S4E16. Una lotta queer lunga 40 anni
Nel 1984 il collettivo Magnus organizzava nella Slovenia socialista il primo festival Lgbt della Jugoslavia. Il ricercatore Aleksandar Ranković rivela il ruolo di questi movimenti e la loro eredità
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Ci sono lotte che hanno rivoluzionato un’epoca, un contesto politico specifico, un modo di pensare consolidato. Ad alcune può però capitare di essere messe in pausa per eventi esterni imprevedibili. Come sospese, congelate.
Ma ogni volta lasciano un seme, che porterà anche dopo diversi anni a nuove lotte in nuovi contesti sociali e politici, a rivoluzionare nuovi modi di pensare consolidati.
È il caso di un tema di cui si conosce troppo poco. Le lotte delle comunità LGBTQI+ nei Paesi balcanici nel corso degli ultimi 40 anni e la loro radice comune nei movimenti queer degli anni Ottanta nella Jugoslavia socialista.
Un tema che, nonostante l’apparenza, è estremamente vicino e attuale. Come dimostrano i chiari richiami nelle lotte presenti a quel passato così sorprendente di rivendicazioni dei diritti e dello spazio queer in una struttura statale socialista.
A tessere le fila di questo discorso un po’ dimenticato negli strati dell’ingombrante storia recente della regione è Aleksandar Ranković, dottorando presso il Dipartimento di Storia Contemporanea dell’Università di Vienna, che a BarBalcani riporta un po’ di ordine sull’attivismo queer tra gli anni Ottanta e Novanta in Jugoslavia e sulla sua eredità nelle lotte LGBTQI+ nei Paesi ex-jugoslavi.
Per scoprire quali semi ha lasciato quel 1984 di stravolgimenti culturali e sociali e su quali fondamenta si può costruire una società più equa, giusta e priva di discriminazioni. In cui ognuno può amare liberamente.
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Come tutto è iniziato
Quando possiamo far risalire l’origine dei movimenti queer nella regione?
«Se parliamo di Jugoslavia, la storia racconta che tutto iniziò nel 1984, con la nascita del gruppo Magnus a Lubiana, nella Repubblica socialista di Slovenia. Si chiamava “sezione per la socializzazione dell’omosessualità”.
Magnus era principalmente un movimento contro-culturale, che seguiva la classica narrativa dei movimenti di liberazione omosessuale: sconvolgere le concezioni normative della sessualità, sensibilizzare il pubblico, non nascondersi o conformarsi.
Il primo festival, Magnus Festival, si svolse nell’aprile del 1984 con il titolo ‘Omosessualità e cultura’. Fu un evento senza precedenti, unico in tutta l’Europa orientale. Una cosa del genere non era assolutamente possibile nell’Unione Sovietica o in Romania, per esempio.
Le specificità del socialismo jugoslavo permisero agli attivisti LGBT di comparire nei luoghi della cultura. È stato questo l’inizio dei movimenti queer contemporanei nella regione».
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Com’era il rapporto con le autorità nella Jugoslavia socialista?
«Se guardiamo a questo festival e ad altre attività culturali, la Jugoslavia era molto liberale. C’era un atteggiamento chiaramente diverso nei confronti della censura rispetto all’Unione Sovietica.
Nel 1977 l’omosessualità fu depenalizzata nelle Repubbliche Socialiste di Slovenia, Croazia e Montenegro e nella Provincia Autonoma di Vojvodina, mentre rimase criminalizzata in Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia e nella Provincia Autonoma del Kosovo. Tuttavia, anche lì l’atteggiamento cambiò, con una riduzione delle persecuzioni.
Una delle prime questioni da considerare è proprio la criminalizzazione dell’omosessualità e quanto gli uomini (perché l’omosessualità femminile non era criminalizzata) fossero effettivamente perseguitati dallo Stato.
Lo storico croato Franko Dota ha scritto il primo studio sull’omosessualità nella Croazia socialista, dimostrando che circa 1.500 persone furono condannate per omosessualità - definita “fornicazione innaturale” - prima della depenalizzazione. Un dato relativamente basso, se confrontato con quello di altri Stati europei dell’epoca. E se guardiamo al quadro generale, le pene variavano da pochi giorni a sei mesi».
Eppure questa non sembra davvero tolleranza.
«La medaglia ha chiaramente due facce. Il fatto che Magnus Festival si svolgesse ogni anno e si istituzionalizzò - come una sorta di punto di riferimento nel discorso jugoslavo sull’attivismo gay e lesbico - non significa che le esperienze individuali non potessero essere orribili.
Nelle stazioni di polizia c’erano “liste rosa” per identificare rapidamente le persone omosessuali, nella vita di tutti i giorni la polizia pensava che avessero maggiori probabilità di essere criminali.
