XXXV. Se ti lascio, ti cancello
Le elezioni in Kosovo hanno sancito il trionfo della sinistra nazionalista anti-Serbia. Il rischio è che si chiuda il dialogo con Belgrado mediato dall'UE, ma dimenticare il passato non è un'opzione
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter che dà voce alle storie dai Balcani occidentali nel 30° anniversario dalle guerre nell’ex-Jugoslavia.
Sì, la semi-citazione all’agghiacciante traduzione del titolo del film non è casuale [prova a dare un’occhiata alla versione in inglese della newsletter].
Ma c’è di più.
Come nel film con Kate Winslet e Jim Carrey, anche il Kosovo sta lasciando (da anni) la Serbia e con le elezioni di domenica scorsa (14 febbraio) sta cercando di cancellare il loro rapporto dalla sua storia.
Ma più Pristina si imporrà di dimenticare che il suo futuro è legato al dialogo con Belgrado, più il passato la costringerà a costruire una nuova relazione.
Le elezioni della discordia
Prima di ogni considerazione, partiamo dalla notizia.
Il 14 febbraio 2021 si sono tenute le seste elezioni anticipate in 13 anni per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale della Repubblica del Kosovo.
In poche parole, nessun governo è mai riuscito a completare il mandato quadriennale dal 17 febbraio del 2008, il giorno della dichiarazione di indipendenza unilaterale del Paese dalla Serbia.
Riassunto: il Kosovo vive in un clima di instabilità politica evidente.
Versione estesa: la trovi in un articolo che ti ho preparato su Eunews. Per leggerlo, clicca l’immagine qui sotto:
Mettiamo insieme qualche elemento per capire in quale clima il Kosovo ha affrontato queste elezioni e perché adesso vuole cancellare il rapporto con la Serbia.
Dunque, le precedenti elezioni si erano tenute nemmeno un anno e mezzo prima, il 6 ottobre 2019. E poi vai a lamentarti sempre dell’Italia…
Anche il quel caso [spoiler] aveva vinto il partito di sinistra albanese nazionalista Vetëvendosje (Autodeterminazione).
Ma era stata necessaria un’alleanza con il partito di centro-destra Lega democratica del Kosovo (LDK) per andare al governo.
Il leader di Vetëvendosje, Albin Kurti, fu eletto premier il 3 febbraio del 2020.
Anno infame un po’ per tutti il 2020: dopo 51 giorni la LDK decise di sfiduciarlo.
Il governo passò nelle mani di Avdullah Hoti, sostenuto da una coalizione variopinta. Ci stavano dentro i conservatori liberali, i socialdemocratici, la destra e la Lista Serba (SL), il partito della minoranza serba.
Chiunque, praticamente, pur di arrivare ai 61 seggi necessari per la maggioranza in Parlamento.
E quando si dice chiunque, c’era davvero chiunque.
Anche Etem Arifi, deputato condannato nel 2019 a un anno e tre mesi di carcere per corruzione. Doveva essere ai domiciliari, ma il 3 giugno 2020 era seduto in aula a votare la fiducia.
Risultò decisivo.
Peccato che la Corte Costituzionale se ne sia accorta. Il 21 dicembre ha annullato la validità del voto di fiducia e Hoti è stato costretto alle dimissioni.
Così si è arrivati, di nuovo, a elezioni anticipate.
Un altro paio di elementi vanno a completare il quadro.
Il Kosovo è al momento senza presidente, dopo che il 5 novembre scorso Hashim Thaçi è stato accusato di crimini di guerra dal Tribunale speciale per il Kosovo dell’Aja [lo trovi spiegato più approfonditamente in questo articolo di Eunews].
O meglio, al momento c’è una presidente ad interim (fino alla scadenza del mandato di Thaçi ad aprile), Vjosa Osmani. Che, guarda un po’, due anni fa era alleata di Kurti in qualità di leader della LDK e domenica scorsa come candidata indipendente.
Ma è proprio il leader della sinistra nazionalista Vetëvendosje al centro delle polemiche.
Secondo un verdetto della Corte Costituzionale (che esclude un seggio all’Assemblea a chi è stato condannato in via penale negli ultimi 3 anni), Kurti non era eleggibile.
