S2E14. Perché la Bosnia non trova pace
Alcune dichiarazioni secessioniste del leader serbo-bosniaco, Milorad Dodik, hanno dato vita alla «più grande minaccia esistenziale» per il Paese dalla fine della guerra nel 1995
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter dai confini sfumati.
Oggi partiamo da Helsinki.
Perché se la Finlandia ha fatto di tutto per non giocare in Bosnia ed Erzegovina una partita di qualificazione decisiva per i Mondiali 2022, qualcosa di grosso dev’essere successo.
La partita in programma oggi (sabato 13 novembre) nella città di Zenica ha rischiato di saltare per questioni che non hanno proprio nulla a che fare con lo sport.
Il presidente della Federcalcio finlandese, Ari Lahti, ha chiesto alla UEFA di spostare l’incontro in campo neutro e persino il ministro degli Esteri, Pekka Haavisto, si è detto «particolarmente preoccupato» per la crisi nel Paese.
Per capire quello che è successo, bisogna spostarsi a Banja Luka, nel cuore dell’entità serba della Bosnia.
«La più grande minaccia esistenziale»
Nelle ultime settimane la secessione e il ritorno alle armi in Bosnia sono diventati un pericolo «molto reale».
L’allarme è stato lanciato dall’Alto Rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina (OHR), Christian Schmidt.
In un rapporto inviato il 29 ottobre al segretario generale dell’ONU, António Guterres, ha avvertito del rischio che corre il Paese se i separatisti serbi metteranno in atto il loro piano di ricreare un proprio esercito, dividendo in due le forze armate nazionali.
«È l’equivalente della secessione, senza proclamarla», è l’accusa dell’Alto Rappresentante. «Sarà necessario rafforzare la presenza delle forze internazionali di peacekeeping, per evitare che la Bosnia ricada nella guerra».
Non solo. «La mancata risposta alla situazione attuale potrebbe mettere in pericolo gli accordi di Dayton, mentre l'instabilità in Bosnia ed Erzegovina avrebbe implicazioni regionali più ampie», ha scritto Schmidt.
Quella in atto nel Paese, senza mezzi termini, è «la più grande minaccia esistenziale dalla fine della guerra» nel 1995.
A far scattare la scintilla è stato Milorad Dodik, ex-presidente della Republika Srpska e attualmente membro serbo-bosniaco della Presidenza tripartita della Bosnia ed Erzegovina.
In occasione del 30° anniversario della costituzione del Parlamento del popolo serbo in Bosnia ed Erzegovina, il leader dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD) ha promesso di fatto una secessione.
L’obiettivo è quello di ritirare l’entità serba dall’autorità centrale della Bosnia ed Erzegovina su questioni di difesa, di amministrazione fiscale e di giustizia.
La creazione di una propria forza armata è centrale nel progetto di secessione e Dodik ha minacciato di usare la violenza per cacciare le truppe bosniache dal territorio della Republika Srpska.
«Ripristineremo, nel quadro dei principi costituzionali e di Dayton, le competenze trasferite dalla Republika Srpska alle istituzioni centrali della Bosnia ed Erzegovina”, ha tuonato Dodik. «È una battaglia per difendere i serbi di Bosnia».
In aggiunta, le istituzioni della Republika Srpska vorrebbero adottare provvedimenti legislativi per sospendere 140 leggi emanate negli ultimi 26 anni dall’Alto Rappresentante: «Sono leggi non volute, ma che ci sono state imposte», ha attaccato Dodik.
Tra queste, i provvedimenti che hanno conferito alle istituzioni centrali poteri in ambiti cruciali, come la difesa e la giustizia.
Il membro della Presidenza tripartita ha affermato che «oggi la vita in Bosnia sarebbe migliore se la Republika Srpska per anni non fosse stata spogliata dei suoi diritti».
Uno Stato fallito
Il motivo per cui questa crisi rischia di far vacillare l’esistenza stessa della Bosnia ed Erzegovina è legato al fatto che si sta mettendo in discussione il principio cardine su cui si fonda lo Stato: il rispetto degli Accordi di Dayton.
Gli Accordi di Dayton furono siglati nel novembre del 1995 sotto pressione diplomatica statunitense e hanno posto fine alla guerra civile bosniaca (iniziata tre anni prima).
