Novembre 1991.
Il piano dell’Occidente per cercare un compromesso tra le ex-Repubbliche jugoslave attraverso un’alleanza di Stati indipendenti ha fallito e la guerra in Croazia si inasprisce [puoi recuperare qui l’ultimo episodio di BarBalcani - Podcast].
La Guardia Nazionale Croata taglia gli approvvigionamenti alle caserme federali, mentre l’Armata Popolare Jugoslava bombarda da terra e dal mare le città della Dalmazia, da Zara a Spalato, fino a Dubrovnik.
Nella Slavonia orientale, Vukovar si è trasformata in una Stalingrado, con un assedio che dura ormai dal 19 agosto.
La fine di Vukovar
Dopo 91 giorni, 2184 ore di assedio, la Fortezza del Lupo cade.
Il 18 novembre Vukovar capitola alle forze regolari della JNA e ai paramilitari serbi.
Nei tre mesi di assedio hanno già perso la vita circa 4 mila civili. Per buona parte degli oltre 2 mila difensori che non sono riusciti a scappare, il destino non sarà diverso.
La città viene invasa o liberata - a seconda del punto di vista degli assediati o degli assedianti - dagli ufficiali federali e dai cetnici. Questi ultimi percorrono le strade uccidendo e cantando inni macabri:
«Bit če mesa, bit če mesa, lati čemo hrvate» [«Carne ci sarà, carne ci sarà, macelleremo i croati»].
A questo banchetto il presidente serbo, Slobodan Milošević, viene invitato a «portare l’insalata».
Si procede al rito della separazione: serbi e jugoslavi da una parte, croati dall’altra.
Donne e bambini vengono dispersi, gli uomini croati vengono fucilati e gettati in fosse comuni presso Ovčara. Altri vengono internati e torturati a Sremska Mitrovica, in Vojvodina.
Sono 520 le salme ufficiali sepolte al cimitero di Vukovar, ma mancano all’appello centinaia di cadaveri abbandonati a marcire per le strade o nei campi.
La Croazia di Franjo Tuđman è allo sbando, con una diaspora che ingrossa solo le fila degli ultranazionalisti di Hos, l’Organizzazione per la difesa della patria. A Zagabria il timore è che all’estero si accrediti l’idea di una Croazia ustascia, cioè fascista.
Nonostante la presa di Vukovar stia aumentando l’isolamento della Serbia agli occhi delle potenze mondiali, la Croazia rischia la disfatta totale.
Il generale Života Panić lo capisce perfettamente: proseguendo la marcia su Osijek, la strada per Zagabria è spianata.
Ma è qui che si rivela il carattere puramente etnico di questi conflitti.
Da Belgrado, Milošević impone al generale Panić di non avanzare e di accettare che l’obiettivo è stato raggiunto:
«Non abbiamo nulla da fare, noi, nelle aree popolate dai croati. Dobbiamo difendere le aree serbe».
Se il progetto è quello di creare la Grande Serbia - la nazione che unisce tutti i serbi anche nei territori dove sono una minoranza - la vittoria a Vukovar ha impedito a Zagabria di trascinare la Slavonia nel nuovo Stato sovrano e indipendente.
Sembra quasi un paradosso, ma il 19 novembre - l’alba del giorno dopo della presa e delle violenze a Vukovar - i media internazionali parlano d’altro.
Più precisamente riportano con enfasi un eccidio che non c’è mai stato.
Un fotografo di Belgrado che lavora per la sede locale della Reuters ha riferito di 41 corpi di bambini serbi ritrovati sgozzati nel villaggio di Borovo Naselje, alla periferia di Vukovar.
Confesserà lui stesso alla redazione di aver visto solo le 41 sacche di plastica già chiuse (con dentro dei cadaveri) e di aver creduto al racconto di un ufficiale federale. Il massacro è un falso e non viene denunciato nemmeno dai serbi.
È vero - ma non fa notizia - quello di Škabrnja, in Dalmazia.
A 10 chilometri da Zara, intere famiglie croate vengono trucidate dai cetnici e i superstiti arrivati di notte nella città riferiscono di esecuzioni a freddo e impiccagioni.
È la guerra degli orrori, da entrambe le parti. Torture, crocifissioni, occhi cavati dalle orbite con cucchiai affilati, stupri e inseminazione etnica delle donne.
La pratica più comune è il taglio delle dita: due o tre, a seconda che si voglia far fare a cadaveri e ostaggi nemici il saluto alla serba (pollice-indice-medio) o alla croata (indice e medio a V).
Arriva l’ONU
Tre giorni dopo la capitolazione di Vukovar, gli ufficiali della JNA invitano i giornalisti di stanza a Belgrado a fare un “tour guidato” nella città distrutta, per celebrare la liberazione della città.
