S5E2. Bisogna tornare a parlare di litio in Serbia
Il progetto di sfruttamento di uno dei giacimenti più grandi al mondo è ripreso con la benedizione dell'Unione Europea. Ma a Belgrado si sono riaccese grandi proteste popolari sui pericoli ambientali
Caro lettore, cara lettrice,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter dai confini sfumati.
Ci sono storie che nel tempo non non si esauriscono, ma fanno come i fiumi carsici. A un certo momento scompaiono nel terreno prima di riemergere con forza, proprio quando sembrava tutto tranquillo.
È così la storia del più grande giacimento di litio d’Europa, iniziata vent’anni fa ma, dopo una serie di vicende che sembravano avere messo la parola ‘fine’ sul progetto di estrazione, in Serbia è riemersa con forza quest’estate.
Perché, nonostante le enormi preoccupazioni della popolazione serba per i rischi ambientali nella valle del fiume Jadar, le autorità di Belgrado hanno deciso di concedere nuovamente i permessi al gigante delle estrazioni minerarie Rio Tinto Group.
Questa volta di mezzo c’è anche l’Unione Europea e la sua politica industriale che tende a emissioni zero e alla cosiddetta “autonomia strategica”. La Serbia - Paese candidato all’adesione Ue - sta diventando improvvisamente una pedina più cruciale che mai.
Dove eravamo rimasti
Quella del litio in Serbia - e delle controverse vicende di Rio Tinto - è una storia che va avanti esattamente da 20 anni, come avevamo già visto nel corso della prima stagione di questa newsletter.
Nel 2004 alcuni geologi che lavoravano per il gigante anglo-australiano delle estrazioni minerarie scoprirono un nuovo minerale nella Serbia occidentale, nel distretto di Mačva, lungo il confine con la Bosnia ed Erzegovina.
Il nuovo minerale silicato, idrossido di sodio-litio-boro, della valle del fiume Jadar (tra le città di Loznica e Valjevo) è stato battezzato con il nome ‘jadarite’ e certificato dal Museo di Storia Naturale di Londra. Caso curioso, la formula chimica della jadarite è molto simile a quella immaginaria della kryptonite di Superman.
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Il giacimento presso Loznica è unico (finora) sulla Terra e, secondo studi dettagliati, qui si troverebbero 136 milioni di tonnellate di jadarite, con un’alta concentrazione di litio e boro. Si tratta del più grande deposito di litio d’Europa, che potrebbe coprire il 10% della domanda mondiale. In altre parole, un chilo su dieci in tutto il mondo potrebbe essere estratto in Serbia.
Il litio è un metallo la cui domanda è in continua crescita, e lo sarà ancora a lungo. Perché è la materia prima per la produzione di nuove tecnologie pulite, come le batterie dei veicoli elettrici, ma anche per tutte quelle digitali di uso quotidiano, come gli smartphone.
Il litio giocherà un ruolo essenziale per la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. Il deposito di Jadar è di alta qualità e di lunga durata, e la Serbia sta diventando una nuova frontiera in questo settore.
Ecco perché, dal 2004 a oggi, la multinazionale Rio Tinto Group ha aumento a dismisura gli sforzi per velocizzare il processo per l’attività di estrazione, con uno stanziamento complessivo di 2,55 miliardi di dollari per realizzare il progetto.
Nel 2017 il governo serbo presieduto da Ana Brnabić aveva firmato un memorandum d’intesa con Rio Tinto che dava il permesso alla multinazionale anglo-australiana di sviluppare il progetto di estrazione nella valle del fiume Jadar.
Alla fine del 2021 è però scoppiata un’ondata di proteste popolari a causa delle enormi preoccupazioni ambientali. Dall’inquinamento per l’estrazione e la lavorazione, agli scarichi di rifiuti industriali, fino al riempimento del terreno “svuotato” e il consumo di acqua: Rio Tinto prevede un consumo giornaliero di 8 mila metri cubi. Più di tutta l’acqua nelle vasche dell’acquario di Genova, ogni giorno.