Gli accordi siglati dai rappresentanti dei tre gruppi etnici in conflitto - serbi, croati e bosgnacchi – definirono un preciso percorso di stabilizzazione istituzionale del Paese.
La Bosnia post-Dayton è uno Stato multietnico e unitario, ma con forme avanzate di decentralizzazione che rispondo all’esigenza di garantire un margine di autonomia ai tre gruppi etnici definiti “costituenti”.
La conseguenza più evidente è stata la divisione in due entità, che ricalcano i confini territoriali emersi dal conflitto: la Federazione di Bosnia-Erzegovina - abitata in prevalenza da bosgnacchi (bosniaci musulmani) e croato-bosniaci - e la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina - caratterizzata da un’omogeneità etnica serba.
Oltre alla divisione in due entità, il tratto essenziale degli Accordi di Dayton è il complesso impianto di pesi e contrappesi istituzionali. Come la Presidenza tripartita, organo collegiale composto da un membro per ciascun popolo costituente e autorità massima del Paese.
Tuttavia, la salvaguardia dei diritti dei gruppi etnici ha finito per creare tutta una serie di poteri di veto che finiscono per bloccare i processi decisionali.
Lo stallo istituzionale è il tratto caratteristico della vita politica bosniaca, che si sblocca solo con l’intervento della comunità internazionale.
È per questo motivo che spesso la Bosnia viene percepito e definito dai Paesi della regione come uno Stato fallito.
Per quanto riguarda le competenze delle istituzioni centrali e delle due entità - il casus belli delle dichiarazioni di Dodik - una risposta si trova nella Costituzione della Bosnia ed Erzegovina.
Pensata come una soluzione transitoria e contenuta nell’allegato IV degli Accordi di Dayton, la Costituzione stabilisce all’articolo 3 che «tutte le funzioni e le competenze che non sono esplicitamente attribuite alle istituzioni della Bosnia ed Erzegovina spettano alle entità».
Grazie alle decisioni adottate dall’Alto Rappresentante in questi 26 anni (le «leggi non volute» secondo Dodik), sono state poste le basi per la creazione delle istituzioni centrali e sono state precisate meglio le loro competenze esclusive.
Difesa, amministrazione fiscale e giustizia in primis.
Non è la prima volta che i funzionari della Republika Srpska criticano l’operato dell’Alto rappresentante, parlando di «poteri tolti» o di «ripristino delle prerogative».
Si tratta di una tendenza verso il rafforzamento e il raggiungimento dell’indipendenza dell’entità serba.
Ma esacerbare le tensioni politiche serve anche a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica sull’aggravarsi della situazione economica, che spinge molti bosniaci a emigrare, e sugli scandali di corruzione.
Queste dichiarazioni minacciose permettono ai leader politici di evitare di assumersi le proprie responsabilità di malgoverno e continuare a governare in un clima di tensione e paura.
Le elezioni generali in programma nel 2022 si preannunciano con una campagna elettorale già gonfia di una retorica divisiva sul piano etnico e nazionalistica su quello delle rivendicazioni di autonomia.
La questione più urgente dovrebbe essere il lavoro su una seria riforma elettorale, che permetta a tutti i cittadini - non solo ai membri dei tre popoli costituenti - di potersi candidare alla Presidenza della Bosnia ed Erzegovina.
Ma al momento la preoccupazione maggiore è che la Republika Srpska possa indire un referendum sull’indipendenza dalla Bosnia.
Uno scenario reso più reale dalle posizioni incendiarie di Dodik. Dietro l’angolo c’è il pericolo che si possano riaccendere le tensioni etniche, in una regione che ha già vissuto uno dei conflitti più atroci della storia recente europea.
Chi soffia sul fuoco
È evidente che il primo sobillatore di questa crisi istituzionale ed etnica in Bosnia sia il leader dei serbo-bosniaci Dodik. Ma le colpe dell’Occidente non sono da poco.
Milorad Dodik è nato nel 1959 a Banja Luka, la capitale dell’entità serbo-bosniaca. Ha una laurea in Scienze politiche e fa politica da più di 30 anni.
