S2E21. Lavoro calpestato
La decisione della società calzaturiera Geox di chiudere lo stabilimento di Vranje (Serbia) ha svelato la politica generale di sfruttamento della manodopera e dei vantaggi fiscali nei Paesi extra-UE
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter dai confini sfumati.
Dopo la tappa riepilogativa del primo anno di guerre nell’ex-Jugoslavia insieme a BarBalcani - Podcast, è tempo di riprendere il cammino con grinta.
Lo facciamo schierandoci dalla parte dei diritti dei lavoratori, in particolare di quelli che sono stati calpestati da un’azienda italiana in Serbia.
L’apertura della fabbrica Geox a Vranje doveva essere il simbolo della rinascita economica del Paese.
Si è dimostrato tutto il contrario, fino all’epilogo più umiliante.
Silenzio sullo scandalo Geox
È stato a inizio agosto che la società calzaturiera italiana Geox ha comunicato ai suoi dipendenti che avrebbe chiuso lo stabilimento di Vranje, nella Serbia meridionale.
Nonostante un primo semestre 2021 con ricavi pari a 264 milioni di euro, nel suo comunicato Geox ha spiegato che «il mantenimento delle attività produttive in Serbia è insostenibile».
I fattori scatenanti sarebbero stati due: l’impatto della pandemia COVID-19 e il «deciso spostamento dei consumi verso scarpe casual e a prezzi più contenuti». In altre parole, l’evoluzione strutturale della domanda.
A causa della mancanza di redditività dello stabilimento, 1250 lavoratori e lavoratrici si sono ritrovati senza lavoro.
Il 1° settembre l’azienda è stata liquidata. Ma ogni obbligo della società era già decaduto, compresa l’indennità di licenziamento.
L’unica speranza per queste 1250 persone è un minimo risarcimento dal Servizio Nazionale per l’Impiego.
C’è da dire che cinque anni fa il clima era proprio agli antipodi.
Lo stabilimento era stato inaugurato nel 2016 in pompa magna, alla presenza del presidente del Gruppo Geox, Mario Moreti Polegato, e dell’allora primo ministro serbo (oggi presidente), Aleksandar Vučić.
Si parlava di un nuovo inizio per la ripresa economica nel Sud povero del Paese, di investimenti in tecnologie emergenti per l’aumento della produzione e di un futuro sereno per i lavoratori e le loro famiglie.
Ma bisogna grattare via la patina di annunci altisonanti e tornare indietro di altri quattro anni per scoprire il marcio su cui si basava Geox in Serbia.
Secondo un accordo firmato nel 2012 con il governo di Belgrado, l’azienda con sede a Montebelluna (Treviso) si è impegnata ad assumere 1250 dipendenti. In cambio ha ricevuto 9 mila euro all’anno per ogni posto di lavoro creato.
Vogliamo quantificarli?
Sono 11,25 milioni di euro all’anno, 56 milioni e 250 mila euro in totale.
I sussidi hanno coperto quasi la metà del costo del lavoro ed equivalevano a circa il doppio dei soldi da versare in tasse. Erano queste le condizioni dettate da Geox per aprire una fabbrica in Serbia.
Ma a fronte di questi vantaggi fiscali, quello che ha colpito di più è stata la politica di sfruttamento della manodopera nel Paese e le condizioni di lavoro che sono state imposte nello stabilimento.
Dopo cinque anni di abusi delle leggi sul lavoro - sempre negate dall’azienda italiana - Geox se n’è andata dalla Serbia per questioni di mancato profitto sul medio periodo.
Quello che si lascia dietro è una storia tutt’altro che esemplare.
Delocalizzazione e iper-sfruttamento
Gia a pochi mesi dall’apertura dell’azienda, nel 2016 una lavoratrice era stata licenziata dopo aver denunciato una serie di maltrattamenti psicologici ed episodi di mobbing.
Tra le accuse formulate dalla capoturno Gordana Krstic, anche il fatto che ai lavoratori era consentito andare in bagno solo due volte al giorno.
Anche se per Geox il caso è riconducibile «al malcontento di un’unica lavoratrice» e che nella fabbrica «non si sono mai registrati conflitti sindacali», lo sfruttamento della manodopera è stata una realtà per la maggioranza dei dipendenti.
Oltre alle forti restrizioni sulle pause negli orari di lavoro (la direzione avrebbe addirittura consigliato ai dipendenti di indossare pannolini per adulti), un’altra imposizione era quella di non poter aprire le finestre in presenza di alte temperature.
Tra il 2016 e il 2017 i quotidiani locali hanno riportato di diversi ricorsi anonimi al ministero del Lavoro da parte dei lavoratori dello stabilimento di Vranje e di mobilitazioni con il supporto di sindacati internazionali.
Fino alla chiusura dello stabilimento (ma anche dopo), Geox è diventata un esempio di sfruttamento lavorativo delle società straniere in Serbia.
Geox è stata fondata nel 1992. A oggi, la produzione calzaturiera e non è stata quasi interamente esternalizzata.
Prima dell’apertura dello stabilimento di Vranje, tutta la produzione era portata avanti da subappaltatori: l’85% in Asia (Cambogia, Cina, Indonesia, Myanmar, Thailandia e Vietnam) e il 15% nell’Europa orientale.
Proprio la fabbrica di Vranje doveva rappresentare un punto di svolta: un’unità produttiva di proprietà diretta.
Ma la decisione non aveva nulla di altruistico. Anzi, era dettata solo dalla manodopera a basso costo e dai sussidi pubblici offerti dal governo serbo.
