S3E9. La leggenda degli Spomenik fraterni
Sono molto più che monumenti e sono diffusi in tutti i Paesi dell'ex-Jugoslavia. Raccontano della visione utopistica della Federazione di Tito e oggi Donald Niebyl ne ha fatto un progetto di mappatura
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter (e sito) dai confini sfumati.
Ci sono parole che sono molto più di semplici parole.
Alcune racchiudono universi interi, concetti così articolati che tradurli in un’altra lingua sembra quasi limitarne la portata.
Tra le lingue slave dei Balcani Occidentali ci sono diverse di queste parole.
Certo, un termine o una perifrasi per descriverle si trova sempre. Ma non avrebbe forse più senso spendere le stesse energie per scavarne dentro il significato e scoprire storie mai immaginate?
Oggi, in compagnia di un ospite che ha fatto di una parola quasi intraducibile un progetto socio-culturale dirompente, ne incontriamo una molto particolare.
Partiamo allora alla scoperta degli spomenik dell’ex-Jugoslavia insieme a Donald Niebyl, fondatore e curatore di Spomenik Database.
Molto più di un monumento
Spomenik è la parola serbo-croata/slovena che si può tradurre con monumento.
Ma con la parola spomenik ormai ci si riferisce piuttosto a una serie di monumenti commemorativi costruiti dagli anni Cinquanta agli anni Novanta nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, per onorare la lotta di resistenza contro l’occupazione nazi-fascista durante la Seconda Guerra Mondiale.
Non solo commemorano le vittime dei crimini commessi durante l’occupazione, ma celebrano anche la rivoluzione socialista guidata dall’Esercito Partigiano del Maresciallo Tito durante la Lotta di Liberazione (1941-1945).
Si stima che nel 1961 erano già stati costruiti oltre 14 mila monumenti in tutta la Jugoslavia. E 30 anni dopo, alla vigilia delle guerre jugoslave, è probabile che il loro numero totale arrivasse a 40 mila.
Nei primi anni della Jugoslavia di Tito era avvertita l’urgenza di commemorare - a livello paesaggistico e di massa - gli eventi della lotta di liberazione, e ancor più di dare forma alla nuova Repubblica fondata sui principi del socialismo, della “fratellanza e dell’unità”. Il ‘progetto Spomenik’ faceva parte di questo grande piano ed era uno strumento politico destinato ad articolare la visione del futuro.
Durante il primo decennio del dopoguerra, gli spomenik furono realizzati nello stile figurativo del socialismo-realismo, preso in prestito dall'Unione Sovietica (URSS). Tuttavia, con l’opposizione di Tito al progetto di Stalin di fare della Jugoslavia uno Stato satellite, si indebolirono anche i legami con il socialismo-realista per la creazione di monumenti di guerra jugoslavi.
Come conseguenza, in tutta la Federazione cominciarono a spuntare opere scultoree antifasciste in stili plastici - come l’espressionismo astratto, l’astrazione geometrica, il minimalismo e il brutalismo - ispirati ai movimenti artistici occidentali.
Questi stili si adattavano all’esigenza jugoslava di ridefinire la sacralità dei monumenti commemorativi, pensati per una società egualitaria, libera dai vincoli dell’etno-nazionalismo, del settarismo religioso e del conflitto di classe.
Invece di monumenti costruiti attraverso stili artistici storici che parlavano del passato, figure geometriche che guardavano al futuro.
Prima del 1960 la costruzione dei siti commemorativi era prevalentemente spontanea. Alcuni grandi progetti dell’immediato dopoguerra furono pianificati dal governo, ma l’80% degli spomenik era costituito di modeste targhe, lapidi e tombe volute dai leader dei villaggi locali o da piccoli gruppi di veterani di guerra.
Dopo il 1960 la Federazione dell’Associazione dei Veterani della Guerra di Liberazione Nazionale della Jugoslavia (SUBNOR) assunse tutta la responsabilità di dirigere e coordinare la creazione delle opere monumentali. L’obiettivo era quello di creare un sistema meno caotico.
Quando il SUBNOR annunciava un progetto commemorativo, la responsabilità per la pianificazione dello spomenik ricadeva su una specifica commissione, che come prima cosa doveva lanciare una gara di progettazione.
Nei bandi aperti tutti gli artisti e gli architetti potevano presentare liberamente le proprie proposte di design. Nei bandi chiusi la commissione di pianificazione doveva scegliere i progetti proposti da un gruppo di candidati preselezionati.