Durante la guerra in Bosnia fu a capo dell’unico partito che si oppose a Radovan Karadžić, ex-presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina rimosso nel 1996 e condannato a 40 anni per crimini di guerra (qui trovi un approfondimento).
Nel 2001 Dodik ha fondato l’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti, che dal 2006 ha sempre vinto le elezioni presidenziali nella Republika Srpska. Carica ricoperta dal 2010 al 2018 proprio da Dodik.
La sua opposizione alle politiche genocide di Karadžić lo ha sempre reso accettabile agli occhi di Stati Uniti ed Europa. Ma negli ultimi anni Dodik «si è trasformato in uno spregiudicato nazionalista e ha seguito attentamente il manuale del perfetto autocrate serbo», ha commentato The New York Times.
Mentre la maggioranza dei Paesi balcanici si sta avvicinando all’Unione Europea (ne abbiamo parlato in questa tappa), il leader della Republika Srpska si è allineato alla Russia di Vladimir Putin. Balkan Insight ha rilevato che Dodik è il leader balcanico che ha incontrato più spesso il presidente russo.
Non è un caso se Dodik ha assicurato di avere «amici che hanno promesso il loro sostegno» al progetto di ritiro dall’autorità centrale. Sottinteso: Serbia e Russia.
Una dimostrazione è arrivata dai negoziati sul rinnovo del mandato annuale delle forze di pace internazionale in Bosnia, ovvero i soldati europei di EUFOR e il contingente NATO a Sarajevo.
Dopo la minaccia della Russia di bloccare la risoluzione, il riferimento ai “poteri di Bonn” dell’Alto Rappresentante sono spariti.
I “poteri di Bonn” sono quelli che consentono all’OHR di imporre misure legislative o licenziare funzionari che si oppongono all’attuazione degli accordi di pace.
A pochi giorni di distanza, il vice-segretario degli Stati Uniti per la politica verso i Balcani Occidentali, Gabriel Escobar, ha dichiarato che sta collaborando con l’UE per «garantire che qualsiasi azione illegale o destabilizzante sia punita».
Ma, a proposito di Unione Europea, c’è anche un altro attore che sta cercando di ritagliarsi un ruolo sempre più centrale nell’area serba.
L’Ungheria del premier Viktor Orbán.
«Siamo grati per la vicinanza dell’Ungheria nei confronti della Republika Srpska e siamo sempre pronti a ospitare i nostri buoni amici», è stata l’accoglienza riservata da Dodik al primo ministro ungherese in visita a Banja Luka lo scorso 6 novembre.
Al centro delle trame tra Budapest e il mondo serbo nei Balcani c’è il ministro degli Esteri magiaro, Péter Szijjártó, che in Serbia ha già ricevuto un’onorificenza statale (puoi leggere della visita di Orbán in Serbia in questo articolo per Eunews).
Già il 23 e 24 settembre Dodik si era recato a Budapest per un summit dell’estrema destra europea.
Ma questa visita del premier ungherese nella Republika Srpska è stata interpretata come un chiaro gesto di sostegno politico all’entità serba di Bosnia, dal momento in cui è arrivata nei giorni della maggiore tensione con la comunità internazionale.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Il bancone del nostro bar oggi è un luogo che richiama tutta l’unità e la multiculturalità della Bosnia ed Erzegovina.
È il bancone di Sarajevo ‘84, osteria verace fondata nel centro della capitale slovena Lubiana (che mi ha accolto al termine del vertice UE-Balcani Occidentali di ottobre).
Qui i cittadini europei che si affacciano per la prima volta ai Balcani possono scoprire tutte le specialità bosniache.
Dai ćevapčići all’ajvar, dal caffè bosniaco al pelinkovac, fino alla Sarajevsko Pivo, birra nazionale dal 1864.
Al bancone di Sarajevo ‘84 c’è posto per tutti, le divisioni non sono ben accette.
Un Paese unito, almeno qui, non sembra un sogno irrealizzabile.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la quindicesima tappa!
Un abbraccio e buon cammino!
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Io come sempre ti ringrazio per essere arrivato fino a questo punto del nostro viaggio. Ti lascio un paio di suggerimenti di lettura sul tema delle fratture su base etnica (qui invece puoi trovare tutte le tappe passate):
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