S5E13. L'Egitto dimenticato nella storia jugoslava
Durante la Seconda Guerra Mondiale oltre 20 mila dalmati furono evacuati nella penisola del Sinai. Il campo profughi di El Shatt divenne il primo esperimento della futura federazione socialista
Caro lettore, cara lettrice,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter dai confini sfumati.
Alcune storie hanno dei tratti non proprio definiti. Si pensa di conoscerle a fondo, di saperne distinguere ogni passaggio. Ma poi, non appena ci si chiede “come è iniziata?”, le certezze vacillano.
È così la storia della Jugoslavia, emersa con la sua architettura istituzionale di ‘Repubblica Socialista Federale’ al termine della Seconda Guerra Mondiale e dei due anni di attività anti-fascista, anti-nazista e anti-monarchica dei partigiani di Josip ‘Tito’ Broz.
Se si vuole però rintracciare la prima bozza di quell’esperimento politico, bisogna tornare indietro, al dicembre del 1943. Il luogo? Ancora più sorprendente.
In mezzo alla sabbia del deserto del Sinai. Nel campo rifugiati di El Shatt, in Egitto.
BarBalcani è una newsletter di The New Union Post. Il tuo sostegno è essenziale per garantire che l’intero progetto editoriale continui a produrre contenuti originali, rimanendo gratuito e accessibile a tutti.
Dalla Dalmazia all’Egitto
Questa storia inizia l’8 settembre 1943, con la capitolazione dell’Italia fascista di Benito Mussolini.
Quando fu annunciato l’armistizio, la costa dalmata e le isole dell’Adriatico vennero ben presto liberate dall’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia di Tito. Le guarnigioni italiane furono disarmate e la città di Spalato liberata il 10 settembre.
Molti dalmati si unirono all’esercito partigiano, ma fu subito chiaro che la Germania nazista era pronta a riprendere il controllo dei territori persi dall’alleato fascista.
Prima dell’inizio dell’invasione fu così deciso di evacuare circa 40 mila persone, principalmente donne, bambini e anziani.
Leggi anche: S4E8. È il caso che tu sappia chi è Valter
Prima furono inviati a Lissa (Vis), l’isola adriatica dove si trovava il quartier generale dei partigiani comunisti e che serviva come base per le forze britanniche. In seguito fu raggiunto un accordo per trasferire oltre 10 mila profughi nell’Italia meridionale controllata dai britannici, tra Bari e Taranto.
I restanti 26 mila sarebbero invece stati trasferiti nel Nord Africa, anch’essa controllata dagli Alleati. Più precisamente in Egitto, nella penisola del Sinai.
Attraverso negoziati tra l’Alto Comando britannico e il Comitato Nazionale per la Liberazione della Jugoslavia fu deciso che i partigiani titini avrebbero avuto la piena autorità nella gestione dei campi - sotto la supervisione degli Alleati - senza consentire l’accesso ai rappresentanti dell’Esercito jugoslavo in patria (di stampo monarchico-conservatore e anticomunista) di Draža Mihailović.
Nel dicembre del 1943 iniziò l’avventura dei dalmati in Egitto. Il primo esperimento dell’utopia jugoslava socialista, in pieno deserto.
Un’utopia lontana dall’Europa
La prima domanda che ci si può fare quando si parla del campo profughi jugoslavo di El Shatt è: “Perché proprio lì?” C’era davvero bisogno di trasferire oltre 20 mila persone in un luogo distante più di 2 mila chilometri e completamente diverso, a partire dal clima?
Da un punto strettamente logistico, sì, per Londra era la soluzione più ottimale. Solo un anno prima gli Alleati avevano sconfitto le forze dell’Asse nella battaglia di El Alamein, che aveva spalancato le porte per la riconquista di tutto il Nord Africa.
Vicino al Canale di Suez si trovava un ex-campo dell’esercito britannico, El Shatt, che era provvisto di tute le infrastrutture per accogliere i rifugiati.
Sul continente europeo, invece, l’unico avamposto stabile era l’Italia meridionale - dove furono ospitati 10 mila dalmati - ma nell’autunno del 1943 era in corso la risalita della penisola da parte degli Alleati, che richiedeva la piena mobilitazione logistica per fronteggiare l’esercito tedesco.
Leggi anche: S4E4. Jugoeuropa
E poi c’è da tenere in considerazione la questione ideologica.
Nonostante i partigiani titini furono riconosciuti come un movimento di resistenza alleato nella lotta contro la Germania nazista nella penisola balcanica, il primo ministro britannico Winston Churchill non voleva lasciare spazio all’avanzata del comunismo nel futuro assetto post-bellico europeo.
Ecco perché i due campi jugoslavi rivali - quello comunista e quello monarchico, entrambi nemici della Germania - furono tenuti entrambi sotto attenta osservazione, anche in Egitto.
