S4E4. Jugoeuropa
A Bruxelles, nel cuore dell'UE, la Casa della Storia Europea mette in mostra i processi d'integrazione sul continente. Con iniziative che fanno risaltare il ruolo di Stati scomparsi come la Jugoslavia
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Balcani. Europa. Jugoslavia. Unione Europea. Balcani Occidentali
Si potrebbero scrivere mille newsletter sui legami, gli intrecci, le incomprensioni, i dissapori e le spinte alla convergenza tra una delle regioni più complesse d’Europa e il resto del continente.
Perché già solo nel nome - ‘Balcani’ - c’è tutto un mondo da scoprire, che può rivelare molto sul nostro modo di concepire e descrivere questa penisola.
Ma quando si arriva ad analizzare i rapporti tra la regione balcanica e i Paesi dell’Europa occidentale sul piano storico, risulta molto più evidente come si possa influenzare il presente mettendo in risalto o passando sotto silenzio il passato comune.
Non si tratta solo di storiografia per pochi esperti, ma di una questione che riguarda chiunque si ponga la domanda: da dove arrivano i miei pregiudizi?
E per farlo con più coscienza, basta entrare in un museo in particolare. A Bruxelles, nel cuore di quell’Unione Europea che sta cercando a fatica di integrare i sei Paesi dei Balcani Occidentali nel suo progetto di pace, stabilità e democrazia.
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Una Casa per gli europei
La Casa della Storia Europea nasce nel 2007 come idea dell’ex-presidente tedesco del Parlamento Europeo Hans-Gert Pöttering e vede la luce il 6 maggio 2017 con l’inaugurazione di uno spazio espositivo di circa quattromila metri quadrati.
L’ingresso è gratuito e negli anni è diventato uno dei punti di riferimento a Bruxelles per i turisti di tutta Europa che vogliono approfondire la storia delle integrazioni sul continente attraverso un’esposizione permanente di oggetti e documenti, mostre temporanee ed eventi culturali. Il tutto in una chiave più tecnologica possibile.
Forniti di tablet e audioguide, si percorrono cinque piani di esposizione privi di grandi pannelli descrittivi. Sono gli intrecci della storia europea a tracciare il filo del discorso - da seguire appunto attraverso lo strumento nelle proprie mani - passando da un momento storico all’altro e scoprendo come gli eventi in un Paese hanno avuto un impatto sul resto del continente.
È così che, nonostante si percepisca un lieve sbilanciamento verso la storia dei Paesi occidentali, è possibile avere una panoramica quasi a 360° sull’intersezione e gli scambi che hanno reso nel tempo l’Europa la realtà che conosciamo.
«La Casa della Storia Europea si propone di raccontare una storia transnazionale del continente europeo, cercando di rispondere a domande rilevanti per l’Europa di oggi», spiega a BarBalcani la curatrice Simina Bădică, sottolineando che «anche se esponiamo principalmente il XX secolo, la nostra mostra è molto densa».
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E tra le domande più rilevanti per la contemporaneità europea ce n’è una che ritorna costantemente dall’inizio alla fine dell’esposizione permanente: qual è il rapporto tra Europa e Unione Europea?
«Credo che la confusione tra Europa e Unione Europea sia uno dei concetti errati che la Casa della Storia Europea sfida con abilità e coerenza», rivendica la curatrice. Anche se nel linguaggio quotidiano le due parole sono usate - erroneamente - come sinonimi, «i due concetti sono chiaramente separati nei testi delle nostre mostre».
Per essere ancora più precisi, la differenza tra il termine ‘Europa’ e ‘Unione Europea’ riguarda anche il rapporto - di inclusione o allontanamento - nei confronti di chi nel progetto dei Ventisette non c’è (ancora). Come i Paesi oggi definiti ‘Balcani Occidentali’: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia.
«Credo che la Casa della Storia Europea abbia raggiunto un buon equilibrio, in cui l’Europa orientale e i Paesi balcanici sono molto presenti», anche considerato il background di chi ha dato forma al museo: «La nostra prima responsabile accademica del progetto è stata una curatrice slovena, Taja Vovk van Gaal», ricorda Bădică.
Ma c’è di più: «L’equilibrio che ci proponiamo di mantenere non è solo tra Est e Ovest, di per sé una divisione storica», ma anche «tra Nord e Sud, equilibrio di genere, storie personali contro narrazioni statali e così via».
È così che anche l’esposizione permanente si può leggere con mille lenti diverse. Compresa una che mette al centro il contributo balcanico alla costruzione dell’Europa.
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Tour balcanico
Il nostro tour - che può essere seguito anche in forma virtuale - inizia con un libro su Bruegel, uno dei pochi non diventati “farfalle nere”, pezzi di pagine in cenere riversatisi su Sarajevo dopo il bombardamento nel 1992 dalla Biblioteca Nazionale.
