdite. Noi infatti non siamo né Panama né Grenada».
Sarà solo parzialmente vero.
Irrecuperabile
Intanto la situazione nell’aprile balcanico sta sfuggendo sempre più di mano.
I luoghi degli scontri sono sempre le regioni croate abitate da consistenti minoranze serbe, la Krajina e la Slavonia.
A Pakrac e Knin, a Glina e Borovo, i serbo-croati alternano provocazioni armate alla non-collaborazione con le autorità di Zagabria. L’amministrazione pubblica si paralizza e inizia a perderne il controllo.
Negli arsenali si accumulano mitra, granate, mine antiuomo e pistole.
Sui fuoristrada blindati, i fautori della Grande Serbia conquistano pezzi di territorio con uno stillicidio di azioni terroristiche.
Stazioni bersagliate, binari sabotati, acquedotti interrotti, case e negozi di croati fatti saltare in aria.
Alla fine del mese di aprile si contano 89 attacchi armati e 154 attentati dinamitardi, di cui la metà contro abitazioni private. Zara è la città più bersagliata.
Tutto fa presagire un maggio di fuoco in Croazia.
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