Il reato è di aver partecipato al lancio di gas lacrimogeni in Parlamento in segno di protesta contro due proposte del governo nel marzo del 2018.
Nazionalisti e minoranze
E allora, cosa è successo in queste tormentate elezioni di San Valentino?
È successo che la sinistra nazionalista di Vetëvendosje non ha solo vinto, ha letteralmente trionfato. Con il 47,85% dei voti ha quasi conquistato la maggioranza assoluta.
Potrebbe quasi governare da sola, senza rischi di colpi di coda degli alleati.
Quasi. Perché c’è sempre quel 3% o poco meno da colmare. E a qualcuno bisognerà pur rivolgersi.
Improbabile ai partiti di centrodestra. Sicuramente non alla Lega democratica del Kosovo (LDK), già responsabile dell’ultima coltellata alla schiena. Che, tra l’altro, al partito non ha nemmeno giovato: dal 24,55% delle ultime elezioni è crollato al 13,08%.
In flessione anche il Partito democratico del Kosovo (PDK) dell’ex-presidente Thaçi, che ha pagato la crisi del capo con un calo dal 21,23% del 2019 al 17,36%.
E poi ci sono tutti gli altri.
Considerando la soglia di sbarramento al 5%, sarebbero veramente pochi. Il partito nazionalista albanese di destra Alleanza per il Futuro del Kosovo (AAK), al 7,4%, e la Lista Serba (SL), al 5,56%.
Ma qui entriamo nel campo delle minoranze in Kosovo. Perché sui 120 seggi parlamentari, 20 sono riservati a loro.
I primi 10 seggi sono divisi in questo modo:
1 alla comunità egiziana (Nuova Iniziativa Democratica del Kosovo, IRDK);
1 alla comunità askhali, gli egiziani-balcanici (Partito Democratico Ashkali del Kosovo, PDAK);
1 alla comunità gorani, il gruppo slavo-musulmano (Partito Unico Gorani, JGP);
2 alla comunità Rom (Iniziativa Rom, RI);
2 alla comunità turca (Partito Democratico Turco del Kosovo, KDTP);
3 alla comunità bosniaca (Coalizione Vakat e Comunità Unita)
Gli altri spettano di diritto alla minoranza serba. E quest’anno, con quel 5,56% apparentemente risicato, Lista Serba ha conquistato tutti i 10 seggi in palio.
[Se vuoi giocare con le infografiche, puoi farlo con quella delle elezioni del 14 febbraio 2021, cliccando sull’immagine qui sotto]
Finita la parte di esposizione dei dati, andiamo finalmente all’analisi.
Partiamo dal fatto che meno di un cittadino kosovaro avente diritto di voto su due si è recato alle urne (affluenza al 47%), su una lista certificata di 1.794.862 elettori (-143 mila rispetto al 2019).
Sulla cartina il colore dominante - come dominante è stata la prestazione elettorale - è il rosso della sinistra nazionalista. Dal rosso chiaro (24%) a un rosso intenso (64%).
Ci sono alcune vistose eccezioni.
La zona centrale, con due roccaforti azzurre del centrodestra PDK (63/72%) e un distretto viola-socialdemocratico NISMA (che però ha fallito nel resto del Paese e rimarrà fuori dal Parlamento).
Poi c’è la zona occidentale, sul confine col Montenegro. Il verde militare della destra nazionalista AAK (47/52%) ha tinto proprio la regione dove il possibile accordo di delimitazione territoriale aveva causato i lacrimogeni in Parlamento nel 2018.
E poi ci sono - individuabilissimi - i territori abitati dalla minoranza serba. Dal grigio (39%) dei distretti centro-meridionali al blu intenso (86%) del confine con la Serbia. Un vero plebiscito per Lista Serba.
«Le elezioni si sono svolte in circostanze particolari a causa della pandemia e della serie di trucchi che Pristina ha usato per ridurre il potere del popolo serbo, cioè Lista Serba. Abbiamo affrontato le loro intenzioni con l’unità».
Questo il commento del leader, Goran Rakić.
Considerate le posizioni della sinistra di Vetëvendosje, è probabile che Lista Serba farà opposizione al nuovo governo, avallata da Belgrado.
