S4E13. Il gastronazionalismo non sa di niente
Anche il cibo può diventare veicolo di supremazia, quando la retorica dello Stato-nazione si appropria di cucine e piatti. Lo spiega la fondatrice del progetto 'The Balkan Kitchen', Irina Janakievska
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Le tradizioni possono assumere un carattere quasi sacro in molte parti del mondo, ma soprattutto in Europa. Il legame tra identità e corpus di regole non scritte delle abitudini e persino dell’alimentazione ha spesso la capacità di trascendere la razionalità e diventare motivo di irrigidimenti, divisioni e scontri.
Ciò che nasce come arricchimento culturale - usanze da far dialogare tra loro o riconoscimento di un passato comune - può facilmente assumere i tratti di una retorica identitaria ottusa e contraddittoria. Una retorica nazionalista.
Vale per tutte le sfumature delle tradizioni di un Paese, di una regione, di una comunità. E in questo discorso il cibo riveste un ruolo di primo piano. Quando una cucina popolare incontra il mito dello Stato-nazione (declinato su vari livelli), nasce un dogma culturale: il gastronazionalismo.
Lo si può ritrovare ovunque, dall’Italia alla Francia, dalla Grecia alla Turchia. Fino ai Balcani, con forme e declinazioni paradigmatiche.
A BarBalcani abbiamo deciso di analizzarle grazie al supporto di una figura esperta, che conosce a fondo la realtà della cucina balcanica. Con Irina Janakievska, fondatrice del progetto The Balkan Kitchen, scopriremo perché il gastronazionalismo è una forma mentis pericolosa e soprattutto cosa significa ridare dignità alle tradizioni culinarie di una regione.
In attesa della pubblicazione del suo ricettario The Balkan Kitchen nell’estate 2024. «È un libro di cucina, ma lo considero come una lettera d’amore ai Balcani, alla sua gente e alla sua cucina, raccontata attraverso ricette e storie», anticipa Janakievska.
Cos'è il nazionalismo (culinario)
Quasi ovunque nel mondo il cibo può unire e dividere le persone in modo molto forte. «È proprio questa la mia sfera d’interesse», spiega Janakievska, introducendo il tema del gastronazionalismo (conosciuto anche come nazionalismo culinario).
Janakievska si è trasferita nel Regno Unito nel 2001, quando la Macedonia del Nord conosceva un’escalation di violenza interna che rischiava di sfociare in una vera e propria guerra civile. «Eravamo nel pieno delle politiche di autodeterminazione. A dieci anni dall’inizio delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia sembrava che non avessimo ancora idea del tipo di identità verso cui ci stessimo dirigendo. Credo che per molti versi siamo ancora in fase di transizione».
Provenendo da una regione che è spesso definita ‘la polveriera d’Europa’ e con il suo interesse per il cibo come «aspetto onnipresente della cultura balcanica», Janakievska ha deciso di indagare il motivo per cui la cucina è diventata - soprattutto negli ultimi 30 anni - «una delle principali piattaforme per l’espressione di questa autodeterminazione e rivendicazione di una nuova identità nazionale» nei Balcani.
In altre parole, cosa c’entra il nazionalismo con il cibo? «Beh, tutto», ha scoperto.
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«Il cibo è diventato un’espressione delle rivalità storiche tra Stati-nazione, un’estensione dell’antica volontà di dominio e di rafforzamento di questo mito». Se il nazionalismo può essere il mezzo di emancipazione della nazione - da un impero o da una struttura federalista socialista - intrinsecamente ha un obiettivo sovranazionale: la riunificazione di tutti i territori e le nazioni che si trovano al di fuori degli attuali confini dello Stato-nazione (reale o immaginario).
Lo Stato-nazione è il mito dell’unità basato su fattori etnici, linguistici, culturali, geografici, culinari, e sull’«eliminazione dell’‘altro’ con qualsiasi mezzo necessario», avverte la fondatrice del progetto The Balkan Kitchen: «Attraverso la conquista di territorio, ma anche attraverso l’acquisizione del cibo». È così che l’intera idea di Stato-nazione «diventa un puro costrutto, una narrativa nazionalista».
In termini culinari questo si manifesta con la «designazione di una ‘cucina nazionale’ o di un ‘piatto nazionale’». Si accampano diritti su una cucina o un piatto «quando ci sono ostacoli alle rivendicazioni nazionaliste», per esempio quando i confini dello Stato nazionale non corrispondono all’estensione del mito della nazione.