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La questione è arrivata anche all’attenzione del Parlamento Europeo - in particolare per la reazione delle autorità di Belgrado - come riportato a dicembre 2021 da BarBalcani direttamente da Strasburgo.
In una risoluzione del Parlamento Europeo è stata espressa «profonda preoccupazione per i gravi problemi di corruzione e le violazioni dello Stato di diritto» nel settore ambientale, in particolare per la «generale mancanza di trasparenza e per le valutazioni di impatto ambientale e sociale dei progetti di infrastrutture», compresi quelli finanziati da società multinazionali «quale Rio Tinto».
Al centro dell’attenzione degli eurodeputati c’è stata anche la «crescente violenza» contro le manifestazioni ambientali pacifiche, in particolare per «l’uso della forza da parte della polizia nei confronti dei manifestanti».
Dopo settimane di proteste popolari la macchina di Rio Tinto si è fermata. A gennaio 2022 la stessa premier Brnabić annunciava che «è tutto finito» per l’estrazione della jadarite. Ma intanto la multinazionale ha continuato a investire, anche con il progetto sospeso.
Tra Rio Tinto, Vučić e Bruxelles
E infatti, se fosse finito tutto nel 2022, né Rio Tinto avrebbe continuato a investire né oggi noi saremmo qui a parlare di nuovo del giacimento di jadarite in Serbia. La storia ha preso una piega imprevista proprio all’inizio di quest’estate.
L’11 luglio la Corte Costituzionale serba ha dichiarato incostituzionale la decisione del 2022 di fermare il piano per l’estrazione mineraria nella valle del fiume Jadar, sancendo che il governo ha “superato i limiti” della sua giurisdizione e che ora deve prendere una nuova decisione sull’istituzione di un piano spaziale di area a scopo speciale.
È così che è scoppiata una nuova ondata di proteste popolari, che tra luglio e settembre ha portato per le strade di Belgrado decine di migliaia di manifestanti contrari al barattare la propria salute e quella dell’ambiente con gli interessi economici e lo sfruttamento indiscriminato della terra.
Per aggirare l’oscuramento dei media - i telegiornali non dedicano più di una manciata di secondi alla questione - i manifestanti sono ricorsi al blocco di strade, autostrade e stazioni ferroviarie per spiegare di persona ai concittadini le conseguenze ambientali dell’estrazione mineraria.
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La sollevazione popolare è tanto pericolosa per il potere quanto è forte l’interesse del padre/padrone del Paese, il presidente Aleksandar Vučić, nello sfruttamento di questa risorsa mineraria. Sia per aumentare il peso geopolitico della Serbia, sia per impedire ad attori stranieri di immischiarsi nelle questioni sensibili di politica interna.
La dimostrazione è il memorandum d’intesa sul partenariato strategico Ue-Serbia “sulle materie prime sostenibili, le catene del valore delle batterie e i veicoli elettrici” stretto il 19 luglio sotto gli auspici del presidente Vučić, del vicepresidente esecutivo della Commissione Europea responsabile per il Green Deal, Maroš Šefčovič, e il cancelliere tedesco, Olaf Scholz.
A margine del memorandum con Bruxelles - che prevede l’elaborazione congiunta «entro sei mesi» di una tabella di marcia con «azioni concrete» per la sua messa a terra - il governo serbo ha siglato anche una serie di accordi per la fornitura di litio con grandi case automobilistiche, tra cui Mercedes-Benz, Stellantis e Volkswagen.
Il presidente serbo confida di poter raggiungere una produzione annua di 58 mila tonnellate di litio, sufficienti per realizzare batterie elettriche che alimentino circa 1,1 milioni di veicoli elettrici, ovvero il 17% del mercato europeo complessivo.
Facendo leva sugli interessi economici e sulla strategia dell’Unione Europea di evitare la dipendenza dalla Cina sulle materie prime critiche, Vučić sta cercando di legare economicamente a sé i partner più critici sul rispetto dello Stato di diritto in Serbia, anche nell’ottica del percorso di adesione all’Ue.