C’è da dire che Vetëvendosje non avrà bisogno di grandi coalizioni. Dovrebbe ottenere 55 seggi, con la maggioranza fissata a 61.
Basterà rastrellare voti tra le minoranze non-serbe.
Il problema sono proprio le posizioni di partenza anti-Serbia del nuovo partito che dovrebbe dare stabilità alla scena politica del Kosovo. E qui torniamo al nostro film.
Se ti lascio, ti cancello.
Diplomazia da elefanti
Serbia e Kosovo sono due elefanti che dondolano da 13 anni su una sottile ragnatela diplomatica.
Una ragnatela fatta di rivendicazioni indipendentiste di Pristina e di rifiuto di riconoscerle da parte di Belgrado.
Ma anche di attori internazionali che stanno cercando di portare in salvo i pachidermi funamboli. Primi tra tutti, Unione Europea e Stati Uniti [se ti serve un ripasso, ne abbiamo parlato nella 13ª tappa].
Un passato ingombrante, con una guerra etnica alla fine degli anni Novanta. Una relazione presente complicata da contrasti che non possono essere risolti altro che dal dialogo e dalla diplomazia.
Ecco, diciamo che il primo passo del ‘Che’ kosovaro ha dato uno scossone pericoloso alla ragnatela:
«Il tema del dialogo con la Serbia è al sesto o settimo posto in agenda. Le nostre priorità sono le riforme, la giustizia e il lavoro. Questa vittoria sarà ricordata come il giorno in cui il popolo ha parlato con una sola voce, prendendo il suo destino nelle proprie mani».
Kurti vorrebbe cancellare come un colpo di spugna il passato, il presente e il futuro del rapporto del Kosovo con la Serbia. Vorrebbe chiudere il dialogo.
Ma questa dichiarazione non l’ha presa bene praticamente nessuno.
Bruxelles è già in fibrillazione.
L’eurodeputata tedesca Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/ALE), relatrice sul Kosovo al Parlamento UE, è stata perentoria:
«Il nuovo governo dovrà progredire sulla strada verso l’integrazione europea e dovrà proseguire il dialogo con la Serbia».
Attendista la Commissione UE, che «si aspetta che le nuove autorità di Pristina si impegnino in modo costruttivo», ha dichiarato l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell.
In occasione dell’anniversario dell’indipendenza del Kosovo (17 febbraio) anche il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, si è esposto:
«L’Italia considera l’integrazione di Pristina nelle istituzioni europee un passaggio di primaria importanza per completare la costruzione della comune casa europea. E con pari convinzione continuiamo a sostenere il dialogo tra Pristina e Belgrado facilitato dall’Unione Europea».
Di fondamentale importanza l’intervento di Joe Biden. Il neo-presidente statunitense ha parlato di una «buona collaborazione con un Paese sovrano, indipendente, multietnico e democratico», che può passare solo da un «accordo di normalizzazione dei rapporti con la Serbia, focalizzato sul reciproco riconoscimento».
Con poche sorprese il fronte serbo ha tuonato il j’accuse, attraverso le parole della premier Ana Brnabić:
«La dichiarazione di Kurti è deplorevole e dimostra la scarsa serietà della dirigenza politica a Pristina. Il dialogo è l’unico modo per raggiungere un accordo sulla normalizzazione dei rapporti fra le due parti, per fare progressi e garantire stabilità».
Ma la premier ha fatto anche un’osservazione molto acuta:
«Senza il dialogo, Pristina non ha alcuna reale prospettiva. Più della metà dei Paesi al mondo non ha riconosciuto il cosiddetto Kosovo indipendente».
E ora, proprio dal modo in cui Belgrado ha dimostrato di non volersi far cancellare, possiamo chiudere con qualche previsione politica.
Cosa succederà nei prossimi mesi tra Kosovo e Serbia?
Previsioni a caldo
Questo è il paragrafo su cui ritornare fra qualche tempo per vedere quante e quali previsioni sono state azzeccate. E quante e quali proprio no.
Non è tanto un esercizio di stile o un divertissement giornalistico (o non solo…), ma un modo per non farsi cogliere impreparati da - probabili - scenari futuri, partendo da dati assodati.
