XVI. Guerre da freezer
Lo scontro armato Armenia-Azerbaijan ha mostrato cosa succede quando si scongelano conflitti irrisolti. Con serie ripercussioni sui Balcani, in un pericoloso balletto tra Serbia, Kosovo e Bosnia
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter che dà voce alle storie dai Balcani occidentali alla vigilia dei 30 anni dall’inizio delle guerre nell’ex-Jugoslavia.
Facciamo una piccola deviazione, ti va?
Questa tappa la prendiamo alla larga. Partiamo dal Caucaso, cioè da qui:
Siamo nel Nagorno-Karabakh. Un’enclave territoriale armena in territorio azero. Nel pieno di un conflitto armato.
No, non sarà un viaggio faticoso o noioso. Ormai dovresti averlo capito.
In men che non si dica ci troveremo di nuovo sui Balcani. Tra armi, scheletri negli armadi e rapporti da non scongelare.
Ti basta come trailer?
Una tregua vecchia come me
Faccio l’autoreferenziale solo per mostrarti che il tempo è relativo. Possono sembrare tanti anni per alcuni, pochi per altri.
Aldilà del fatto che mi sono tirato in causa da solo, 26 anni di cessate il fuoco senza arrivare a una pace a me sembrano comunque un’infinità.
Esattamente quello che è successo nella regione del Nagorno-Karabakh (Artsakh in armeno) dal 16 maggio 1994.
Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1991 i separatisti armeni avevano preso il controllo della regione assegnata da Iosif Stalin all’Azerbaijan.
Nel gennaio del 1992 l’esercito azero cercò di riconquistare il territorio, scontrandosi con quello armeno in una guerra lunga due anni. Il bilancio: 30 mila morti.
Con il cessate il fuoco mediato da Stati Uniti e Russia, di fatto la regione è rimasta sotto il controllo degli indipendentisti, ma formalmente come enclave dell’Azerbaijan.
Niente pace. “Guerra congelata”, si dice in gergo diplomatico.
E quando si scongela, che succede?
Questo succede. Che d’improvviso la guerra è pronta in tavola.
Nel giorno in cui affrontiamo insieme questo viaggio (sabato 10 ottobre), sono passati esattamente 14 giorni dallo scoppio delle ostilità tra Armenia e Azerbaijan nella regione del Nagorno-Karabakh. Era la mattina del 27 settembre.
Perché - fatta eccezione per la “guerra dei 4 giorni” del 2016 - proprio dopo 26 anni?
No, il perché non lo so. Non lo sa nessuno.
E a dirti il vero nemmeno si sa chi abbia iniziato. Come ha detto l’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, “dobbiamo prendere ogni notizia cum grano salis. C’è molta disinformazione, non avendo accesso ai territori”.
Ora.
Lo so che hai poco tempo, che sei di fretta, che il profumo di caffè e di cornetto alla crema ti sta chiamando dalla cucina.
Però se vuoi fare una pausa e capirne di più sugli interessi in ballo in questo conflitto, ho cercato di approfondirlo apposta per te in un articolo per Eunews.it.
Ti basta solo cliccare su questa immagine:
Non so se ti abbia convinto.
In ogni caso, procediamo.
Queste sono le poche cose certe:
Il 27 settembre i separatisti armeni della Repubblica dell’Artsakh hanno proclamato la legge marziale e la mobilitazione generale.
Lo stesso hanno fatto subito dopo anche Azerbaijan e Armenia.
Circa 75 mila civili sono coinvolti dai bombardamenti azeri e risposte armene. Non si hanno ancora dati ufficiali su vittime e feriti.
L’Azerbaijan è sostenuto dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan: “Se Baku ce lo chiederà, interverremo”.
L’Armenia conta sull’appoggio della Russia di Vladimir Putin, che però deve muoversi con cautela, essendo nel gruppo di Minsk incaricato di mediare la pace.
L’Azerbaijan ha accusato l’Armenia di reclutare terroristi e mercenari dai Paesi del Medio Oriente.
