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The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Giugno '91. È guerra!
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Giugno 1991.

Mentre nella Repubblica Socialista di Croazia si stanno combattendo battaglie dentro e fuori le urne [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast], in un’altra Repubblica la situazione ormai da tempo è fuori controllo.

In Slovenia, già nel dicembre del 1990 si è tenuto il referendum sull’indipendenza [La tappa pilota] e nei primi mesi del 1991 è tutto pronto per la separazione della Federazione.

Ma non fila tutto liscio come sperato.

E alla fine, dopo mesi di guerra annunciata, la guerra in Jugoslavia arriva davvero.

Per la Slovenia si tratterà di una guerra di 10 giorni. Per tutto il resto della regione, 10 saranno invece gli anni di conflitti etnici.


La Slovenia è indipendente

È il 12 giugno quando il Parlamento sloveno fissa il giorno d’inizio della sovranità del nuovo Stato: il 26 giugno 1991.

L’atmosfera però diventa molto pesante.

A dare le spallate più dure è il ministro della Difesa federale e capo delle Forze armate, Veljko Kadijević, già autore del Piano Ram per la Croazia [Febbraio '91. Una guerra senza inizio].

Ai propri generali spiega che «la Germania riunita si sta preparando alla proclamazione del quarto Reich, che ingloberà l’Austria, l’Ungheria e i traditori sloveni e croati».

I soldati dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA) di stanza in Slovenia vengono invece allertati che «la patria è stata aggredita da un nemico esterno e bisogna difenderla».

Quest’ultima, a ben vedere, sarà un’arma a doppio taglio: quando i soldati si renderanno conto che non c’è nessun nemico esterno e che stanno combattendo contro gli sloveni, a migliaia diserteranno.

Ma il 25 giugno, mentre la macchina dell’esercito federale si mette in moto, il Parlamento sloveno vara gli atti costitutivi della nazione sovrana.

Viene proclamata l’indipendenza e fissata la cerimonia solenne per il 26 giugno (lo stesso fa il Parlamento di Zagabria, ma solo come dichiarazione di principio).

Le autorità di Lubiana prendono il controllo di 37 valichi di frontiera con Italia, Austria e Ungheria, senza spargere una goccia di sangue.

Ma appena la notizia arriva a Belgrado, il Parlamento federale si riunisce per definire illegittima la dichiarazione di indipendenza.

Il governo federale decide di riprendere il controllo delle frontiere, spronato proprio dalle parole di Kadijević:

«Vi assicuro che se le frontiere federali diventano frontiere di Stato, in Jugoslavia il sangue arriverà fino alle ginocchia».

“La Slovenia è indipendente!” titola il quotidiano Delo la mattina del 26 giugno 1991 (credits: Robert Rajtic/AFP)

Ormai però è tutto in mano all’esercito.

Da tempo il presidente serbo, Slobodan Milošević, ha reso manifesta la sua volontà di non opporsi al piano sloveno, ma di impedire la secessione della Croazia [Gennaio ‘91. La rapina del secolo].

L’ultimatum di Belgrado a Lubiana arriva alle 14:00 del 26 giugno, il giorno della cerimonia ufficiale di indipendenza.

Ultimatum respinto. Sulle frontiere compaiono i nuovi simboli nazionali.

In risposta, viene chiuso lo spazio aereo sloveno e i tank federali compaiono anche al confine con Italia e Austria.

La sera stessa, a Piazza della Repubblica, il presidente sloveno, Milan Kučan, presiede alle celebrazioni.

Dalle sue parole traspare determinazione («Noi non minacciamo nessuno»), ma anche consapevolezza per le conseguenze:

«Oggi è ancora lecito sognare, ma non vogliamo farci illusioni. Domani è un altro giorno, un giorno difficile in cui dovremo affrontare la realtà. Dio ci assista».

È la notte del 27 giugno quando scatta l’operazione dell’Armata Popolare Jugoslava.

Inizia la guerra dei 10 giorni.
Inizia la guerra dei 10 anni.


I primi 4 giorni di guerra

Alle 2:40 di notte il XIV corpo d’armata si dirige verso Brnik, l’aeroporto della capitale.

