S4E6. 'Fritland'. Patate fritte in salsa albanese
Intervista a Zenel Laci, autore dello spettacolo teatrale che porta il nome della più famosa friggitoria di Bruxelles. Storia di una famiglia migrante, di riscatto personale, di patriarcato e libertà
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Una tenda rossa e bianca, lo sfrigolio delle patate gettate nell’olio bollente e l’odore di fritto che avvolge chiunque si avvicini a un’insegna che è tutta un programma: Fritland. Il Paese delle frites, le patatine fritte.
Se il Belgio è il regno delle patatine fritte, Bruxelles ne è regina indiscussa. Ma quella tenda rossa e bianca nel cuore della capitale belga nasconde una storia unica.
Perché per tutti i brussellesi Fritland è il miglior chiosco di frites. Eppure la più belga tra le attività belghe è stata fondata 35 anni fa - ed è tutt’ora gestita - da una famiglia non belga.
La storia di Fritland inizia in Albania. Con una fuga e un esilio volontario, con il sogno di un padre di raggiungere gli Stati Uniti. Con l’arrivo invece in Belgio e un chiosco di patate fritte. Con il lavoro di una famiglia intera, bambini inclusi.
E con uno dei figli che, dopo anni all’interno di una rigida struttura patriarcale, trova il coraggio per dire ‘no’ e iniziare una propria vita. Fuori da Fritland, finalmente in Belgio.
E ora Friland non è più solo una friggitoria. È uno spettacolo in scena a Bruxelles. Fritland, di e con Zenel Laci.
Quel figlio che ha lasciato ‘l’Albania in Belgio’ per ritrovare se stesso e che oggi, dopo il successo al Théâtre de Poche, ha deciso di raccontare a BarBalcani la storia della sua famiglia e di Fritland.
La sua storia.
L’Albania a Bruxelles
Come è stato possibile che una famiglia albanese abbia dato vita in Belgio a una delle attività più tipicamente belghe?
«Quando lasciò l’Albania nel 1952, mio nonno era un realista e un membro dell’esercito di re Ahmet Zog. Voleva continuare a difendere la democrazia, ma un giorno fu avvertito che i comunisti erano pronti per arrestarlo. Aveva solo un giorno per prepararsi e partire con la sua famiglia.
Lui voleva solo salvarsi, invece mio padre - che aveva 16 anni - voleva andare negli Stati Uniti. Rimase in Kosovo qualche tempo e si sposò. Dopo otto anni in un campo profughi in Croazia, per emigrare negli Stati Uniti bisognava passare dalla Jugoslavia all’Italia. Ma nel 1962 fu loro rifiutato il visto per gli Stati Uniti.
A quell’epoca il Belgio offriva istruzione gratuita per i bambini, alloggio e lavoro. Così la mia famiglia ci si trasferì nel 1963: i miei genitori e i miei nonni erano nati in Albania, le mie sorelle maggiori in Kosovo, mio fratello maggiore in Italia, io e l’altro fratello in Belgio. Questa è la storia del nostro viaggio!
In mio padre è però sempre rimasto il sogno di andare negli Stati Uniti, anche quando era in Belgio. Il caso volle che un portoghese a Bruxelles gli offrisse di prelevare il suo chiosco di patatine fritte: se voleva fare soldi facili, quello era l’affare migliore. Le patate costano poco, ma a costare è la manodopera. Così ci disse: “Tutti al lavoro, a prescindere dall’età”.
Era il 1978. Mio padre aveva visto che esisteva un locale chiamato Pizzaland, il paese della pizza. Per questo pensò: “Noi facciamo patatine fritte, il nostro negozio si dovrà chiamare Fritland!”
Io dovetti abbandonare la scuola e iniziai a pelare patate per tante ore al giorno, a lavorare. A quei tempi era una cosa normale, perché bisognava uscire dalla povertà. Ho iniziato a lavorare al bancone del negozio a 16 anni.
Il chiosco iniziò ad avere successo e questa fu un’opportunità incredibile per persone che fino a poco tempo prima non avevano idea di che cosa fossero le patatine fritte. Ed è ancora lì, della famiglia».
Come si è sviluppato il rapporto della tua famiglia con l’Albania?
«Dal momento in cui eravamo in esilio, non abbiamo avuto contatti con l’Albania per 40 anni. Quando non si può tornare nel proprio Paese, tutto viene mitizzato: è il Paese più bello del mondo, è tutto magnifico. Questo è ciò che ci viene propinato, senza alcuna immagine reale. E non ci poniamo domande.
