Agosto 1991.
È un’estate bollente quella che vive la Croazia.
Da luglio l’Armata Popolare Jugoslava (JNA) sta fornendo supporto operativo ai ribelli della Repubblica Serba di Krajina, che conquistano villaggio su villaggio, città su città [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
L’obiettivo ora è Vukovar, al confine con la Serbia.
Mentre il presidente croato, Franjo Tuđman, non vuole mollare la sua tattica difensiva e vittimistica.
Che alla lunga si dimostra fallimentare.
Il disastro croato
L’inarrestabile avanzata serba in Croazia ha diverse spiegazioni.
È ormai da diversi mesi che i ribelli serbo-croati stanno sfiancando la Guardia Nazionale con agguati, imboscate e scontri armati nei paesini della Krajina e della Slavonia.
Il Piano Ram per l’annessione dei territori rivendicati dalla Grande Serbia - con l’utilizzo dell’esercito federale e di gruppi paramilitari - era stato messo a punto a Belgrado già a febbraio.
A differenza della Slovenia, la JNA ha avuto tutto il tempo per svuotare i depositi della Difesa Territoriale e alla Guardia Nazionale Croata sono rimaste ben poche armi.
Impegnato a promuovere la pace tra Belgrado e Lubiana, l’Occidente non ha mai prestato grande attenzione alla Croazia.
E infine, il presidente Tuđman ha puntato tutte le sue carte su una strategia di non provocazione nei confronti dell’esercito federale, in modo da poter presentare la Croazia come vittima di un’aggressione.
Tutti questi fattori combinati fanno sì che a inizio agosto Zagabria si trovi alle corde.
A onor del vero, il mediatore macedone Vasil Tupurkovski riesce a strappare una tregua (per conto dell’Europa) sia ai ribelli in Krajina, sia a quelli della Provincia autonoma serba di Slavonia.
È il 3 agosto.
Ma, quattro giorni dopo, l’entrata in vigore del cessate il fuoco viene accolta dalle cannonate serbe a Saborsko, a pochi chilometri dalla Bosnia ed Erzegovina.
A Ferragosto la morsa si chiude a Okučani, con la conquista dell’autostrada Novska-Nova Gradiška.
Zagabria è lontana solo 130 chilometri.
A sole 6 ore di cammino, invece, vivono 300 famiglie croate che in cuor loro si sentono italiane.
Sono di origine bellunese. Nel paese di Ploštine conservano lingua e cultura degli avi che si trasferirono in Slavonia tra il Settecento, sotto Maria Teresa d’Austria, e l’inizio del Novecento.
Bepi Stragà, camionista croato-bellunese classe 1960, si mette alla testa di una brigata multietnica di 120 uomini, per combattere i serbi e i federali. Gli italiani indossano berretti verdi, per riconoscersi tra loro.
Ma quando Ploštine cade, devono battere in ritirata nei villaggi sul monte Psunj. Uno di questi si chiama Campo del Capitano. Proprio così, in italiano.
Nello stesso momento, colonne di soldati croati allo sbando attraversano i campi di mais cantando vecchi inni ustascia, per esaltarsi e dimenticare che stanno combattendo contro un vero esercito.
Loro invece hanno solo lanciarazzi da spalla, camion e autobus blindati con lastre di metallo.
La tattica meramente difensiva di Tuđman si sta rivelando disastrosa. Non serve irritare l’esercito federale, la JNA fa già il bello e il cattivo tempo in Croazia.
Ad agosto il presidente croato visita il fronte solo una volta e riesce a rimproverare ai suoi ufficiali - che gli chiedevano più munizioni - di usare troppe pallottole.
Ma l’opinione pubblica è sempre più aspra nei suoi confronti e, alla lunga, questo lo spinge a rivedere la sua strategia di prudenza a ogni costo.
Il 22 agosto rivolge alla JNA e alla presidenza jugoslava un ultimatum: se entro fine mese l’aggressione sarà cessata, ordinerà la mobilitazione generale.
Il Paese però conta 125 mila profughi verso Zagabria o verso l’estero (Italia, Germania, Austria e Ungheria).
Tre giorni prima era scattata l’offensiva serba su Vukovar.
19 agosto. Assedio a Vukovar
Vuk, come lupo.
Vár, come fortezza.
Vukovar sorge sulle rive del Danubio, dove il fiume Vuka si immette nel grande corso d’acqua. Un confine naturale, che separa due lembi di terra e due popoli in conflitto.
Vukovar è una città di frontiera, un porto fluviale e industriale sulla sponda croata del Danubio. Ma basta guardare oltre la distesa blu per vedere la Serbia.
La ‘Fortezza del Lupo’ è anche la porta della Slavonia. In una posizione strategica, al centro di un reticolato di villaggi a maggioranza serbo-croata.
Una città strana, che fino all’ultimo minuto non si accorge della tempesta che sta per abbattersi, cullata nella sua atmosfera dalle note asburgiche.
Si contano 84 mila abitanti, divisi in modo piuttosto omogeneo: 44 per cento croato, 36 per cento serbo e il restante 20 di cechi, ungheresi e altre etnie.
Il nucleo urbano è cosmopolita, i matrimoni misti non fanno nemmeno notizia.
Ma nei sobborghi è cresciuto un sentimento diverso, di rivalsa. È quello della minoranza serbo-bosniaca, immigrata nel 1945 al posto della colonia tedesca (che era invece stata espulsa con l’accusa di sentimenti filo-nazisti).
Nessuno, né a Vukovar né a Zagabria, si sta accorgendo che la porta della Slavonia sta per essere abbattuta.
Ci pensa l’Armata Popolare a bussare il primo colpo.
Il 19 agosto Vukovar è sotto assedio.
L’attacco non si conclude con l’immediata cattura della città - come sperato dai federali - perché qui si erano raccolti i soldati allo sbando nei territori circostanti.
Più di mille volontari danno loro supporto per trasformare la città in un bastione di difesa.
I serbi però la rendono un simbolo da conquistare a ogni costo. Non solo per ragioni strategiche, ma soprattutto psicologiche: in altre parole, per galvanizzare l’opinione pubblica filo-serba.
La popolazione civile deve asserragliarsi nelle cantine e nei bunker. E soffrire la fame, il freddo e le malattie per un tempo che sembra infinito.
Solo davanti alla brutalità dell’esercito federale a Vukovar, Bruxelles si sveglia dal sonno e dall’illusione di una Jugoslavia ancora unita.
In una Dichiarazione dei dodici ministri degli Esteri della Comunità Europea viene condannato «l’illegale impiego dell’Armata e delle forze serbe irregolari» a Vukovar, ma anche «eventuali cambiamenti di frontiera raggiunti con la forza».
Il governo di Belgrado non può sopportare l’intervento della CEE, visto come un umiliante sopruso.
E inizia già ad appropriarsi dell’eredità jugoslava.
Lo fa paragonando la Dichiarazione al celebre diktat di Stalin a Tito del 1948, da cui scaturì il non-allineamento della Federazione alle dinamiche della Guerra Fredda.
Ma nel 1991 la guerra è calda e la Jugoslavia ormai non esiste più.
E Vukovar non ha ancora visto il peggio.
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