Una volta ricevute tutte le proposte di design, la commissione selezionava una giuria (composta da artisti, architetti, critici d’arte, politici, rappresentanti del partito, veterani e militari), incaricata di proclamare collettivamente il vincitore.
Dal momento in cui la maggior parte delle personalità che componevano le giurie facevano parte delle istituzioni statali, le proposte selezionate riflettevano da vicino l’estetica politica del partito socialista.
In ogni caso, essendo il voto dei giurati segreto e le giurie stesse multidisciplinari, fu possibile la selezione di progetti artisticamente ambiziosi, che difficilmente sarebbero potuti essere selezionati in altro modo per la loro trasformazione in monumenti.
A oggi diversi spomenik sono in stato di degrado, incuria, abbandono o completamente distrutti. Un processo iniziato dopo la dissoluzione della Jugoslavia e l’indipendenza delle ex-Repubbliche Socialiste.
Nonostante gli intensi sforzi del partito molte comunità si rifiutarono di integrarsi in una società multiculturale, a causa delle forti identità religiose/etniche, della sfiducia nei confronti della leadership comunista e della rabbia per i massacri avvenuti durante la Seconda Guerra Mondiale.
È così che, con l’inizio delle guerre nel 1991, i simboli di “fratellanza e unità” divennero il primo obiettivo della distruzione in molte aree in cui erano prevalenti ideologie anti-jugoslave.
Nei nuovi Stati indipendenti e in mezzo ai conflitti etnici degli anni Novanta gli spomenik erano spesso considerati ricordi di un passato sgradito. Per questo alcuni ufficiali militari e gruppi politici decisero di cancellarli dalla memoria collettiva.
Da allora non si sa esattamente quanti spomenik siano rimasti. La scarsa quantità di informazioni su questi siti commemorativi non è dovuta solo alla mancanza di catalogazione, ma anche al fatto che sono ancora attivamente trascurati da governi locali e regionali.
Per provare a mettere fine a questa tendenza, Donald Niebyl ha dedicato gli ultimi anni alla creazione di un sito che vuole diventare una risorsa completa con informazioni dettagliate sugli spomenik nei Balcani Occidentali.
Oggi abbiamo l’occasione di parlarne proprio con lui.
Un progetto senza fine
Donald, perché hai deciso di creare un database di spomenik?
«Tutto è iniziato nel 2015, quando ho visto per la prima volta le fotografie del belga Jan Kempanaers. Quelle forme scultoree monumentali avevano tratti universali ma, allo stesso tempo, erano distanti anni luce dalla mia mentalità.
Nel 2016 ho trascorso circa 3 mesi in viaggio nei Balcani Occidentali, visitando il maggior numero possibile di spomenik. Ho scattato centinaia di fotografie, documentandone la condizione e individuandone la posizione esatta.
Ho chiesto l’aiuto di gente del luogo per tradurre le iscrizioni sui monumenti, decifrarne la storia e comprenderne il significato culturale.
Una volta tornato negli Stati Uniti, ho creato il sito web Spomenik Database, in modo che se qualcun altro avesse voluto trovare informazioni su questi siti, sarebbe stato più facile rintracciarli.
La reazione è stata immediatamente positiva, in tutto il mondo. Con questo incoraggiamento ho continuato ad ampliare il sito e a caricare sempre più dati.
Dal 2017 torno ogni anno a visitare altri siti, per almeno uno o due mesi. Il progetto continua a espandersi, con informazioni sull’architettura, la scultura e la storia dei monumenti jugoslavi».
Quanti sono oggi gli spomenik?
«È difficile fornire un numero esatto, ma sicuramente sono molte migliaia.
Nessuno sa con certezza quanti siano, perché non sono mai stati tenuti registri precisi a livello nazionale. La distruzione di migliaia di siti durante le guerre nell’ex-Jugoslavia ha reso le operazioni di conteggio ancora più difficili.
Tuttavia, grazie allo Spomenik Database e alle ricerche di Miran Hladnik in Slovenia e Andrew Lawler in Bosnia ed Erzegovina, c’è un maggiore sforzo di catalogazione sistematica di questo importante patrimonio storico.
Hladnik ha documentato più di 6.400 siti e oggetti commemorativi partigiani in Slovenia. Questa è un’indicazione del numero di spomenik che potremmo aspettarci di trovare anche nelle altre ex-Repubbliche socialiste».
Quanto è difficile mappare gli spomenik?
