S2E6. Il primo tra gli ultimi
La Corte Speciale per il Kosovo ha avviato il processo contro Salih Mustafa, ex-comandante dell'UÇK, per crimini contro l'umanità. Da ora si potrà completare il quadro delle guerre nell'ex-Jugoslavia
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter dai confini sfumati.
Se segui questa newsletter da qualche tempo, avrai notato che non abbiamo mai trattato la questione dei crimini di guerra nell’ex-Jugoslavia.
Siccome mi è stato fatto notare diverse volte e sta iniziando a diventare un elefante nella stanza, provo a spiegarti il perché.
Primo. È un tema che ancora non si riesce a trattare in prospettiva storica per chi scrive, e colpisce quasi solo l’emotività di chi legge. Fare un ragionamento bilanciato (e spesso anche una discussione civile) risulta quasi impossibile.
Secondo. Sono passati tra i 20 e i 30 anni da quegli eventi. Per quanto conoscere il passato oscuro sia cruciale, non si può incancrenire i Balcani in quel ricordo, come se dopo non fosse successo nient’altro. C’è già una nuova generazione che ha conosciuto solo la pace e le società presenti meritano di essere raccontate.
Terzo. Fare sbrigative valutazioni ex-post è sempre più comodo che analizzare ogni singolo episodio del passato. Cosa che spesso non inquadra con precisione la natura dei crimini, né permette di capire meglio la Storia attraverso elementi contestualizzati.
Ecco perché, in parallelo a questa newsletter, è nato BarBalcani - Podcast.
Ho scelto di realizzare un progetto più articolato. Una “macchina del tempo” delle guerre nell’ex-Jugoslavia che mese per mese racconta cosa è successo sui Balcani, proprio in quel mese di 30 anni fa.
Ragioni dei conflitti etnici e crimini di guerra compresi. Ma come se stesse succedendo proprio adesso.
L’articolo-podcast è curato nei dettagli. Esce ogni secondo mercoledì del mese e ha un costo esiguo, come omaggio per chi decide di sostenere tutto il progetto BarBalcani.
Se ci stavi pensando da tempo, o se ora ti incuriosisce, puoi iscriverti cliccando qui:
Fine del pippone.
Ora magari è meglio se ti spiego perché oggi ha invece senso parlare dei crimini di guerra nell’ex-Jugoslavia.
Nuovi precedenti
Mercoledì 15 settembre si è aperto il primo processo della Corte Speciale per il Kosovo, istituita presso il Tribunale internazionale dell’Aja (Paesi Bassi).
Sul banco degli imputati, Salih Mustafa, uno degli ex-leader dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK), ritenuto responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità, compiuti nell’aprile del 1999.
Omicidi, torture, trattamento crudele di prigionieri e detenzione arbitraria.
Le prime dichiarazioni di Mustafa davanti ai giudici sono state un attacco alla Corte: «Non sono colpevole delle accuse che ha sollevato a mio carico questa Gestapo».
Il procuratore Jack Smith in apertura ha dichiarato che «quella di oggi è una pietra miliare di questa istituzione e del nostro lavoro».
Nel suo intervento, Smith ha accusato i vertici della milizia indipendentista di aver «vittimizzato e brutalizzato i compagni di etnia albanese che avevano opinioni diverse da loro o che facevano parte della forza politica rivale».
Un secondo procuratore, Cezary Michalczuk, ha anticipato il tipo di testimonianze che si andranno ad ascoltare durante il processo: «Le urla dei torturati erano così forti che potevano essere sentite dai prigionieri del piano inferiore».
Mustafa è accusato di essere stato membro di una «operazione criminale congiunta di soldati dell’UÇK e poliziotti», che avevano l’obiettivo di «interrogare e maltrattare i prigionieri». Saranno in 15 a testimoniare contro di lui.
Mustafa sarebbe stato il mandante e in alcuni casi l’esecutore materiale di torture.
Il campo di detenzione si trovava sul monte Zlas, a pochi chilometri dalla capitale.
Secondo l’accusa, i prigionieri erano privati di cibo, acqua e servizi igienico-sanitari ed erano soggetti a «percosse, bruciature, elettroshock, minacce di morte, umiliazioni e confessioni forzate».
Il processo al “Comandante Cali” - il nome di battaglia di Mustafa - arriva a un anno dal suo arresto a Pristina e a più di sei anni dalla creazione delle Camere Speciali da parte dell’Assemblea del Kosovo, nell’agosto del 2015.
Il tribunale fa parte del sistema giudiziario kosovaro. È stato istituito sotto pressione dell’Occidente, per perseguire gli ex-membri dell’UÇK sui presunti crimini commessi durante la guerra in Kosovo tra il 1998 e il 2000.
Si trova però nei Paesi Bassi ed è composto da giudici internazionali, dal momento in cui si temeva che Pristina non fosse in grado di perseguire gli ex-ufficiali dell’UÇK, proteggere i testimoni dalle intimidazioni ed evitare l’inquinamento delle prove.