La testimonianza del corrispondente italiano Paolo Rumiz offre tutta la dimensione di un dramma che in Europa non si vedeva dalla fine della Seconda Guerra Mondiale:
«Tacevamo. Perché sentivamo di avvicinarci a qualcosa di inconcepibile, che avevamo visto solo nei manuali di storia. Capimmo prima ancora di vedere: e fu quando il vento d’autunno ci porto quell’odore dolciastro».
L’odore dolciastro della decomposizione.
Anche gli osservatori europei della commissione d’arbitraggio della Conferenza dell’Aja si recano a Vukovar e riportano che «la Federazione jugoslava è in piena disintegrazione».
A una settimana dalla fine dell’assedio, il 26 novembre testimoniano che «l’esercito spara senza esitazione su obiettivi inequivocabilmente civili, sia a casaccio, sia puntando su scuole, musei e soprattutto ospedali».
I paesini abitati dai croati non vengono occupati dai serbi, ma rasi al suolo: «Semplicemente vengono cancellati dalla faccia della terra», conferma il rapporto.
A fine novembre Tuđman prova una controffensiva in Slavonia Occidentale, mentre deve anche pensare alla difesa dei connazionali nella sempre più instabile Bosnia ed Erzegovina.
È in questo contesto che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approva all’unanimità la Risoluzione 721. È il 27 novembre e per la prima volta vengono fatti i preparativi per l’invio di un contingente di truppe ONU.
La Comunità Europea riconosce di fatto di aver fallito nella gestione della crisi nell’ex-Jugoslavia e si rimette nelle mani delle Nazioni Unite.
L’inviato speciale per la Croazia, Cyrus Vance, viene incaricato di preparare il terreno diplomatico per l’intervento dei caschi blu nelle zone interessate dai combattimenti sul territorio croato, dalla Krajina alla Slavonia, fino alla Dalmazia.
Tra serbi e croati c’è poco da mediare, la situazione deve essere gestita sul campo.
In Europa si aprono invece le discussioni sul riconoscimento internazionale dei due nuovi Stati nazionali post-jugoslavi: Slovenia e Croazia.
Una Repubblica a pezzi
Anche la Bosnia ed Erzegovina sta scivolando nel caos.
Il 15 ottobre la maggioranza del Parlamento di Sarajevo ha votato a favore del memorandum per la costituzione di uno Stato sovrano, democratico e indivisibile.
La decisione ha scatenato l’ira dei 73 deputati del Partito democratico serbo (SDS), che si sono autoproclamati «rappresentanti di tutti i serbi di Bosnia ed Erzegovina».
Tra il 9 e il 10 novembre viene organizzato il cosiddetto “plebiscito”. Non è altro che una consultazione-farsa in cui i cittadini di etnia serba devono esprimersi tra l’indipendenza della Bosnia dalla Jugoslavia o «lo status quo».
Non c’è nemmeno un risultato. Solo un comunicato che annuncia: «La seconda opzione ha ottenuto la maggioranza».
Il 21 novembre l’SDS si proclama Parlamento del popolo serbo in Bosnia ed Erzegovina.
Ormai i rappresentanti politici dei serbi di Bosnia prendono ordini solo da Belgrado e dal loro leader, Radovan Karadžić, lo psicologo della squadra di calcio di Sarajevo.
Si consacra così sulla scena politica una delle figure più controverse e sanguinarie dell’ex-Jugoslavia.
Ma quella serba non è l’unica frattura nella Repubblica secessionista.
I bosniaci di etnia croata hanno sì appoggiato il memorandum del 15 ottobre, ma dietro alle quinte stanno tessendo una ragnatela di rapporti che li lega sempre più alla Croazia di Tuđman.
Al centro di questa ragnatela c’è Mate Boban, mercante d’armi e uomo forte dell’Unione Democratica Croata di Bosnia (HDZ).
Il 12 novembre convoca nella cittadina di Grude una riunione segreta con una ventina tra i maggiori esponenti del partito, dove riporta gli esiti dei colloqui con il presidente croato.
L’obiettivo è quello di passare all’azione per arrivare alla costituzione di «una Croazia nelle sue frontiere etniche e storiche».
Al pari della Grande Serbia, una Grande Croazia. Una sorta di Piano Ram, senza l’appoggio dell’Armata Popolare Jugoslava.
La decisione dell’incontro segreto non trapela fuori da Grude, ma getta le basi per il secessionismo dei croato-bosniaci.
Per il momento viene solo proclamata la costituzione di una realtà regionale politica, culturale ed economica estesa a 38 comuni, che riconosce le autorità della Bosnia ed Erzegovina democraticamente elette.
Almeno fino al momento in cui la Repubblica manterrà la sua indipendenza - in linea con il memorandum - dalla Jugoslavia «passata e futura».
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