Se diciamo che “questo piatto è il nostro piatto nazionale, non è vostro”, «in automatico si preclude a chiunque altro di rivendicarlo o di condividerne la ‘proprietà’». Non è però possibile escludere il rapporto di altre nazioni con una cucina o un piatto specifico, perché «è contrario al concetto di interconnessione del cibo nella storia».
Come spiega Janakievska, la moussakà è un buon esempio. «In Grecia viene preparata in un modo particolare ed è stata perfezionata da uno chef greco a Istanbul, ma questo non significa che non sia preparata o consumata anche altrove nei Balcani». Al contrario, la moussakà «trascende i confini politici in cui ci troviamo».
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Un artificio necessario
Considerando la complessità del controverso termine ‘Balcani’, è interessante notare la scelta del nome - Balkan Kitchen - per un progetto il cui obiettivo è combattere il gastronazionalismo nella regione balcanica (ma non solo).
«Uso il termine ‘Balcani’ perché la parola stessa è sovraccarica di significato», sottolinea Janakievska. Con la dissoluzione della Jugoslavia e le guerre degli anni Novanta, il termine ‘Balcani’ ha assunto connotazioni negative: «La Jugoslavia è diventata sinonimo di Balcani, e i Balcani sono diventati sinonimo di spargimento di sangue, violenza, conflitto interno, frammentazione». Di conseguenza l’intera regione si è trovata di nuovo stigmatizzata - «più o meno come all’inizio del Novecento» - come ‘la polveriera d'Europa’.
Per questo motivo «ho voluto recuperare questa parola», afferma la fondatrice del progetto culinario e culturale, precisando che «nel mio caso mi occupo soprattutto della cucina riferita il territorio dell’ex-Jugoslavia, ma questo non significa che l’ex-Jugoslavia sia l’intera estensione dei Balcani».
Dal momento in cui «noi eravamo gli ‘altri’ alle porte d’Europa», Janakievska ha sentito l’urgenza di dimostrare che ‘Balcani’ è molto più di uno stereotipo negativo: «Io sono ‘l’altro’, scrivo da questa prospettiva e voglio trasformare questa parola in qualcosa di positivo».
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È così che in The Balkan Kitchen «scrivo di cucina balcanica con grande amore, rispetto e curiosità». La fondatrice di questo progetto spiega che il suo obiettivo è quello di «scoprire e descrivere le origini e il viaggio dei piatti» principalmente nella regione che corrisponde all’ex-Jugoslavia, ma anche dove c’è «una sovrapposizione e un impatto significativo» nelle cucine del resto dei Balcani e oltre.
L’interesse di Janakievska si concentra su molti aspetti di un piatto: «Guardo alle stratificazioni storiche dell’identità regionale, alle associazioni con i moderni miti dello Stato-nazione, agli attuali confini politici, al suo significato per diversi gruppi culturali, etnici, linguistici o religiosi».
Il risultato è che «la cucina balcanica è una costruzione astratta, non esiste in sé». Ma allo stesso tempo «è un artificio necessario, perché il suo implicito regionalismo mi permette di esplorare e celebrare sia i tratti comuni sia le differenze culinarie dei Balcani».
The Balkan Kitchen cerca di scoprire, comprendere e documentare la storia culturale e l’intreccio delle identità con la cucina della regione, senza cadere nella trappola di accentuare e perpetuare le retoriche nazionaliste.
E nonostante tutti conoscono e amano alcuni piatti - ajvar, ćevapi, burek, sarma - non significa che questi rappresentino l’intera offerta culinaria dei Balcani: «Se ci concentriamo solo su questi piatti, rischiamo di perdere le incredibili specialità di tutta la regione».
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Ricreare i sapori
«Vorrei che le persone capissero come il cibo ha viaggiato verso e attraverso i Balcani e ha acquisito sapori e odori, adattandosi nell’utilizzo di ingredienti, tecniche e strumenti specifici». È questo il messaggio del progetto The Balkan Kitchen.
Mentre si preparano questi piatti, non si può dimenticare che le cucine regionali «portano con sé legami storici» che ci connettono costantemente. «Non dobbiamo limitarci a delineare la cucina solo in base alla nazionalità», continua Janakievska. È più utile invece concentrarsi sul «preservare le ricchezze culinarie, celebrando sia i punti di contatto sia di diversità».