A Geox servivano condizioni favorevoli per neutralizzare i rischi di produzione, che nella delocalizzazione sono affrontati quasi solo dai subappaltatori. Ecco perché i sussidi sono diventati un fattore decisivo.
Tutto questo non giustifica però le successive violazioni dei diritti del lavoro.
O forse sì.
Numerose ricerche dimostrano che gli abusi lavorativi sono più frequenti all’interno di un modello economico basato sulla crescita del profitto attraverso la delocalizzazione e lo sfruttamento della manodopera a basso costo.
Senza dover arrivare ai casi criminali messi in atto da aziende cinesi come la Linglong Tire, basta considerare l’atteggiamento delle società occidentali in Serbia e nei Balcani Occidentali.
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Già nel 2016 il rapporto di Abiti Puliti, “Il lavoro sul filo di una stringa”, denunciava nell’Europa orientale salari minimi inferiori anche a quelli della Cina, lavoro pagato a cottimo, mancato rispetto degli standard di sicurezza e della dignità dei dipendenti.
Un anno più tardi il rapporto “L’Europa dello sfruttamento” ribadiva che «la provenienza europea viene considerata sinonimo di equità e responsabilità sociale. Purtroppo, questo è un mito».
C’è un enorme problema di differenza tra i salari reali e il costo della vita. «Drammatico», a quanto si legge. E poi l’impatto negativo della «fallimentare» attuazione della legislazione del lavoro sulla vita dei lavoratori.
Non è un caso se un terzo fondamentale rapporto di Abiti Puliti, “Il vero costo delle nostre scarpe”, ha concluso che «l’industria delle calzature sia ancora lontana dal rispettare i diritti umani e sindacali degli operai che confezionano le loro scarpe».
Tra le aziende italiane considerate compare anche Geox. Con riferimenti specifici alla situazione dentro e fuori lo stabilimento serbo:
«In generale i lavoratori hanno riferito un clima di terrore dentro la fabbrica: nessuno osa reagire per paura di perdere il posto di lavoro. La minaccia di andarsene è un’arma potente a disposizione di Geox e la paura aleggia non solo nella fabbrica, ma nell’intera città di Vranje, considerata l’elevata percentuale di disoccupazione esistente».
Come sappiamo, alla fine comunque Geox non è rimasta in Serbia.
Il futuro dei lavoratori serbi
Ma cos’è successo alle lavoratrici e ai lavoratori licenziati dell’ex-stabilimento Geox di Vranje?
Un centinaio di dipendenti sono stati assunti dall’azienda turca Teklas Automotiv, mentre agli altri è stata pagata una tantum di poco meno di 500 euro dal governo.
La promessa di Belgrado è di trovare un nuovo investitore il più presto possibile. Anche se ormai in Serbia (e nei Balcani in generale) dovrebbe essere chiaro che il basso costo del lavoro non è un’attrattiva sufficiente.
Non a caso le agenzie governative offrono alle società straniere un risparmio dell’80% sulla manodopera rispetto alla media UE, ma soprattutto infrastrutture gratuite e diversi anni di esenzione dall’imposta sugli utili e dall’imposta sul reddito.
L’asservimento degli Stati meno sviluppati al capitale straniero è un riflesso dei rapporti di potere: la struttura della produzione globale è determinata dalle multinazionali e i governi nazionali possono solo cercare di integrarsi attraverso ingenti sussidi.
Sembrano quasi paradossali le parole della prima ministra, Ana Brnabić, che ha attribuito l’addio di Geox al fatto che «la Serbia non è più un Paese di manodopera a basso costo».
Il modello di attrazione degli investitori stranieri non è cambiato. Mentre i profitti delle multinazionali aumentano grazie ai sussidi statali e all’iper-sfruttamento della manodopera e delle risorse naturali, la disuguaglianza è destinata a crescere.
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Una speranza risiede nelle istituzioni dell’Unione Europea, che vogliono obbligare le società che vendono beni nel Mercato Unico a fornire analisi dettagliate sul livello di protezione dell’ambiente e dei diritti umani nelle loro catene di approvvigionamento.
In questo modo non si imporrebbe solo la responsabilizzazione delle multinazionali sugli abusi lavorativi e umani, ma si aprirebbero anche nuove possibilità per la formazione di sindacati transnazionali all’interno delle stesse società.
Se tutto ciò fosse già in atto, la storia delle lavoratrici e dei lavoratori dell’ex-stabilimento Geox a Vranje probabilmente avrebbe avuto un altro finale.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Per rimanere solidali con i lavoratori e le lavoratrici di Vranje, oggi sul bancone di BarBalcani troviamo bottiglie di vino provenienti proprio da questa città.
La regione vinicola di Vranje si estende nella valle omonima, lungo il corso meridionale del fiume Morava.
Sono quasi 500 gli ettari di terreno coltivati a vigneto sui pendii della valle. Le varietà di maggior qualità prodotte a Vranje sono Cabernet Sauvignon, Vranac, Sauvignon Blanc e Pinot Noir.
Tra le aziende vitivinicole presenti nella regione, la più importante e antica è Vinarija Aleksic.
Dopo 30 anni di attività, la cantina ha esordito sui mercati internazionali nel 2012. Da allora le etichette commercializzate sono 14, grazie al lavoro di 20 dipendenti. Ogni anno vengono prodotti 350 mila litri di vino.
Oggi l’azienda è guidata da tre sorelle - Dragana, Maja e Marija - che portano avanti la decennale tradizione di famiglia e che, per conquistare la scena globale, partono proprio da qui, dalla terra dei diritti calpestati.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la ventiduesima tappa!
Un abbraccio e buon cammino!
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