BarBalkans
The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Maggio '91. Agguato alla pace
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Maggio 1991.

La diplomazia occidentale non coglie le avvisaglie di una guerra imminente in Jugoslavia e la situazione si fa sempre più incandescente [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].

Dopo i primi scontri di fine marzo tra i ribelli serbo-croati e l’esercito della Repubblica di Croazia in Krajina, è la Slavonia il teatro di battaglie sempre più sanguinose [Marzo '91. Primavera rosso sangue].

Ma intanto le due parti stanno combattendo un’altra battaglia: quella dei referendum per l’indipendenza.

La Croazia dalla Jugoslavia.
La SAO Krajina dalla Croazia.


Borovo Selo

A maggio, scontri armati e referendum si intrecciano indissolubilmente.

È nota da tempo la volontà di Zagabria di indire il referendum per l’indipendenza dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, seguendo le orme della Slovenia [La tappa pilota].

La data scelta è il 19 maggio.

Le minoranze serbe si sentono minacciate e hanno già sottratto intere porzioni della Krajina dal controllo delle autorità croate [Febbraio '91. Una guerra senza inizio].

In Slavonia, invece, l’esercito croato è riuscito per il momento a mantenere il controllo, ma la tensione è alle stelle.

Il paese di Pakrac ha visto le prime vittime di (quasi) guerra. In molti altri potrebbe succedere lo stesso.

Alla fine tocca a un paesino di cinquemila abitanti, a cinque chilometri dai ponti sul Danubio.

Borovo Selo. Un piccolo centro, abitato da contadini, falegnami, operai e ferrovieri. Pieno di famiglie locali povere e di altre immigrate dalla Serbia e dalla Bosnia dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Poveri e sradicati. Un mix perfetto per l’escalation di tensione etnica.

Borovo Selo, Croazia

A capeggiare gli estremisti locali dell’Unione Democratica Croata (HDZ) sono due personaggi discutibili: Gojko Sušak, finanziatore della campagna elettorale del presidente Tuđman, e Branimir Glavaš, già autore di crimini di guerra contro i serbi.

I croati moderati della vicina Osijek cercano di mediare, a partire dal sindaco, Zlatko Kramarič, e il capo della polizia, Josip Reihl-Kir.

Come spesso succede, gli estremisti finiscono per fare danni che i moderati non possono contenere in nessun modo. Questo succede anche a Borovo Selo.

Un giorno, alcuni militanti dell’HDZ, capeggiati da Sušak, sparano tre razzi anticarro sul centro abitato. Uno colpisce una casa serba.

Il capo della polizia sa già che la situazione è irreparabile: «Sono dei pazzi», si sfoga con il sindaco.

Non basta.

A Borovo Selo è stato concesso una sorta di “statuto speciale”: nessun poliziotto croato può entrare in paese senza esplicita autorizzazione degli abitanti.

Ma nella notte del 1° maggio quattro poliziotti superano una barricata incustodita e tentano di issare al posto della bandiera jugoslava quella croata con la šahovnica (la scacchiera, il simbolo storico).

I serbo-croati aprono il fuoco: due poliziotti vengono feriti e catturati, gli altri due riescono a scappare.

La mattina seguente i capi della rivolta accettano di consegnare i due prigionieri, a condizione che la polizia croata venga a riprenderseli.

Si presentano in venti, armati. Sembra una spedizione punitiva.

Ma sono armati anche dall’altra parte, grazie al supporto dei vertici militari di Belgrado. Difficile altrimenti che a Borovo Selo possano girare i mitra Thompson, uno stock inviato dagli Stati Uniti a Tito nel 1948 (dopo la rottura con Stalin).

I presupposti degli eventi del 2 maggio sono tutti qui.

Il contingente si dirige verso il centro del paese, senza incontrare opposizione. A destra ci sono le case, sulla sinistra una birreria e una pizzeria (Stella Rossa, con l’insegna in italiano).

D’improvviso si scatena l’inferno. Una tempesta di proiettili si abbatte dai tetti e dai cancelli, viene da qualsiasi direzione.

È un agguato perfetto.

Il bilancio dice 12 morti tra i poliziotti croati e 3 fra i ribelli serbo-croati.