Per quanto riguarda Magnus Festival, nel 1987 avvenne un grosso incidente, quando una serie di articoli attaccarono le persone omosessuali a causa della crisi dell’AIDS. Fu un fattore importante che cambiò l’atteggiamento nei confronti dell’omosessualità.
Questi articoli suggerivano che le persone omosessuali a Lubiana avrebbero organizzato un congresso internazionale, portando a una diffusione senza controllo dell’HIV in Slovenia e in tutta la Jugoslavia, con un impatto negativo sia sul turismo sia sull’economia.
Era un’argomentazione assurda, ma dimostrava l’omofobia sviluppatasi una volta che questo festival si istituzionalizzò».
Come si spiega questo evento?
«L’apertura del festival era prevista per il 25 maggio, in coincidenza sia con l’AIDS Candlelight Memorial sia con il Dan Mladosti, una delle principali festività federali in Jugoslavia.
Le autorità federali percepirono l’evento come una provocazione. La pressione aumentò al punto che nel 1987 Magnus Festival non fu organizzato. Si tenne solo una piccola mostra nel Centro culturale studentesco di Lubiana.
Credo che questa storia dimostri che - in un ambiente omofobo - i movimenti LGBT erano tollerati e ignorati, a condizione che organizzassero il loro attivismo entro certi limiti imposti dalle autorità statali, perché non rappresentavano una reale sfida alle istituzioni federali.
In ogni caso venivano analizzati dai servizi di sicurezza dello Stato. È stato molto difficile fare ricerche, perché l’archivio dell’Amministrazione per la Sicurezza di Stato slovena - così come in tutti i Paesi dell’ex-Jugoslavia - fu in gran parte distrutto negli anni Novanta. Non è certo se si trattasse di una sorveglianza operativa e se c’erano agenti a pedinarli, ma sicuramente erano inclusi nella securizzazione del socialismo.
Prima del 1987 Magnus Festival si concentrava soprattutto sugli aspetti culturali dell’omosessualità, come l’educazione e l’arte. Presentava una visione positiva della sessualità. Ma quello che successe nel 1987 rinvigorì l’aspetto politico di questo attivismo, che era sempre stato presente.
Magnus e il gruppo lesbico LL si erano uniti a diversi gruppi di attivisti - per la pace, ecologisti, gruppi antimilitaristi - che negli anni Ottanta si battevano per una società più inclusiva e democratica. Anche se “democrazia” a quel tempo in Jugoslavia significava probabilmente “socialismo democratico”.
C’era un vero interesse per riformare il socialismo jugoslavo, non erano dissidenti clandestini. Volevano inserirsi nello Stato, nelle istituzioni e nella società socialista in modo critico. Per esempio volevano una clausola di non-discriminazione nella Costituzione jugoslava, per diventare membri a pieno titolo della società autogestita in Jugoslavia. Come persone omosessuali».
Dall’antimilitarismo alla guerra civile
Cosa è emerso dai tuoi studi sulla partecipazione dei movimenti queer alla società jugoslava?
«Nella mia tesi mi sono concentrato principalmente sulle connessioni tra Magnus e LL e l’antimilitarismo per riformare l’esercito popolare jugoslavo.
Negli anni Ottanta c’era un dibattito sul servizio militare obbligatorio nell’Armata Popolare Jugoslava e sul servizio civile come possibile alternativa. C’era chi era contrario alla militarizzazione della società e alle classiche narrazioni sul corpo maschile.
Ancora più interessante è il fatto che a metà degli anni Ottanta l’Armata Popolare Jugoslava introdusse un periodo di prova di due anni per le donne, con piani per estenderlo: l’idea era che entrassero a far parte dell’architettura socialista della difesa. Ma quando i piani diventarono di interesse pubblico, la questione coinvolse anche il femminismo jugoslavo e le sue diverse visioni delle posizioni ufficiali sull’emancipazione femminile.
Da un lato questo servizio militare avrebbe comportato una maggiore integrazione nelle strutture dello Stato socialista. Ma dall’altro lato avrebbe rappresentato un ulteriore fardello per le donne, non solo all’interno della famiglia e come lavoratrici, ma anche come difenditrici del socialismo. Le donne lesbiche occuparono questo spazio e si opposero alla militarizzazione delle donne nella società jugoslava».
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Qual è stato l’impatto delle guerre negli anni Novanta?
«In generale il crollo della Jugoslavia impedì all’attivismo organizzato di Lubiana, Zagabria e Belgrado di entrare a far parte del socialismo jugoslavo, anche se le organizzazioni rimasero attive per tutti gli anni Novanta.