Per esempio alle elementari le maestre non capivano la mia nazionalità: albanese? Libanese? Dove si trova l’Albania? Accanto alla Grecia c’è solo la Jugoslavia, no? L’Albania si era ritirata da tutti i Patti, non esisteva più, non aveva un nome.
E poi vengo da una famiglia in cui non si leggeva. Un giorno un cliente ci sentì parlare e mi parlò di Ismail Kadare e Il generale dell’armata morta. È stata una persona esterna alla famiglia a farmi scoprire che ci sono anche scrittori albanesi, che non eravamo solo meccanici o autisti di autobus».
In famiglia c’era molto tradizionalismo, mentre l’attività professionale è tutta ‘belga’. Non è una contraddizione?
«Era davvero una contraddizione. Ma andava così: dentro casa è Albania, fuori è Belgio. E anche se il chiosco di patatine fritte ‘è belga’, in ogni caso si trattava di Albania. La struttura delle persone era albanese, solo i prodotti erano belgi.
Mio padre diceva sempre: “Sei albanese, rimani albanese”. Ma non è possibile. Era la contraddizione tra mio padre, guardiano dell’Albania attraverso questa friggitoria, e tutte le persone che passavano davanti a noi dalla mattina alla sera e che erano libere. Mi ci è voluto un po’ per capirlo: il negozio era solo un modo per guadagnare il più velocemente possibile per farci partire per gli Stati Uniti.
Si può dire che all’epoca non fossimo nemmeno a Bruxelles, Fritland era l’unico posto conosciuto per essere gestito solo da albanesi. Mio padre ci diceva sempre di dare da mangiare a qualsiasi albanese che non aveva soldi, perché sicuramente aveva sofferto. E allo stesso modo tutto ciò che rimaneva a fine serata andava alle persone senzatetto del centro.
Il nostro negozio era diventato un luogo di benessere per molte persone. Anche per gli ambasciatori albanesi - quando il Paese si riaprì al mondo - che erano pagati in lek e non potevano permettersi di vivere a Bruxelles. È così che ho avuto la possibilità di incontrare molti intellettuali albanesi».
Dentro e fuori la friggitoria
Com’è stata la tua integrazione a Bruxelles, in quanto figlio di migranti albanesi?
«Sono nato nel 1966 e, quando frequentavo la scuola elementare, il Belgio non era preparato per accoglierci. I belgi hanno accettato la generazione dei genitori, che erano le braccia, ma non avevano pensato al fatto che avessimo una testa. C’è stato un vuoto per la generazione di bambini come me negli anni Settanta.
Ricordo molto bene che in classe mettevano i bambini belgi davanti e tutti gli altri dietro: turchi, portoghesi, greci, ungheresi, albanesi. Gli insegnanti comunicavano con i belgi, con noi invece erano estremamente violenti.
Un giorno un professore mi diede uno schiaffone perché balbettavo mentre recitavo una poesia. Un altro bambino fu picchiato da quattro insegnanti perché aveva falsificato un voto. Eravamo una generazione che nessuno tollerava a scuola».
E invece che cosa ha rappresentato Fritland durante la tua crescita?
«Essendo il più piccolo, per me è stato un inferno. Fino agli anni Novanta nessuno a Bruxelles voleva vivere in centro. Era estremamente violento, bisognava lottare per salvare la cassa e il negozio.
Soprattutto per me, che ero piuttosto timido, introverso, sognatore, interessato ai libri e a nient’altro. Ma non avevo scelta. Mi ci è voluto molto tempo per capire che non era il mio posto.
Nessuno poteva dire di ‘no’ a mio padre perché l’Albania, la storia e anche lui stesso erano mitizzati. Penso che questo valga per tutte le famiglie che hanno vissuto l’esilio, che hanno sofferto, che hanno visto morti durante la fuga. Chi eravamo noi - nati in Belgio, con un lavoro, il riscaldamento, l’acqua per lavarci - per dire ‘no’?
Io sono stato il primo a dire “no, non posso più essere leale”. Perché era davvero una questione di lealtà: l’unico modo per salvarmi era andarmene. Ho conquistato la libertà a 30 anni, ‘rinunciando alla mia famiglia’ ma difendendo i miei fratelli. Solo perché tuo padre ha sofferto, non significa che devi soffrire anche tu».
Qual è stato il momento più difficile a Fritland?
«La partita di calcio Juventus-Liverpool nel 1985. Lo stadio Heysel, la città e la polizia non erano pronti per gli hooligan.