In altre parole, approvvigionamento sicuro di litio in cambio di un occhio chiuso sugli standard democratici.
Ma non bisogna pensare che Vučić stia trattando l’Unione Europea in modo diverso dagli altri partner internazionali.
L’approccio del presidente serbo alla politica estera si declina nello stringere accordi con chiunque porti investimenti nel Paese, a patto che non si intromettano negli affari interni.
Per esempio in Serbia nel settore energetico ci sono interessi russi - in particolare per il commercio di petrolio e gas - e soprattutto cinesi, come le miniere di rame a Bor acquisite dalla multinazionale Zijin Mining.
Ma il Paese balcanico ha anche avviato dal 2014 i negoziati di adesione con l’Unione Europea, per il cui ingresso è necessario il rispetto di tutta una serie di rigidi criteri. Allo stesso tempo quello dei 27 Paesi membri è uno dei mercati di veicoli elettrici in più rapida crescita al mondo, e che per questo motivo ha estremo bisogno di materie prime critiche.
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Se da una parte questa strategia mette a nudo la vulnerabilità dell’Unione Europea (in primis la Commissione Ue) di fronte ai partner in grado di “ricattarla”, dall’altra espone Vučić a proteste popolari di massa che potrebbero mettere in crisi il potere esercitato indirettamente su tutte le istituzioni nazionali.
«Fa parte di un approccio ibrido che consiste nel condurre rivoluzioni colorate», è l’accusa mossa dal presidente contro i manifestanti, con riferimento a un immaginario colpo di Stato ordito dall’Occidente. Anche se non si capisce per quale ragione proprio i partner occidentali che hanno accolto con entusiasmo il progetto di Rio Tinto dovrebbero soffiare sul fuoco di una rivolta ambientalista contro Vučić e il suo sistema di potere.
Inoltre, le informazioni ricevute da Belgrado arriverebbero dallo storico alleato russo, che il presidente Vučić tiene stretto nella logica di non-allineamento per non dipendere dai partner europei. E la terminologia è la stessa utilizzata proprio da Mosca per screditare i movimenti di piazza pro-Ue, dall’Ucraina alla Georgia.
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È l’ennesimo colpo di teatro del padre/padrone della Serbia per il consolidamento del potere attraverso l’erosione degli standard democratici.
Ora c’è una leva geopolitica unica e imperdibile, che può mettere il punto definitivo alle speranze di un cambiamento positivo per lo Stato di diritto nel Paese.
Il freno non può più arrivare dall’Unione Europea - imbrigliata in una politica industriale che la costringe a scendere a pesanti compromessi - ma solo dalla resistenza della popolazione inquieta per il futuro dell’ambiente in cui vivrà.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Al bancone di BarBalcani oggi scopriamo di nuovo l’enorme valore naturalistico e ambientale della regione dove Rio Tinto, il presidente Vučić e la Commissione Europea vogliono veder nascere il progetto di sfruttamento minerario.
E così scopriamo che la Serbia occidentale è un distretto vitivinicolo secolare, come riportano diverse testimonianze storiche.
Tra queste anche quella dell’allora console francese in Siria, Louis Gedoyn che, in uno dei suoi viaggi tra Parigi e Aleppo, attraversò i Balcani Occidentali. Nel suo diario, il 23 gennaio 1624 appuntò:
“In quel viaggio [da Belgrado ad Aleppo, ndr] non ho trovato nulla di degno di nota se non la città di Valjevo. Una città molto popolata, vasta, piacevole e con un gran numero di giardini. Qui sono stato servito con ottimi vini, i più buoni che io abbia mai assaggiato altrove”.
In memoria di questa storica testimonianza la cantina Milijan Jelić ha dedicato a Gedoyn una delle etichette più conosciute della tenuta vinicola a Valjevo.
Un vino bianco di carattere, ottenuto dalle uve del vitigno Riesling Renano.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per la terza tappa di questa stagione.
Un abbraccio e buon cammino!
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