Si verificarono cambiamenti radicali nel modo in cui i membri dei movimenti LGBT interpretarono la situazione, considerato che non erano solo attivisti ma anche cittadini delle rispettive Repubbliche. Prima facevano parte della società jugoslava e poi vissero la dissoluzione e la guerra da diverse angolazioni.
All’inizio c’era la speranza che qualcosa stesse cambiando. Nelle nuove Repubbliche indipendenti - ovviamente nel 1990 non si poteva prevedere la guerra - questi movimenti avrebbero avuto la possibilità di influenzare la stesura delle nuove Costituzioni nazionali e garantire un posto alle persone omosessuali nei nuovi Stati. C’erano grandi speranze per la democrazia, le leggi anti-discriminazione e i diritti LGBT.
Quando ci si rese conto di ciò che stava accadendo, molti attivisti rimasero delusi, perché erano tornate idee conservatrici sulla famiglia e sulla sessualità, insieme all’iper-militarizzazione della società e alla normalizzazione della violenza. Le persone LGBT erano ancora escluse.
Tutti i conflitti ebbero un riflesso anche nei gruppi stessi. All’inizio degli anni Novanta la rivista gay e lesbica slovena Revolver pubblicò alcuni articoli anti-militaristi in serbo di un’autrice di Belgrado. All’interno dei movimenti LGBT a Lubiana si aprì un grande dibattito sulla necessità o meno di dare spazio “agli aggressori”, mentre la Slovenia era sotto attacco.
E con il protrarsi della guerra la situazione continuò a complicarsi. C’era una sorta di gerarchia dei bisogni, soprattutto in Serbia. Donne e uomini omosessuali si chiedevano: “Quanto possiamo parlare di amore omosessuale, quando il nostro stesso Paese sta organizzando un genocidio in Bosnia ed Erzegovina?”
La natura radicale degli eventi cambiò completamente il panorama politico di questi attivisti. E credo che questo sia anche il motivo per cui l’attivismo LGBT degli anni Ottanta si è perso nella memoria».
L’eredità
Possiamo ancora rintracciare l’eredità dell’attivismo queer dei tempi jugoslavi nella lotta LGBTQI+ di oggi nei Balcani?
«L’eredità dipende da dove ci si trova. Ovviamente il contesto generale comune è scomparso, la stessa Jugoslavia è scomparsa. Non direi che c’è una vera connessione con quei tempi.
Ma a volte è ancora possibile vedere la bandiera jugoslava sventolare ai Pride, soprattutto a Zagabria e Belgrado. Il Pride di Zagabria del 2006 era intitolato Internacionala [Internazionale, ndr] e il suo simbolo principale era la Stella Rossa.
Può sembrare un senso di jugo-nostalgia tra gli attivisti, un’argomentazione che viene spesso usata per screditare questi riferimenti agli eventi Pride. Ma penso che i simboli e i riferimenti agli anni Ottanta siano in realtà un modo per ripensare i diritti LGBT e le comunità queer in generale».
In che termini?
«La narrazione emersa negli anni Duemila è che le autorità nazionali devono implementare il quadro tecnico nel processo di adesione all’Ue - cioè devono introdurre i diritti - e poi, alla fine del processo, tutti saranno perfettamente protetti e accettati. Ma l’esperienza quotidiana dimostra che, anche se ci sono i diritti, la situazione delle persone omosessuali come individui non è cambiata.
Credo che la comparsa dei simboli jugoslavi agli eventi Pride indichi che le politiche queer possono essere più radicali, perché collegate a questioni sociali di classe, autonomia politica e sviluppi globali più radicali.
Un modo per esprimere che “non sosteniamo acriticamente questo consenso liberale sui diritti delle minoranze, perché siamo più di un semplice gruppo minoritario e possiamo avere un impatto su vari campi”.
Tutto ciò solleva interrogativi su cosa significhi essere una persona queer in una società iper-autoritaria e proto-fascista, come nel caso della Serbia, dove c’è una prima ministra lesbica ma nessuna protezione per la comunità LGBTQI+.
La polizia può venire nel tuo appartamento, picchiarti e andarsene, senza alcuna responsabilità politica. E allo stesso tempo la prima ministra non si degnerà nemmeno di commentare le violenze, anche se ha una compagna e un figlio. Questo è il paradosso totale del modello di democratizzazione».
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Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Parlando con il nostro ospite al bancone di BarBalcani, ci serve qualcosa per tenere alto il morale, prima di riprendere il viaggio.
«Io sceglierei il caffè turco, che è sempre ottimo per un serrato dibattito politico», consiglia Ranković.
Ed è meglio non dimenticare che il caffè nei Balcani va bevuto lentamente. Non solo per una questione filosofica ma - soprattutto - pratica. Fidatevi di noi!
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Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per la diciassettesima tappa di questa stagione.
Un abbraccio e buon cammino!
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