Alcuni esperti sostengono che questo processo stabilirà un precedente per tutti gli altri casi di ex-membri della milizia kosovara.
Il tribunale è di recente istituzione e le sue competenze non sono ancora state messe alla prova in un processo.
È stato solo nel giugno 2020 che le Camere Speciali e la Procura Speciale hanno depositato le accuse per crimini contro l’umanità e di guerra.
Ora si dovrà capire come si imposterà il processo e quali ostacoli si incontreranno. Procedimenti già avviati su cui basarsi non ne esistono e la difesa probabilmente cercherà di ritardare il più possibile i tempi.
Per avere successo nel processo per crimini di guerra, dovranno essere confutate tutte le prove del procuratore. La difesa cercherà di dimostrare che l’accusato non ha responsabilità dirette, scaricandole su individui già morti.
Ci si aspetta che il verdetto di primo grado sul caso Mustafa sia pronunciato entro la fine del 2022. Ma con il ricorso si potrà andare anche oltre il 2023.
Intanto però ci sarà un precedente e gli altri processi agli ex-leader dell’UÇK potranno basarsi su fondamenta appena poggiate.
I nomi degli imputati sono ben noti nei Balcani: Kadri Vaseli, Rexhep Selimi, Jakup Krasniqi. E, sopra tutti, Hashim Thaçi, l’ex-presidente del Kosovo.
Uno sguardo sull’UÇK
L’Ushtria Çlirimtare e Kosovës (UÇK), l’Esercito di Liberazione del Kosovo, è stata una milizia separatista di etnia albanese sorta in Kosovo alla fine degli anni Ottanta, come insieme di gruppi guidati da autoproclamati leader locali e legati da vincoli familiari.
Durante gli anni Novanta si organizzò per cercare la separazione dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, scontrandosi con la Serbia di Slobodan Milošević. Fu considerato un gruppo terroristico fino alla dissoluzione della Jugoslavia.
Tra gli obiettivi dell’UÇK c’era anche la creazione della Grande Albania, l’unione di tutti i popoli balcanici di etnia albanese in un’unica nazione.
A seguito dell’intensificarsi delle repressioni serbe in Kosovo, a metà del 1998 l’esercito kosovaro si ritrovò coinvolto in uno scontro frontale, in inferiorità numerica e di armamenti.
Con l’intervento della NATO in Kosovo, l’UÇK fu ufficialmente sciolto il 20 settembre 1999. Migliaia di suoi membri entrarono a far parte delle Forze di Sicurezza del Kosovo.
Alcuni gruppi di guerriglia affiliati all’UÇK hanno però continuato alcune lotte violente nella Serbia meridionale (tra il 1999 e il 2001) e nella Macedonia nord-occidentale (2001).
Con la dichiarazione di indipendenza unilaterale del Kosovo dalla Serbia nel 2008, gli ex-leader dell’UÇK sono entrati in politica e hanno raggiunto cariche di alto livello.
Tra loro, Kadri Vaseli, ex-presidente dell’Assemblea Nazionale, Rexhep Selimi, già deputato del partito nazionalista di sinistra Vetëvendosje, e Jakup Krasniqi, presidente ad interim tra il 2010 e il 2011.
Ma soprattuto Hashim Thaçi, eletto capo dello Stato nel 2016.
Il 5 novembre dello scorso anno Thaçi annunciò a sorpresa la dimissioni da presidente del Kosovo, dopo la conferma delle accuse di crimini di guerra a suo carico da parte della Corte Speciale (lo trovi approfondito in questo articolo per Eunews).
Thaçi - insieme a Veseli, Selimi, Krasniqi e Mustafa - è da quasi un anno in custodia cautelare presso l’Aja, in attesa dell’inizio del processo.
L’ex-presidente ha sempre respinto ogni accusa, sostenendo che quella contro la Serbia di Milošević fu «una guerra giusta per la libertà e l’indipendenza del Kosovo» e che «nessuno può riscrivere la storia del Kosovo».
Dovrà però rispondere di circa un centinaio di uccisioni, torture, rapimenti, persecuzioni ai danni di serbi, rom e oppositori politici kosovari di etnia albanese.
Il punto sui processi
La storia dei processi per i crimini di guerra nell’ex-Jugoslavia inizia il 25 maggio 1993, quando fu istituito il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia come organo giudiziario delle Nazioni Unite.
Si è trattato del primo tribunale internazionale per crimini di guerra istituito dai tempi del Processo di Norimberga.
Dopo oltre mille giorni di lavoro in Aula, 161 processi celebrati e più di 5 mila testimoni, il Tribunale con sede all’Aja è stato chiuso il 31 dicembre 2017.
Dei 154 processi conclusi, le sentenze di condanna definitiva sono state 83, quelle di assoluzione 19, in 37 casi le accuse sono state ritirate o gli imputati sono morti prima della sentenza, 13 sono stati deferiti alle Corti statali e 2 devono attendere un nuovo processo presso il Meccanismo residuale internazionale per i tribunali criminali.