Un modo per leggere la realtà politica che ci ritroveremo a commentare.
La prima previsione è che il prossimo governo proverà a forzare ancora la mano a parole, ma poi nei fatti non si sottrarrà al dialogo.
Perché ha tutto da perdere e nulla da guadagnare dal chiudere la porta alla diplomazia.
Se è vero che metà dei Paesi al mondo non riconosce il Kosovo indipendente, Pristina può contare su due sponsor di un certo peso: Stati Uniti e Unione Europea.
La loro posizione è stata chiara: serve stabilizzazione nella regione e il modo per farlo è normalizzare i rapporti con la Serbia.
Dopo le tensioni e gli screzi tra le due potenze sotto l’amministrazione di Donald Trump [se vuoi saperne di più, qui trovi un contributo di BarBalcani sulla newsletter Jefferson - Lettere sull’America], con il democratico Biden è stata ritrovata l’armonia tra Bruxelles e Washington.
Stati Uniti e Unione Europea finalmente remano nella stessa direzione.
L’UE sta poi portando avanti la mediazione per favorire il percorso di riforme interne al Paese (uno degli obiettivi dichiarati del governo) e il suo cammino nella comunità europea. Cioè, un Kosovo indipendente all’interno dell’Unione.
Insomma, voltare le spalle a tutti sarebbe un suicidio politico con tutti i crismi.
È probabile invece che si intensificherà il rapporto con Bruxelles, per portare stabilità al Paese e mettere a segno qualche riforma strutturale sullo Stato di diritto. Da rivendicare alle prossime elezioni.
Per questo motivo non si chiuderà il tavolo di mediazione europeo sui rapporti Serbia-Kosovo, ma non vivrà nemmeno una stagione facilissima.
A livello propagandistico, entrambi i governi manterranno alta la tensione, per non scontentare i rispettivi elettorati.
La Serbia ha il vantaggio di trovarsi di fronte a un interlocutore radicale, su cui scaricare tutte le colpe. Accusare Pristina di esigere l’indipendenza (che Belgrado non vuole concedere), ma intanto di non riconoscere l’autonomia dei serbi nel Paese.
In un Kosovo polarizzato tra una minoranza serba compatta e una maggioranza nazionalista, Belgrado potrà aumentare l’influenza sul nord del Paese e nei distretti dove Lista Serba ha vinto con percentuali bulgare.
La sinistra nazionalista, a sua volta, dovrà cercare ora di stabilire un qualche tipo di rapporto positivo con la minoranza serba e cercare di farla sentire inclusa nel progetto kosovaro.
Perché più Pristina vorrà dimenticare di essere legata a doppio filo con Belgrado, più si ritroverà costretta a ricostruire una nuova relazione.
In che modo, dipende dal nuovo governo.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Da che mondo è mondo, di politica si parla di fronte a un bicchiere di rosso.
Da più di dieci anni il Kosovo sta provando a investire nella produzione vitivinicola. In particolare nel Sud, nella regione di Suharekë.
Un vigneto kosovaro su 5 si trova proprio qui, dove sono circa 650 gli ettari coltivati rispetto ai 3.500 di tutto il Paese.
Prima degli anni Novanta questi numeri andavano moltiplicati per dieci: la guerra ha spazzato via anche le vigne.
L’ambizione è quella di riportare in auge la produzione di uve autoctone, in particolare la varietà vranac, tipica anche del confinante Montenegro [ne abbiamo parlato nella 5ª tappa].
La strada per l’enologia kosovara è ancora lunga, visto che non esistono ancora scuole per sommelier o enologi che portino conoscenza dall’estero.
Ma qualcosa si muove: Germania, Albania, Croazia, Slovenia e Serbia stanno già iniziando ad acquistare i suoi vini.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la trentaseiesima tappa!
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IX. Nel 2020 Alessandro Magno ha conquistato l'Occidente (sulla Macedonia del Nord);
XII. Il canto del cigno jugoslavo (sul Montenegro);
XIII. E tu, ci hai mai messo piede? (sull’integrazione europea dei Balcani occidentali);
XVII. L'arte (marcia) del potere (sull’Albania);
XXX. Figli di un Trump minore (sui sostenitori dell’ex-presidente USA nei Balcani)
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