«Quando ho iniziato, era molto difficile trovare informazioni sui luoghi precisi, perché erano disponibili pochissimi dati facilmente accessibili.
I primi tentativi si sono basati sulle fotografie aeree dove sospettavo si potessero trovare i monumenti. Anche a distanza di anni, sto ancora cercando di localizzarne molti.
Una volta individuati sulla mappa, il passo successivo è quello di trovarli sul terreno, cosa non sempre facile».
Gli utenti possono contribuire con segnalazioni e informazioni?
«Anche se i miei viaggi nella regione sono una delle fonti più importanti per aggiungere nuovi dettagli alla mappa, gli utenti sono una grande fonte di nuove informazioni.
Quasi ogni giorno vengono contattato da follower che hanno scattato foto a siti ancora non documentati. Non posso davvero spiegare quanto mi aiutino ad ampliare lo Spomenik Database.
La mappatura è un aspetto su cui continuo a lavorare. Quasi ogni settimana aggiorno la mappa di Spomenik Database con nuove informazioni e contenuti interattivi».
Termometri di cemento
Che significato hanno oggi gli spomenik per i Paesi dell’ex-Jugoslavia?
«Ciascuna delle ex-Repubbliche socialiste ha un rapporto diverso, anche all’interno delle Repubbliche stesse.
Può dipendere dalla cultura, dalla politica, dalla religione, dall’etnia, dalla storia recente. In un paese si può trovare un monumento di epoca jugoslava in condizioni perfette, mentre in quello vicino un altro completamente distrutto.
In generale, la maggior parte degli spomenik distrutti o trascurati si trova in alcune regioni della Croazia e della Bosnia ed Erzegovina. Questi monumenti possono fungere da termometro per misurare il rapporto che una determinata comunità ha con la sua storia e il suo patrimonio jugoslavo».
Come è stato accolto il progetto nella regione?
«La risposta è stata incredibile. A volte ricevo messaggi persino dagli autori dei monumenti o dai loro discendenti, che condividono documenti e informazioni.
Anche perché questo sito è uno dei pochi in cui alcuni di questi autori vengono citati in inglese (o in altre lingue).
Una piccola parte dei commenti che ricevo sono reazioni negative, soprattutto perché sono uno straniero che scrive di storia jugoslava. Ma faccio del mio meglio per rendere gli scritti e le ricerche su Spomenik Database il più approfonditi, imparziali e accurati possibile».
Questo progetto ha dato il via a un turismo specifico?
«Dalle reazioni che ho riscontrato online nel corso degli anni, ho notato un’impennata significativa nell’interesse turistico per gli spomenik, sia da parte di turisti stranieri che nazionali.
Basta dare un’occhiata alle piattaforme di social media per scoprire che migliaia di persone si fotografano in questi siti, cosa molto difficile fino a 5 o 6 anni fa.
Organizzazioni turistiche come Atlas Obscura o Soviet Tours forniscono esperienze guidate per visitare gli spomenik.
Nel frattempo, negli ultimi anni ho lavorato a un progetto finanziato dalle Nazioni Unite per sviluppare un itinerario culturale turistico incentrato su questi siti monumentali di epoca jugoslava.
Anche se lo slancio di quel progetto è stato vanificato dalla crisi del COVID-19, sono fiducioso che questi sforzi si realizzeranno in futuro».
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Oggi, seduti con il nostro ospite al bancone di BarBalcani, scopriamo una sorta di spomenik delle bevande jugoslave.
Cockta fu inventata nel 1952 nella Repubblica Socialista di Slovenia. Una bevanda analcolica in grado di competere con i marchi stranieri e di compensare la loro assenza in Jugoslavia (a causa del divieto governativo).
Il direttore della società statale Slovenijavino, Ivan Deu, ebbe l’idea di produrre una nuova bevanda, che fu realizzata dall’ingegnere chimico Emerik Zelinka, dipendente dei laboratori di ricerca Slovenijavino.
Il nome deriva dalla parola ‘cocktail’ e il nuovo prodotto fu presentato per la prima volta l’8 marzo 1953 a Planica, in occasione di una gara di salto con gli sci. Quello stesso anno furono riempite 4,5 milioni di bottiglie con un milione di litri di Cockta.
La Cockta è ancora oggi realizzata con una miscela di undici erbe e spezie diverse, tra cui la rosa canina, l’aroma principale della bevanda.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per la decima tappa.
Un abbraccio e buon cammino!
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