Dopo una riflessione sul significato del patrimonio culturale e sulla divisione dei popoli balcanici in diversi Imperi - austro-ungarico e ottomano - tra il XIX e XX secolo, si entra in una sala nera, con una teca al centro. Dentro c’è una pistola, lo stesso modello usato da Gavrilo Princip nel 1915 per uccidere l’arciduca Francesco Ferdinando, scatenando la serie di eventi che portarono alla Prima Guerra Mondiale.
È con la nascita dei regni post-bellici che compare per la prima volta sulle mappe della mostra il termine ‘Jugoslavia’, che significa “terra degli slavi del sud”. Un periodo di difficile creazione di un’identità comune e di duri scontri, come narra il pamphlet Dittatura in Jugoslavia.
Con la Seconda Guerra Mondiale la regione viene occupata dalla Germania nazista e si innestano diverse politiche in base ai movimenti presenti. Per esempio viene creato lo Stato indipendente di Croazia, uno Stato fantoccio che comprendeva anche l’attuale Bosnia ed Erzegovina.
A guidarlo è il movimento ustascia, un tipico movimento fascista con nemici da perseguitare: ebrei e serbi. Lo si comprende dalle foto di cittadini di etnia serba espulsi dalla Bosnia, da quelle del campo di concentramento di Jasenovac dove morirono oltre 100 mila persone e da un poster che cattura l’attenzione.
È scritto in tedesco e in croato - Lontano dalle lotte fratricide - e raffigura un uomo in mezzo a due scene della propaganda ustascia: da una parte un diavolo dai tratti ebraici e con la stella rossa sul petto che offre un pugnale e denaro, dall’altra l’angelo nazista che ammazza il drago (simbolo della cospirazione bolscevico-giudaica).
Come nel resto d’Europa anche in Jugoslavia inizia la lotta liberazione partigiana dagli occupanti, ma nella regione (come in Serbia e in Bosnia) si interseca con la lotta contro l’amministrazione ustascia. E il quadro è reso ancora più complesso dalla presenza dei cetnici, nazionalisti serbi fedeli a re Pietro II di Jugoslavia in esilio, che si alleano e combattono contro tutti in base alle necessità contingenti.
Ma grazie all’azione dei partigiani guidati da Josip ‘Tito’ Broz (di cui si può osservare in una teca una divisa invernale di guerra), la Jugoslavia è l’unico Paese a liberarsi da solo dall’occupazione nazista e dal regime collaborazionista.
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Tuttavia nella fase post-bellica passano sotto silenzio tutti gli orrori etnici del recente passato, mentre la retorica della liberazione si riversa solo contro nazisti e fascisti. In nome di un’unità - mai esistita, ma necessaria - per la costruzione della nuova Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.
Con l’automobile Zastava 750 SP Luxe (prodotta dalla Zavodi Crvena Zastava su licenza della Fiat) si entra nel mondo degli anni Sessanta e Settanta in Jugoslavia, circondati dal boom economico di tutta Europa. Quella esposta al centro di una grande stanza è la rappresentazione fisica della voglia di dimenticare il passato di guerra e migliorare le proprie condizioni di vita.
Ma è anche una metafora della Jugoslavia: un qualcosa di non perfetto, che spesso non funziona, ma che si può aggiustare in qualche modo grazie ai rapporti umani. È un’epoca in cui i matrimoni interetnici sono molto comuni e in cui la Zastava 750 permette alle famiglie di spostarsi per andare in vacanza.
Tutto cambia con la caduta della Federazione socialista. Come evidenziato dalle mappe, cambiano i confini dei nuovi Stati indipendenti sotto la spinta dei gruppi etnici. Non si può più essere ‘jugoslavi’, è necessario identificarsi e appartenere a un’etnia specifica, nemica delle altre.
Serbi, croati, bosgnacchi, albanesi, macedoni, sloveni, montenegrini. Anche se è sempre stata soffocata una memoria istituzionale sulla Seconda Guerra Mondiale, a livello familiare non sono mai stati dimenticati i massacri del passato. E ora diventano motivo di propaganda e di odio etnico.
E tra le guerre che hanno devastato la Jugoslavia negli anni Novanta, il focus non può che essere su Sarajevo e sull’assedio più lungo della storia moderna europea (dal 1992 al 1996).
Video delle tappe fondamentali dell’assedio, oggetti come un fucile artigianale e materiale delle Nazioni Unite riutilizzato dalla popolazione civile per i bisogni di tutti i giorni (come una tanica di benzina trasformata in annaffiatoio) danno una dimensione reale delle sofferenze di un popolo europeo in guerra solo 30 anni fa.