Il gabinetto di crisi del governo, guidato dal ministro della Difesa, Janez Janša, decide di mettere in atto quella che si rivelerà essere la forza della Slovenia.

Si tratta della tattica delle barricate, per deviare e tagliare i rifornimenti alle caserme federali.

Una tattica basata sulla resistenza totale della Difesa territoriale slovena e della popolazione.

Nel corso della giornata, l’Armata riesce però a raggiungere la frontiera italiana e occupare i posti di blocco.

È in questo momento che le telecamere della RAI riprendono e trasmettono le prime immagini della guerra, arrivata fin sul confine.

Che si tratta già di una guerra di propaganda lo dimostra Janša subito dopo l’abbattimento di un elicottero federale che trasportava viveri per i soldati.

Nella tarda serata del primo giorno di guerra comunica ai giornalisti che il conflitto ha già provocato «un centinaio tra morti e feriti». Troppo tardi per verificare, i giornali devono andare in stampa.

Non è vero. E l’abbattimento dell’elicottero scivolerà nel fiume di notizie.

È il 28 giugno. Un giorno più tragico e più “mediatico”.

In risposta all’abbattimento dell’elicottero, i federali attaccano l’aeroporto di Brnik.

Nel bombardamento muoiono due reporter austriaci. I primi due di una lunga lista di giornalisti uccisi nei conflitti dell’ex-Jugoslavia.

Sul confine italiano, invece, si consumano gli scontri più violenti tra soldati federali e sloveni.

In particolare al valico della Casa Rossa, a Gorizia. La Difesa territoriale riprende il controllo, uccidendo tre federali e facendo prendere fuoco a un carro armato. La notte goriziana sarà rischiarata dal fuoco delle munizioni esplose.

La diplomazia europea si mobilita - anche se azzoppata dall’incapacità di cogliere gli elementi inediti di questo conflitto [Aprile ‘91. Il sonno dell’Occidente] - e Lubiana dà il consenso per un cessate il fuoco.

Carri armati federali al valico della Casa Rossa (Gorizia), 28 giugno

Mentre ancora si combatte per il controllo dei confini, come a Rabuiese (Trieste), il 29 giugno a Lubiana si apre il dibattito sul congelamento dell’indipendenza.

La trojka europea, formata dal ministro degli Esteri italiano, Gianni De Michelis, e gli omologhi lussemburghese, Jacques Poos, e olandese, Hans von den Broek, ha proposto una moratoria di tre mesi sull’indipendenza.

Il presidente Kučan, nonostante lo scetticismo generale, riceve il via libera per continuare a negoziare. La Slovenia è già diventata un interlocutore internazionale.

Ma sono gli estenuanti negoziati con l’Armata che vanificano ogni sforzo diplomatico.

Il ministro Janša pretende che i soldati federali tornino nelle caserme senza armi e mezzi da combattimento.

La risposta è un ultimatum da rispettare entro le 9:00 del 30 giugno:

«Siamo sull’orlo della guerra civile. Lubiana deve togliere l’assedio alle caserma e consentire il rientro delle unità, senza alcuna condizione. Altrimenti, lo stato maggiore è pronto a mettere in atto tutte le misure necessarie».

Di nuovo, l’ultimatum viene respinto.

Il 30 giugno, una domenica, la Slovenia si sveglia nel terrore. Dalle basi di Bihać (Bosnia), Pola e Spalato (Croazia), gli aerei federali si sono levati in volo.

Non sono caccia da combattimento, ma gli allarmi risuonano nelle città. La popolazione rimarrà per ore nei rifugi.

Il cessate il fuoco viene ristabilito per volontà di Kučan e del premier federale, Ante Marković, arrivato a Lubiana con questa missione.

Ma l’ultimo giorno di giugno, il quarto di guerra, è quasi surreale.

Mentre la situazione è sempre sul filo del rasoio in Slovenia, a Belgrado avviene un passaggio di consegne al vertice.

Con il benestare di Milošević, il croato Stipe Mesić viene eletto presidente della Jugoslavia.

L’ultimo presidente di una Federazione che ormai non esiste più.

L’ultimo presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, Stipe Mesić

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