S2E17. I Balcani di Scampia
Viaggio nel quartiere della periferia di Napoli, dove il centro culturale e gastronomico Chikù stimola lo scambio di relazioni con la comunità rom, attraverso il linguaggio universale della cucina
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter dai confini sfumati.
Sulla tavola c’è un piatto di moussaka, delle sarme con peperoncini dolci, una fettina di ghibaniza e un bicchierino di rakija.
Niente di strano per questa newsletter, all’apparenza.
Ma che ci fanno tutte queste specialità balcaniche a Scampia, quartiere della periferia settentrionale di Napoli?
Lasciamo stare tutto l’immaginario collettivo che si è creato attorno ai luoghi di Gomorra e facciamoci spiegare l’anima del rione da chi lo conosce e lo vive ogni giorno.
Oggi la nostra guida è Barbara Pierro, avvocata e presidente dell’associazione Chi Rom… e chi no.
Con lei scopriamo che Scampia ospita un angolo di Balcani grazie alla comunità rom stabilitasi nel quartiere ormai da decenni.
E soprattutto ci facciamo raccontare come si è sviluppata l’idea di dar vita a una delle realtà più dirompenti sulla scena gastronomica: Chikù, il primo ristorante italo-romaní.
Un presidio di integrazione sociale, culturale e lavorativa.
Una comunità radicata
«La comunità rom presente a Scampia è di lunga data ed è tutta di provenienza dell’area dell’ex-Jugoslavia», ci spiega Barbara.
Le prime presenze risalgono alla fine degli anni Settanta, con il grosso degli arrivi una decina di anni dopo. All’inizio degli anni Duemila la comunità contava all’incirca duemila persone e viveva dove ora è stata costruita la fermata della metro.
Ma proprio nel 2000 un incendio doloso ha distrutto il campo, portando allo smembramento della comunità.
Metà delle persone si sono spostate nel primo campo autorizzato costruito dal Comune di Napoli, mentre l’altra metà in un campo informale sotto il cavalcavia dell’asse perimetrale di Melito e Scampia.
Barbara precisa che «il numero di partenza è indicativo». Nessun censimento l’ha mai attestato, «almeno fino allo scandalo del censimento su base etnica del 2008, promosso dal governo Berlusconi e invalidato dal Tar del Lazio».
Dopo altri due incendi che hanno colpito il campo (di cui l’ultimo nell’agosto di quest’anno), la comunità si è smembrata nuovamente e si è ridotta di numero, «in condizioni di vita sempre peggiori, visto che le istituzioni non intervengono a sostegno».
Non solo il Comune di Napoli, ma anche la Regione Campania è latitante, «nonostante dovrebbe aver già istituito i tavoli regionali con prefettura, enti locali, associazioni e comunità rom», secondo la Strategia nazionale di inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Caminanti richiesta dall’UE nel 2012.
«Ormai qui sono presenti più di tre generazioni di rom, che vivono a Scampia da oltre 30 anni».
Persone come Barbara cercano di sostenere la loro inclusione con diversi strumenti: «Abbiamo aperto uno sportello legale per far acquisire la cittadinanza italiana alle nuove generazioni». In assenza dello ius soli, «devono faticare anche per ottenere il riconoscimento dell’identità che è loro dovuto».
Culture da avvicinare
Scampia è un quartiere complesso, a ogni livello. E tutto parte dall’urbanistica: «È fatto di strade larghissime, senza punti di aggregazione, con una piazza enorme che non ha un albero o una panchina. Qui è sempre molto difficile veicolare le informazioni».
A questo si somma il fatto che, in situazioni di marginalità che possono essere determinate dal vivere in un campo rom informale o in una Vela, «ci possono essere frizioni sulle possibilità di conoscenza e relazione».
Come fa notare Barbara, «nell’immaginario comune c'è sempre la necessità di trovare un capro espiatorio del proprio malessere». Avere un campo rom vicino «facilita questa tendenza».
Il quadro non è nero, ma «è pieno di sfumature». Lo dimostra il fatto che «laddove ci sono occasioni di incontro e di costruzione di relazioni significative, il livello di diffidenza, di stereotipo e di discriminazione si abbassa in modo sostanziale».
La voce di Barbara si fa incalzante nello spiegare che «quando il confronto diventa dialettico e partecipato, si aprono grandi spiragli di crescita comune».
Il motivo è semplice e solo una persona che vive Scampia ogni giorno può testimoniarlo con così tanta forza: «Nel negativo di essere un quartiere fortemente discriminato dal resto della città, qui è più facile rendersi conto che chi sta di fronte a te vive le tue stesse difficoltà e fragilità, ma ha anche le stesse potenzialità e desideri».
La comunità rom e quella del rione hanno in comune sia il fatto di essere arrivati in questo posto più o meno nello stesso momento, «quando è stato costruito senza alcun tipo di servizio», ma anche di dover combattere le stesse lotte.
È in questo scenario che opera l’associazione di promozione sociale Chi rom… e chi no, sin dalla sua nascita quasi 20 anni fa nel campo rom. Il nome è un gioco di parole con ròrme, che in dialetto napoletano significa “dorme” (chi dorme e chi no).