Non è però sempre facile districarsi tra le storie che il cibo porta con sé. Per esempio nei Balcani «alcune si sono perse nella memoria, o sono diventate quasi invisibili», perché la loro origine non è stata documentata o perché modificata dalla narrazione politica, religiosa o nazionale prevalente. Ma gli echi rimangono e - nonostante anni di ricerche e viaggi attraverso la regione - «questo viaggio è appena iniziato», ci confessa Janakievska con un sorriso.
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Quello che è iniziato come «un omaggio a mia nonna e alle incredibili donne della mia famiglia», è diventato «una missione di documentazione della cucina di una regione che amo». Una cucina che sta rapidamente scomparendo con la morte delle generazioni più vecchie e l’esodo dei giovani, ma che viene anche «modificata, brandita o alterata» per scopi politici o nazionalisti.
Ma questa è anche una missione per «aiutare altre persone come me, membri della diaspora balcanica» in tutto il mondo, a «ricreare i sapori che ricordano». E, in questo modo, confrontarsi con i membri più anziani delle proprie famiglie per «documentare e conservare le ricette tradizionali di aree specifiche dei Balcani».
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Tutto ciò considerato, The Balkan Kitchen è un rimedio al gastronazionalismo. «Mi piacerebbe che tutti si innamorassero dei Balcani, attraverso il cibo, tanto quanto lo sono io», confessa la fondatrice del progetto.
Un amore basato sulla comprensione di quanto questa cucina «porta il peso della storia spesso difficile e dolorosa - ma allo stesso tempo culturalmente ricca e unica - dei Balcani».
E come le persone «più volte sradicate dai Balcani in vari momenti della storia» - a causa di occupazioni, guerre o altri sconvolgimenti sociali, politici ed economici - «portino con sé la propria cucina ovunque al mondo abbiano scelto di mettere nuove radici», spiega Janakievska a BarBalcani.
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Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Per una così grande esperta di cucina balcanica, sono infiniti i consigli su cosa bere al bancone di BarBalcani. Si può iniziare con la «dunjevača, la rakija di mele cotogne come aperitivo» e finire con il «Teranino, un liquore a base di vino rosso prodotto da uve rosse autoctone istriane Teran, come bicchiere della staffa».
Ma quello che Janakievska consiglia davvero è il «Lilac French 75, uno dei cocktail primaverili preferiti di The Balkan Kitchen». Come anteprima del libro di cucina ormai prossimo all’uscita, riceviamo in regalo la ricetta sia del cocktail sia del suo ingrediente principale, lo sciroppo di lillà.
La ricetta del Lilac French 75:
25 ml di gin floreale
5 ml di succo di limone e una striscia sottile di buccia di limone
20 ml di sciroppo di lillà
100 ml (o più, a piacere) di champagne
Mettere il gin, il succo di limone, lo sciroppo di lillà e una manciata di cubetti di ghiaccio in uno shaker per cocktail. Agitare vigorosamente per qualche secondo e filtrare in un flute da champagne. Aggiungere lo champagne e guarnire con la buccia di limone e i fiori di lillà.
La ricetta per lo sciroppo di lillà:
20 g di fiori di lillà (l. syringa vulgaris), circa 4-6 mazzetti di fiori
3-4 ribes neri o mirtilli (freschi o congelati)
200 g di zucchero semolato
200 g di acqua
Raccogliere i fiori di lillà completamente sbocciati ma non ancora scoloriti e, idealmente, al mattino presto, quando il nettare è più forte. Sciacquarli e asciugarli. Pulire delicatamente i fiori, avendo cura di estrarre la base ma scartando le parti verdi.
Per preparare lo sciroppo, mettere i fiori di lillà, ribes neri/mirtilli e lo zucchero in una piccola ciotola e versare l’acqua appena bollita. Mescolare delicatamente per sciogliere lo zucchero, quindi coprire e lasciare in infusione per circa due ore (non lasciarlo più a lungo, altrimenti lo sciroppo diventa amaro). Filtrare con un setaccio fine in una bottiglia ermetica sterilizzata. Si conserva bene in frigorifero fino a quattro settimane.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per la quattordicesima tappa di questa stagione.
Un abbraccio e buon cammino!
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Interessantissimo. È una questione reale anche in Italia, ovviamente con tessuto sociale, storico e culturale diverso ma molto presente anche qui. Personalmente credo vada combattuto e ridimensionato; la tradizione si è formata grazie alla commistione di culture diverse e non va dimenticato