Come trofei, le automobili forate e insanguinate vengono esposte fuori dalla stazione di polizia di Borovo Selo.

Polizia croata a Borovo Selo, 2 maggio 1991

La rabbia croata

Dopo la battaglia di Borovo Selo, in Croazia le reazioni sono veementi. E fanno il gioco - mediatico e politico - del presidente Franjo Tuđman.

Il 4 maggio vengono restituite le 12 salme, oltre ai due ostaggi.

Il chirurgo-capo del comitato militare riferisce che ci sono segni di tortura: «Hanno calpestato le ferite, schiacciato mani e pedi».

Alcuni cadaveri non lasciano spazi a dubbi. Uno è senza testa, uno ha la gola squarciata e un altro ancora il cranio sfondato, con gli occhi che penzolano fuori dalle orbite.

Le immagini sono crude e il governo ci impiega due giorni per decidere se diffonderle.

Alla fine dà l’assenso.

Le fotografie della massacro vanno in onda in prima serata, durante il telegiornale di Zagabria.

I croati scendono in piazza per manifestare la propria rabbia.

In particolare a Spalato, dove è arrivato proprio Tuđman per incontrare i sindaci delle città dalmate e inaugurare la Croatian Airlines.

Qui la rabbia per le morti di Borovo Selo - molto lontane, a dire il vero - si unisce a un’altra protesta. Quella per l’assedio di Kijevo.

Lungo la strada tra Spalato e Knin, Kijevo è un’enclave nell’enclave. Un paese croato accerchiato da vicini serbo-croati. Che a loro volta sono la minoranza in Croazia.

Tra fine aprile e inizio maggio le milizie cetniche hanno tagliato i rifornimenti croati al paese, con il supporto delle truppe dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA) del colonnello serbo-bosniaco Ratko Mladić.

La vecchia strategia del blocco: prendere per fame gli assediati.

Manca la luce, l’acqua si attinge da un pozzo, i registri dell’anagrafe e del catasto vengono requisiti dai militari, per “bonificare” la presenza croata dal paese.

Nonostante a metà maggio il (primo) blocco venga revocato, a Kijevo continua a saldarsi sul campo l’alleanza tra l’esercito federale e le milizie cetniche.

La bandiera della Croazia con al centro la šahovnica, in uso tra i croati dentro e fuori i confini nazionali tra il 1990 e il 1991

La battaglia delle urne

Prima dell’inizio ufficiale dei conflitti nell’ex-Jugoslavia a giugno, la guerra tra le autorità di Zagabria e i ribelli serbo-croati si sta combattendo altrove (oltre agli scontri nei piccoli paesi). Per la precisione, nelle cabine di voto.

Il 19 maggio è la data fissata per il referendum sulla “Croazia sovrana e indipendente”.

Come prevedibile, è un plebiscito. L’affluenza superiore all’80%, a favore dell’indipendenza dalla Jugoslavia oltre il 90% dei votanti.

Tuđman dichiara con orgoglio: «Sia fatta la volontà del popolo».

Ma intanto nella regione della Krajina un altro popolo, quello serbo-croato, ha espresso una volontà diversa.

Il 12 maggio a Tenin, nell’entroterra dalmata, viene proclamata la nascita della Repubblica serba di Krajina (SAO Krajina).

L’annuncio è arrivato dopo l’esito di un referendum popolare. Quello stesso giorno le schede riportavano il seguente quesito:

Sei favorevole o contrario all’unificazione fra Krajina e Serbia, per restare in Jugoslavia con gli abitanti di Serbia, Montenegro e con gli altri popoli che vogliono rimanere in Jugoslavia?

Il 99,8% vota a favore.

Milan Babić - il futuro presidente della SAO Krajina - dopo aver deposto la scheda nell’urna di cartone, dichiara: «La Serbia va da Knin alla Bulgaria e noi oggi siamo in Serbia».

Questa Serbia, ormai lo sappiamo, è la Grande Serbia.

Il sindaco di un altro paese, Benkovac, sostiene che le vetrine dei negozi croati in frantumi siano opera degli stessi croati, «per screditarci».

Ormai si parla per slogan, per odio, per conflitto.

La guerra ormai è alle porte.


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