L’Armenia ha accusato la Turchia di sostenere gli azeri con droni, missili aria-terra e caccia F-16: “Abbiamo registrato comunicazioni in turco”.
Primo punto: la fornitura di armamenti.
Senza accorgercene, pian piano stiamo già virando verso i Balcani.
EDIT: Dalle ore 12 di sabato 10 ottobre dovrebbe entrare in vigore un cessate il fuoco tra Armenia e Azerbaijan, raggiunto dopo una maratona diplomatica del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov.
Altro non posso dirti, è l’ultima notizia delle 2:40 di venerdì notte.
Intrighi a Belgrado
A un solo giorno dallo scoppio del conflitto, senza sapere come e perché la Serbia si è trovata in mezzo al fango diplomatico.
Come? Per questa foto:
Il 28 settembre il portale AzeriDefence ha pubblicato le prove dei resti di un missile a lungo raggio che le forze armene avrebbero sparato verso la città di Horadiz, sul confine con l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh.
La scritta KV 05/19 indica la provenienza del missile: Valjevo.
EDePro quella del motore: Belgrado.
“Good morning, Serbia” (semicit.)
Il problema è semplice: Serbia e Azerbaijan sono alleati. Ma allo stesso tempo la Serbia ha venduto armi al principale nemico del suo alleato.
Non esattamente quello che si fa tra amici.
Dal 2017 le autorità di Belgrado hanno rilasciato 19 autorizzazioni all’esportazione di armamenti verso l’Armenia. Lo scoppio del conflitto ha mostrato che sono state vendute anche nuove tecnologie.
Come se non bastasse, queste armi sono passate dall’azienda Vectura Trans, legata al trafficante Slobodan Tešić.
Anche qui c’è un problema.
Tešić dal 2017 è sotto sanzioni Usa e per diversi anni è stato sulla lista nera dell’Onu per aver violato l’embargo sull’export di armi verso la Liberia.
Il più grande trafficante d’armi dei Balcani, per dirla in breve.
E con le aziende di Tešić le autorità serbe continuano a fare affari. Un’altra prova che nel Paese il traffico di armi è ormai un problema endemico.
“Serbia e Azerbaijan hanno buoni rapporti economici e politici. Ma i recenti fatti dimostrano che la Serbia fa il doppio gioco”, hanno commentato gli azeri.
Giochi di specchi
So a cosa stai pensando. “Non vorrai dirmi che abbiamo parlato tutto questo tempo di una regione del Caucaso, solo perché la Serbia ha tradito un alleato?”
Magari non lo stavi nemmeno pensando. Te lo faccio notare io.
Comunque sì, finora questa è stata la nostra meta. Ma c’è molto di più…
Il Nagorno-Karabakh è uno specchio fedele di cosa possa succedere quando una “guerra congelata” si scongela dopo anni e anni. Anche nei Balcani.
Il 9 giugno 1999 finiva la guerra in Kosovo.
Ti faccio una semplice domanda.
È mai stata firmata la pace?
No.
Ora immagina che tutto quello che ci siamo detti sul Caucaso, così lontano da noi, stesse succedendo a qualche centinaio di chilometri da casa nostra.
Di nuovo. Dopo 21 anni.
Non è un caso se il presidente della Serbia, Aleksandar Vucić, sia subito intervenuto per dichiarare che “il Nagorno-Karabakh dimostra perché sia contrario a mantenere conflitti congelati nei Balcani, compreso il mio Paese”.
Per quanto sia delicato e complesso il dialogo con il Kosovo indipendente, il presidente serbo si sta rendendo conto che una soluzione di compromesso deve essere trovata nell’interesse di tutti.
Come abbiamo visto nella 13ª tappa - “E tu ci hai mai messo piede? - il dialogo tra le due parti sta seguendo due binari: uno statunitense e uno europeo. Che si pestano i piedi e si integrano a vicenda.
È vero che sono ancora molti i punti di scontro: dalle comunità serbe in Kosovo al mutuo riconoscimento.