Si tratta dell’organo appositamente istituito per concludere le attività del Tribunale penale dopo il suo scioglimento.
Il caso più recente è stato quello di Ratko Mladić, ex-generale serbo condannato in via definitiva all’ergastolo lo scorso 8 giugno per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità in Bosnia.
È soprannominato il “boia di Srebrenica” ed è responsabile dell’assedio di Sarajevo.
Prima di lui, una lunga serie di imputati tra le fila di tutte le parti in guerra: serbi, croati, serbo-croati, serbo-bosniaci, croato-bosniaci, bosgnacchi, albanesi kosovari, montenegrini, macedoni.
Tra i più celebri, vanno ricordati i seguenti.
Slobodan Milošević, presidente della Serbia dal 1991 al 1997 (poi fino al 2000 della Jugoslavia), consegnato al Tribunale penale internazionale nel 2001 e morto in carcere all’Aja prima della sentenza, a causa di un infarto la notte dell’11 marzo 2006.
Radovan Karadžić, ex-presidente della Republika Srpska, condannato in appello nel 2019 all’ergastolo per il genocidio di Srebrenica e per campagne di pulizia etnica in Bosnia.
Milan Babić, primo presidente dell’autoproclamata Repubblica Serba di Krajina, condannato a 13 anni di reclusione dopo aver deciso di collaborare. Fu trovato morto nella sua cella il 6 marzo 2006, dopo aver testimoniato contro Milan Martić.
Milan Martić, ultimo presidente della Repubblica Serba di Krajina, si consegnò al Tribunale il 5 maggio 2002 dopo sette anni di latitanza. Nel 2008 fu condannato in via definitiva a 35 anni di reclusione.
Željko Ražnatović, leader della formazione paramilitare “Tigri di Arkan”, fu incriminato per genocidio e pulizia etnica in Croazia e Bosnia. Non fu mai portato in giudizio perché assassinato il 15 gennaio 2000 nella hall di un hotel a Belgrado.
Biljana Plavšić, ex-presidente della Republika Srpska e unica donna processata dal Tribunale. È stata condannata nel 2003 a 11 anni di reclusione per crimini di guerra e contro l’umanità e rilasciata nel 2009 per buona condotta.
Slobodan Praljak, generale bosniaco-croato condannato nel 2017 a 20 anni di reclusione per crimini di guerra durante il conflitto contro i musulmani di Bosnia. Si ricorda per essersi suicidato bevendo una fiala di cianuro in Aula dopo la conferma della condanna in appello.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Per toglierci le scorie di vicende raccapriccianti, sul bancone di BarBalcani troviamo un vino che sa di riconciliazione. Un progetto della cantina bosniaca Vino-Daorson.
È un vino realizzato con uve autoctone della Bosnia ed Erzegovina, Žilavka e Blatina, e vuole far rivivere una tradizione vinicola locale con oltre duemila anni di tradizione.
Ma è la storia recente e il futuro che prospetta ad attirare l’attenzione.
Il fondatore della cantina è Alija Lizde, prigioniero nel 1993 in un campo della polizia croato-bosniaca con l’unica colpa di essere musulmano e testimone in alcuni processi sui crimini di guerra degli ex-leader croato-bosniaci.
Nonostante ciò, Lizde dirige oggi una piccola cooperativa nel sud della Bosnia ed Erzegovina, dove lavora con sei croati e un serbo per superare gli orrori della guerra che ha lacerato i Paesi dell’ex-Jugoslavia.
Lavorare nel vitigno è diventato una sorta di terapia, ma anche una dimostrazione di convivenza con chi per anni si trovava dall’altra parte della barricata.
È come se gli otto lavoratori avessero ricreato una piccola Jugoslavia nel sud della Bosnia, affrontando insieme un passato doloroso che li aveva visti nemici senza nemmeno sapere il perché.
Il progetto della cantina Vino-Daorson è stato avviato nel 2009 ed è finanziato dal ministero degli Esteri italiano e dall’organizzazione non governativa CEFA.
Nel 2010 sono state raccolte le prime uve dai vigneti di Mostar, che hanno permesso la produzione di circa 20 mila litri di vino, tra il Pinnes Žilavka bianco e il Pinnes Blatina rosso.
Nell’aprile del 2011 è stato presentato al Vinitaly a Verona, dove ha suscitato grande interesse per il suo messaggio politico e sociale.
In quell’occasione Lizde, intervistato da Reuters, ha spiegato:
«Tutti abbiamo sofferto per la guerra. Alcuni capiranno più velocemente che è possibile lavorare insieme. Altri, che magari hanno sofferto tanto, impiegheranno più tempo. Ma credo che il nostro sia un ottimo esempio di riconciliazione».
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la settima tappa.
Un abbraccio e buon cammino!
Io come sempre ti ringrazio per essere arrivato fino a questo punto del nostro viaggio.
Qui puoi trovare tutte le tappe passate. Se hai trovato interessante la tappa di oggi, ti suggerisco in particolare questa lettura:
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