Da una parte del Canale di Suez era basata l’aviazione del Regio Esercito Jugoslavo. Dall’altra, a El Shatt, Tito voleva dimostrare agli Alleati che era possibile realizzare una società comunista dal volto umano.
Nei fatti, insomma, El Shatt non era solo un campo profughi. Nella mente di Tito doveva rappresentare la prima bozza della futura Jugoslavia socialista.
Come in ogni utopia, a El Shatt si iniziò con la messa in pratica degli ideali fondanti della nuova società. Che per il socialismo jugoslavo erano quelli di uguaglianza e solidarietà.
Nonostante il caldo estremo di giorno e il freddo gelido di notte, le malattie intestinali e tutte le privazioni del deserto, le promesse di istruzione ed emancipazione (anche di genere) ebbero grande presa sui rifugiati dalmati, in stragrande maggioranza di bassa estrazione sociale.
Ciascuna famiglia fu alloggiata in una propria tenda militare. Ben presto furono create scuole, laboratori artigianali, giornali e i più svariati corsi per il tempo libero - dalla pittura al coro - oltre a spettacoli, balletti e partite di calcio.
Senza dimenticare un aspetto fondamentale di El Shatt, che poi sarebbe stato ripreso anche in patria: la libertà religiosa non era bandita. Al contrario, l’ultimo direttore del campo fu proprio un sacerdote cattolico.
Partigiani e sacerdoti lavorarono tutto il tempo fianco a fianco per garantire la migliore convivenza dei profughi dalmati, attratti dagli ideali socialisti ma ancorati alla propria tradizione cattolica.
L’esperienza a El Shatt durò un anno, ma per molti anche tre. Con le vittorie dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, i profughi cominciarono a tornare in Dalmazia. Ma molto lentamente.
Da una parte le navi necessarie al rimpatrio erano ancora requisite per scopi militari. Dall’altra, ancora una volta, fu decisiva la volontà di Churchill.
Al termine della guerra il primo ministro britannico si oppose al rientro dei profughi dalmati prima dello svolgimento delle elezioni parlamentari in Jugoslavia nel novembre 1945, temendo un voto a stragrande maggioranza comunista (che ci fu lo stesso, per diverse altre ragioni).
Fu così che la maggior parte degli oltre 20 mila profughi dalmati fecero ritorno nelle proprie case solo un anno dopo la fine della guerra, nel 1946.
Leggi anche: S4E17. Sombreri balcanici
La loro storia rimase nella memoria collettiva dei paesi e delle città della costa dalmata per decenni, ma fu completamente sradicata a partire dagli anni Ottanta.
Con l’emergere delle tensioni etniche - che avrebbero portato alle guerre degli anni Novanta - ogni testimonianza di unità e solidarietà del progetto socialista divenne il bersaglio principale dei nazionalisti.
Dopo circa 30 anni di oblio, l’esperienza jugoslava di El Shatt è tornata a comparire in diverse iniziative culturali in Croazia.
Dal libro di Branko Radonić El Shatt - Dalmatinci u pustinji (‘Dalmati nel deserto’) alla graphic novel di Helena Klakočar El Shatt - Fragmenti, fino all’album musicale di Vladimir e Kalafat El Shatt e il film di Ivan Ramljak El Shatt - nacrt za utopiju (‘Un progetto di utopia’).
Leggi anche: S3E9. La leggenda degli Spomenik fraterni
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Oggi al bancone di BarBalcani assaggiamo la smokvovača, un distillato particolarmente popolare in Dalmazia, ricavato a partire dai fichi.
La smokvovača appartiene alla famiglia delle rakije, una categoria di alcolici ottenuti attraverso la fermentazione e distillazione di frutta, oppure dall’aggiunta di aromi naturali alla base di uva o prugne fermentate e distillate.
Si tratta di una delle varietà di rakija più dolci, ben nota nelle regioni costiere della Croazia dove gli alberi di fico fanno parte del paesaggio al pari delle onde dell’Adriatico.
Leggi anche: S4E13. Il gastronazionalismo non sa di niente
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per la quattordicesima tappa.
Un abbraccio e buon cammino!
Dietro un prodotto originale c’è molto lavoro nascosto. Solo con il tuo supporto The New Union Post potrà sviluppare nuove idee, articoli e interviste e collaborazioni, anche all’interno della newsletter BarBalcani.
Ogni secondo mercoledì del mese riceverai un articolo mensile sulle guerre nell’ex-Jugoslavia, per ripercorrere cosa stava accadendo 30 anni fa nei Balcani.
Puoi ascoltare il podcast Le guerre in Jugoslavia ogni mese su Spotify.
Scopri Pomegranates, la newsletter di ‘The New Union Post’ sul percorso europeo di Armenia e Georgia
Se non vuoi più ricevere qualcuna tra le newsletter di BarBalcani, puoi gestire le tue preferenze su Account settings. Non c’è più bisogno di disiscriversi da tutto, scegli i prodotti che preferisci!