Ma in qualche modo queste controversie andranno risolte in modo definitivo.
“Non dobbiamo lasciare conflitti congelati ai nostri figli”, ha ribadito Vucić.
Anche perché ripetere l’esperienza del Nagorno-Karabakh qui significherebbe destabilizzare tutta la regione, appesa a fragili equilibri etnici.
Soprattutto in Bosnia ed Erzegovina. Che infatti si è schierata:
Lui è l’ex-ministro degli Esteri ed è tra quelli che hanno denunciato “chi sta minacciando la pace regionale e globale”. Cioè l’Armenia.
È curioso, visto che proprio la Bosnia ed Erzegovina è stata al centro di uno dei conflitti più sanguinosi degli anni Novanta per il riconoscimento della propria indipendenza.
Ma se si guarda alla composizione etnica del Paese, molte cose si spiegano da sé:
Quella in azzurrino è la Federazione di Bosnia ed Erzegovina. È l’entità croato-musulmana, abitata in prevalenza da bosgnacchi (i bosniaci musulmani) e croati bosniaci. Occupa metà del territorio complessivo e ospita due terzi della popolazione.
Quella in blu è la Republika Srpska. È l’entità serba e ospita circa 1,3 milioni di abitanti: i non-serbi sono meno di 200 mila. Il calo drastico è arrivato con la guerra in Bosnia (1992-1995) e la pulizia etnica.
Ecco, se ti stavi chiedendo perché il governo centrale della Bosnia ed Erzegovina non abbia interesse a sostenere gli indipendentisti armeni, la risposta la puoi dedurre facilmente.
Gli equilibri nel Paese sono ancora tutti in costruzione e le prese di posizione devono essere moderate, a costo di creare malumori tra le etnie.
Rischiare che - anche in presenza di una pace (Dayton,1995) - si scongeli un conflitto nel Paese, è quanto di meno auspicabile per il futuro dei Balcani.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Allora, siamo d’accordo che questa è stata una tappa strana e anticonformista rispetto ai nostri standard.
Sarebbe un peccato non finire in bellezza con qualcos’altro di inaspettato, no?
Detto fatto! Oggi niente da bere sul bancone di BarBalcani.
Ma c’è una cosa di cui dobbiamo per forza parlare, perché prima o poi potresti ritrovartela tra una rakjia e l’altra.
È l’ajvar.
Il patrimonio di tutti i Balcani.
Siamo in compagnia dei Kolenović - paradigma della famiglia balcanica - che in Kosovo ci mostrano la preparazione della salsa di peperoni tradizionale, in un servizio fotografico per Courrier des Balkans.
Prima di tutto, si lavano i peperoni e si tagliano molto sottili.
Poi si mettono a cucinare in grandi pentole di rame. Per ore e ore.
Mentre si squagliano, bisogna continuare a setacciare la salsa, per togliere tutti i semi dei peperoni. “Non importa quanto controlliamo, ce ne saranno sempre alcuni che si nascondono”, spiega mamma Zymrije, che tutti chiamano Nuki.
A questo punto l’ajvar deve bollire, mentre si continua a mescolare. Shyqo, il padre di famiglia, porta la legna da ardere per tenere vivo il fuoco sotto la pentola.
Una volta che la salsa è densa al punto giusto, si può mangiare. “È divina spalmata calda sul pane”, confessano i figli Aida e Beni, prima di mettersi al lavoro.
Perché il resto - tanto, ma proprio tanto - si conserva nei vasetti di vetro. Da tenere in dispensa, da regalare ad amici e parenti, da portare al bar per le occasioni speciali della comunità.
Stai pronto. Non puoi mai sapere quando la tua strada potrebbe incrociare il caviale rosso dei Balcani!
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la diciassettesima tappa! Un abbraccio e buon cammino!
«E dico sì al dialogo,
perché la pace è l’unica vittoria.
L’unico gesto in ogni senso
che dà un peso al nostro vivere»- “Il mio nome è mai più”
Ligabue, Jovanotti, Piero Pelù -
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