Il giorno della tragedia ero solo al lavoro. La sera prima c’erano stati degli scontri, ma solo pochi più del solito. L’indomani invece sono arrivati migliaia di hooligan e si è scatenato l’inferno.
Al chiosco non avevamo abbastanza cibo per tutta quella gente, che cercava di rubare di tutto. Ho dovuto fare del male, altrimenti sarei stato io quello morto. Avevo 18 anni e sono uscito di testa per servirli e intanto difendere il negozio. Erano dei selvaggi, è stato traumatico.
Quando accadde la tragedia, la polizia decise di chiudere l’intero centro città. Ma mio padre disse: “Mai al mondo, non c’è nessuna legge che ci costringe a chiudere”. Fritland è rimasta l’unica attività aperta: gli albanesi che difendevano un pezzo di territorio belga, perché pensavano che la polizia non fosse in grado».
E quale il momento più bello?
«Ce ne sono due. Nel negozio di patatine un senzatetto mi aveva visto leggere e un giorno entrò con due libri: L’occhio e lo spirito di Merleau-Ponty e L’esistenzialismo è un umanismo di Sartre. Joseph era un insegnante di francese in pensione colpito da una tragedia personale.
Siamo diventati amici e mi ha aiutato a comprendere la letteratura, l’esistenzialismo, l’umanesimo e le correnti letterarie. Fu lui a leggere il mio primo testo e a darmi fiducia in me stesso.
Il secondo era successo poco tempo prima. Al negozio c’erano molti fogli per avvolgere le patatine in coni di carta, così li utilizzavo per scriverci sopra brevi poesie che raccontavano le storie dei clienti. Ma non le mostravo a nessuno.
Un giorno presi i fogli della poesia La bottiglia in mare, ci misi dentro le patatine e le diedi a un signore. Un’ora dopo tornò: stava mangiando le patatine, aveva notato i fogli e aveva letto la poesia. Mi disse: “È davvero meravigliosa, sono tornato solo per dirti che devi continuare!”»
Si apre il sipario
Cosa è successo dopo l’addio a Fritland?
«Quando me ne sono andato, per tre anni non sapevo che fare della mia vita. Volevo andare all’università e seguire corsi di letteratura e lingua francese: volevo diventare insegnante di francese. Ma mio padre non mi aveva lasciato andare a scuola.
Mi iscrissi all’Université Libre de Bruxelles, ma c’era troppa differenza con i giovani studenti: avevano una libertà che io non capivo. Ironia della sorte, incontrai un gruppo di giovani comunisti, io che venivo da una famiglia sfuggita al regime comunista.
Trovai però che le idee progressiste ero ottime e infatti sono rimasto un uomo di sinistra, l’unico in famiglia, anche se non ho mai avuto la tessera di partito! Quei giovani mi lasciavano discutere di politica, del concetto di progresso e di socialismo. Non c’entrava nulla con quello che avevo sentito sulla dittatura in Albania.
Ma comunque avevo bisogno di andare a scuola. Il Servizio Informativo per gli Studi e le Professioni trovò l’unico corso possibile per me dove c’era anche letteratura: scenografia.
Mi iscrissi, avevo 30 anni e già un figlio. Ho lavorato come un matto e ce l’ho fatta. Avevo un diploma, ma in realtà mi ero innamorato del teatro. Così ho iniziato a scrivere e a mettere in scena».
E perché alla fine hai deciso di parlare proprio di Fritland?
«In tanti negli anni mi hanno chiesto perché non scrivessi la storia della famiglia. Io non mi sentivo all’altezza: ero il più giovane, ne avevo sentito parlare molto ma non l’avevo vissuta. La cosa però mi è rimasta in un angolo della mente.
Poi ho voluto scrivere degli anni passati al chiosco di patatine, facendo parlare Bruxelles attraverso i clienti che ho visto in 18 anni di lavoro, giorno e notte. Il quartiere della Borsa e il resto del centro storico non erano come oggi.
Pensavo a uno spettacolo sulle persone che avevo incontrato e mi ero immedesimato in un personaggio per diventare il pretesto attorno cui far girare tutti i clienti. È così che ho iniziato a scriverlo e metterlo in scena nel 2017 con l’attore Thiebault Vanden Steen.
È stato Thiebault a consigliarmi di farlo leggere al direttore del Théâtre de Poche. Che è venuto e mi ha detto che aveva già visto molti spettacoli sui clienti di un negozio, di un bistrot o di un ristorante. Ma anche che “hai una perla, ma non te ne rendi conto. La perla sei tu”.