«Cerchiamo di inserirci come un faro di speranza, anche se a volte dobbiamo fare i conti con difficoltà anche superiori alle forze che possiamo mettere in campo», spiega Barbara, tra coloro che hanno fondato l’associazione.
Per esempio, «se la metropolitana chiude alle 22:30 in un quartiere di periferia, è facile immaginare che anche se ci sono attività di qualità o reti sociali invidiabili, l’elemento di cambiamento fatica ad attecchire».
È un aspetto su cui l’associazione ha lavorato e continua a lavorare con costanza. Come ricorda anche un libro illustrato, pubblicato un mese fa dalla Marotta & Cafiero, la casa editrice fondata da Rosario Esposito La Rossa a Scampia.
«Si intitola proprio Chi rom… e chi no e racconta la storia di due bimbe, una napoletana e una rom, in un parallelismo continuo tra quello che accade nel rione e quello che accade nel campo».
È anche in questo modo che l’associazione cerca di essere una spina nel fianco dell’amministrazione comunale, «perché le periferie non possono essere il fanalino di coda a cui non è riconosciuta pari dignità», è l’affondo di Barbara.
Ma rimane centrale anche la questione dell’inclusione lavorativa.
E qui si inserisce Chikù.
Il sapore dell’integrazione
Parallelamente a Chi rom… e chi no, a Scampia è nata la Kumpagnia, un’esperienza di donne rom e napoletane nel campo della gastronomia.
Da semplice progetto, nel 2010 è diventata un’impresa sociale, capace di dimostrare di avere una sua sostenibilità economica: «Abbiamo voluto che continuasse ad avere un’anima pedagogico-culturale e un’anima gastronomica».
È così che è nato il centro culturale e gastronomico Chikù. Si tratta del primo ristorante italo-romaní, che ha trovato posto in quella che doveva essere la buvette del teatro di Scampia, chiuso da oltre dieci anni.
Il nome unisce Chi rom… e chi no e Kumpagnia, con la missione di «stimolare l’emancipazione attraverso il lavoro, l’incontro e la ricerca dell’educazione».
Negli occhi di Barbara, quando si parla di Chikù, scatta qualcosa di viscerale.
«Da un punto di vista economico, stare qui è una scommessa». Scampia è un quartiere di 40 mila abitanti «e Chikù è l’unico punto di ristorazione insieme a due pizzerie d’asporto».
«Questo racconta perfettamente qual è la tendenza rispetto alla possibilità di concedersi del tempo dedicato alle relazioni personali, alla convivialità, al piacere di stare in questo quartiere».
Insomma, a Scampia quando si esce, si va altrove.
Per chi vuole un futuro diverso per il quartiere, questa è una sfida enorme per l’integrazione, che libera la creatività.
«La cucina è diventata lo strumento che riesce ad avvicinare le persone con il suo linguaggio universale», ci racconta Barbara. «È un terreno neutro, ma fortemente appassionato, e poi davanti a una tavola imbandita si è più disposti a incontrare l’altro e condividere un percorso di ricerca comune».
Il gruppo di cuoche che lavora a Chikù è ancora quello formatosi nel 2010: dieci donne, rom e napoletane, di cui cinque stabili.
Ma la pandemia COVID-19 si è fatta sentire: «Le donne rom sono quelle che hanno subito il colpo più duro, vivendo in un campo informale, ma anche l’attività dell’impresa sociale ne ha risentito».
A pranzo nei giorni feriali Chikù rimane chiuso, a meno che non ci siano prenotazioni. Barbara non nasconde la dura realtà post-COVID: «Non possiamo permetterci di rimanere sempre aperti, solo sperando che arrivi qualcuno».
La voglia di resistere però prevale sempre: «L’attività di catering ci permette ancora di chiamare molti giovani del quartiere, napoletani e rom, come camerieri e tuttofare».
Ma alla fine, che si mangia da Chikù?
«Qui ci sono piatti della cucina tradizionale napoletana: ragù, scarpariello, genovese, pizza fritta.
Oppure piatti tipicamente balcanici: sarme (involtini ripieni), moussaka, ghibaniza (dolce o salata) e cous cous che viene preparato nell’area della Macedonia».
Ma poi, sorridendo, Barbara ci racconta anche di «piatti nati in cucina dal legame tra le cuoche, mettendo insieme ricette balcaniche con prodotti che crescono nei nostri orti».
Contaminazioni mai viste prima, che «raccontano le potenzialità dell’incontro fra comunità con un passato diverso, ma con una prospettiva di guardare insieme al futuro».
È quasi sicuro che l’integrazione profumi di moussaka ai friarielli.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Il bancone di BarBalcani, oggi in trasferta a Scampia, lascia spazio alle contaminazioni che rendono Chikù una realtà unica.
«Qui da noi si beve la rakija dei commerci balcanici della comunità rom, ma anche il mandarinetto biologico realizzato dalle cuoche con i mandarini dei nostri giardini».
Barbara ci saluta così, con una punta di orgoglio e la tranquillità di chi sa che le difficoltà si superano facendo la differenza ogni giorno nelle piccole cose.
Anche tra i fornelli di un ristorante o al bancone di un bar.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la diciottesima tappa!
Un abbraccio e buon cammino!
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