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Percorsi paralleli
Quello appena percorso insieme con la mente è un vero itinerario creato dalla Casa della Storia Europea.
Ogni martedì a pranzo viene organizzato un ‘lunch tour’ su un argomento specifico, inserito in un macro-tema mensile curato dal team di apprendimento del museo. Il tema di settembre era ‘Paesi che hanno cessato di esistere’ e il terzo tour era dedicato alla Jugoslavia.
«È un tema che risuona in molte parti della nostra mostra permanente», sottolinea Bădică, guida per l’itinerario jugoslavo. «C'è stata una certa richiesta di un tour tematico sull’Unione Sovietica e sulla Jugoslavia, così abbiamo deciso di raggrupparli sotto la stessa voce», insieme con l’Impero austro-ungarico e quello ottomano.
Del tour focalizzato sulla storia dei Paesi balcanici (tranne l’Albania) nel Novecento spiccano in particolare le riflessioni sul fatto che ‘Jugoslavia’ - pre e post Federazione di Tito - possa essere un termine divisivo.
O ancora la presentazione di concetti specifici come ‘jugonostalgia’ e di una lingua comune come il serbo-croato. Ma anche il fatto che diversi visitatori provenienti dai Paesi ex-jugoslavi abbiano avuto un’occasione di dialogo e confronto su esperienze comuni del passato.
«Spero che i Paesi dei Balcani Occidentali si sentano rappresentati nella nostra mostra, anche se non ci concentriamo sulle storie nazionali», come dice la prima frase che si sente all’inizio della visita:
“Mentre vi accompagniamo attraverso la mostra principale, noterete che non vi raccontiamo la storia di ogni nazione europea. Vogliamo invece esplorare il modo in cui la storia ha plasmato il senso della memoria europea e continua a influenzare le nostre vite oggi e in futuro”.
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In fondo tutto è riassunto nello scopo principale della Casa della Storia Europea. «Non evidenziare le differenze regionali, ma al contrario concentrarsi sui fenomeni transnazionali che hanno interessato l’intero continente, con un impatto o forme diverse nelle varie parti d’Europa», puntualizza ancora Bădică.
«Personalmente ritengo che l’esotizzazione dei Balcani sia un fenomeno storico dal quale spero stiamo per uscire». È compito del museo «comprendere le diverse storie che hanno plasmato le varie regioni, ma non per far risaltarne una - per esempio quella balcanica - come diversa».
Anche gli stessi visitatori sono chiamati a un ruolo attivo. «Li incoraggio a cercare storie simili dei Paesi a loro vicini o più lontani, invece di cercare quello che già conoscono», è l’esortazione della curatrice della Casa della Storia Europea.
Perché se a scuola ci hanno insegnato che la storia nazionale è unica e incomparabile, «in realtà spesso è sorprendentemente simile a quella di altri Paesi».
Da qui si può iniziare a costruire una nuova narrazione di un passato e di un presente comuni. Libera da pregiudizi.
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Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
In una tappa all’insegna della scoperta dell’impatto del passato sul presente comune, il bancone di BarBalcani offre una bevanda analcolica che ha fatto la storia della Jugoslavia e che ancora oggi viene imbottigliata in uno Stato membro UE.
È la bibita gassata all’arancia Pipi prodotta da Dalmacijavino dall’inizio degli anni Settanta. Più precisamente dal 1971, quando apparve per la prima volta sugli scaffali dei supermercati della Repubblica Socialista di Croazia e nel resto della Federazione.
Pipi prende il nome - e l’immagine - dalla celebre Pippi Calzelunghe del romanzo per bambini della svedese Astrid Lindgren. Anche se stilizzata e perfezionata nel tempo, la bambina bionda con le lentiggini è il marchio della bevanda più famosa di Croazia.
Pipi conquistò anche il cuore del nuotatore Veljko Rogošić - attuale detentore del record mondiale per la distanza più lunga mai nuotata in mare aperto senza pinne - che partecipò ai primi spot televisivi e a curiose operazioni di marketing.
Come il grande gioco a premi di Dalmacijavino del 1975, quando Rogošić gettò in mare centinaia di bottiglie di Pipi che contenevano buoni premio per chiunque fosse fortunato abbastanza per vederne una arrivare a riva.
Nel 1979 Spalato ospitò i Giochi del Mediterraneo e Pipi venne scelta come bevanda ufficiale. Risale a quell’anno il record di produzione di Pipi: 12 milioni di bottiglie.
Nel corso degli anni sono stati affiancati diversi prodotti con questa etichetta - limonata, cola, arancia rossa, tonica - ma è la bibita gassata all’arancia a essere entrata nell’immaginario collettivo di tutti i Balcani quando si ordina una Pipi.
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Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per la quinta tappa di questa stagione.
Un abbraccio e buon cammino!
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