Mi propose di scrivere lo spettacolo della mia vita a Fritland e mi promise che lo avrebbe prodotto al Théâtre de Poche a una condizione: che fossi io a interpretarlo. Anche se non ero un attore.
È stato allora che ho iniziato a parlare della mia famiglia, della storia di Fritland e soprattutto di un giovane di origine albanese che aveva dei sogni e si trovava in un luogo che non era il suo. Questo chiosco di patatine, che era allo stesso tempo un’ispirazione e una prigione».
Che significato ha per te questo spettacolo?
«Avevo 52 anni quando l’ho realizzato. Volevo condividere l’ospitalità albanese: a fine spettacolo serviamo le patatine fritte come quando ero piccolo, in omaggio a mio padre. Perché tutto è stato perdonato. Continuo a raccontare la storia con una comunicazione onesta e sincera.
E quando pelo le patate durante lo spettacolo, è come se parlassi con mio padre, con mio nonno e con l’Albania. Mi mette a mio agio sul palco. Ma è stato difficile per me diventare un attore e raccontare questa storia.
La prima volta che abbiamo fatto le prove, ho capito che non ero bravo. L’attore Denis Laujol, che recita con me, ha pensato a un modo per farmi ripartire in caso di difficoltà. Ma poi sono migliorato con il tempo e abbiamo deciso che serviva una drammaturgia.
All’inizio dello spettacolo Denis si relaziona a me come un domatore di leoni. Ma la cosa davvero interessante è che poi sono io a emanciparmi man mano che prosegue lo spettacolo».
‘Fritland’ è stato recitato anche in albanese e in Kosovo. Come è successo?
«Conosco Nicolas Wieërs, il direttore del Balkan Trafik Festival, grazie a un mio spettacolo su un’attivista albanese, Sevdije Ahmeti, autrice di Diario di una donna del Kosovo sulla guerra iniziata nel 1998.
Ogni anno Nicolas sceglie una capitale balcanica per lanciare il Balkan Trafik Festival e la campagna stampa. Nel 2023 è stato in Kosovo e mi ha invitato lì a rappresentare lo spettacolo. È stata una grande opportunità andare a recitare in Kosovo.
È così che poi il direttore del Théâtre de Poche, che era coinvolto nel progetto, mi ha detto: “Puoi farlo in albanese anche qui una volta!” Lo spettacolo è stato realizzato in entrambe le lingue, permettendo agli albanesi appena arrivati a Bruxelles e senza conoscenze di francese di avere accesso a un’opera teatrale».
Come ha reagito la tua famiglia a questo spettacolo?
«Da quando ho lasciato Fritland, per tre anni non ho visto la famiglia. Avevo bisogno di ricostruire la mia vita, di capire cosa significassero per me il Belgio e Bruxelles. Dopo aver toccato il fondo, mi sono rialzato. Ho dovuto creare legami nuovi, avevo avuto un rifiuto della cultura albanese.
Nel 2017, quando mio fratello ha saputo che avrei realizzato uno spettacolo sulla famiglia e sull’Albania, era convinto che volessi essere offensivo e cattivo. Io invece ero certo che sarebbe stato catartico.
Il direttore ci ha dato due anni per creare, ricreare e mettere in scena lo spettacolo. Nel 2019, alla première, c’era tutta la famiglia: mio padre e mia sorella erano morti, ma c’erano mia madre, i miei fratelli e la comunità albanese. È molto raro che un teatro rinomato ospiti un testo che parla dell’Albania o dell’albanesità.
Alla fine tutti piangevano. Questa comunità molto patriarcale, arcaica e orgogliosa non aveva mai fatto introspezione. E davvero, è stato catartico. Mia madre mi ha detto: “Ho visto, ho sentito tutto, bravo!” E anche mio fratello lo ha riconosciuto: “Va bene, ho capito”».
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Oggi il bancone di BarBalcani incontra Fritland in una maniera molto speciale, grazie all’esperienza di Zenel Laci:
«Lo spettacolo è stato un grande successo. Io e Denis prepariamo patatine per tutti alla fine di ogni spettacolo e un giorno il direttore mi ha chiesto: “Perché non c’è una salsa albanese per le patatine?” Pensavo stesse scherzando. Ma l’anno successivo mi ha detto di nuovo: “Dov’è la salsa albanese?”
Alla fine l’abbiamo fatta ed è stata molto apprezzata. Ora abbiamo brevettato la ‘salsa albanese’ e cominceremo a venderla anche a Fritland per vedere se funziona!»
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per la settima tappa di questa stagione.
Un abbraccio e buon cammino!
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