S5E5. Quando la Jugoslavia era il paradiso del naturismo
Tra gli anni '70 e '80 la Federazione era tra le mete più gettonate per il turismo naturista, grazie a una politica di tolleranza legata allo sviluppo economico e dai tratti unici sulla scena europea
Caro lettore, cara lettrice,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter dai confini sfumati.
C’era una volta il paradiso del naturismo. Ed era in Jugoslavia, una federazione di Repubbliche socialiste.
Non esattamente ciò che ci si aspetterebbe nello stereotipo occidentale di un Paese moralizzatore, illiberale e, sebbene non sovietico, da non prendere certo a modello.
Ecco che il naturismo - quella pratica che promuove un contatto meno artificioso dell’essere umano con l’ambiente naturale anche attraverso la normalizzazione della nudità - può diventare la chiave di volta per capire meglio un Paese che ha rappresentato per decenni un’eccezione difficilmente inquadrabile nel binomio liberalismo-comunismo.
Perché, mentre in Italia veniva presentata solo nel 1993 una legge (mai approvata) per regolamentare il naturismo, sulle coste jugoslave già da vent’anni si praticava con grande libertà questa pratica tollerata dalle autorità pubbliche della Federazione.
Alle origini del naturismo jugoslavo
Se si vuole rintracciare la radice del naturismo jugoslavo bisogna andare indietro al periodo tra le due guerre mondiali, quando sulla costa adriatica iniziarono ad arrivare gruppi di naturisti tedeschi e austriaci alla ricerca di natura incontaminata e luoghi di vacanza appartati.
Non a caso il fenomeno naturista, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, è stato comunemente indicato con l’acronimo FKK, dal tedesco Freikörperkultur (letteralmente “cultura del corpo libero”).
Attorno alla metà degli anni Cinquanta il naturista tedesco Rudolf Halbig visitò la piccola isola di Koversada in Croazia, a sud del paese di Vrsar (Orsera). Nell’aprile del 1961 fu firmato un accordo tra l’amministrazione locale e l’agenzia viaggi di Halbig che prevedeva di portare sull’isola appartata fino a 400 turisti tedeschi all’anno su pacchetti di due settimane, permettendo loro di praticare il naturismo.
Di fronte all’aumento vertiginoso della richiesta, il piccolo campeggio sull’isola di Koversada non bastò più. E così fu creato sulla terraferma un resort con bungalow, ristoranti e impianti sportivi, diventando un modello per gli insediamenti naturisti lungo tutta la costa istriana e dalmata.
Tra gli anni Settanta e Ottanta solo la Francia teneva testa alla Jugoslavia sul fronte del turismo naturista: se la prima poteva ospitare più turisti grazie alla capacità maggiore dei suoi centri, la seconda aveva il maggior numero di campi, hotel e spiagge naturiste d’Europa.
Al suo picco Koversada poteva ospitare 10 mila persone, ed era solo una delle località costiere che attiravano circa un milione di naturisti all’anno. Si stima che alla fine degli anni Settanta la Federazione contasse 25 spiagge naturiste consolidate, 34 designate e 60 non regolamentate ma comunque tollerate dalle autorità.
Nell’agosto del 1972 il 13° Congresso Federazione Naturista Internazionale si svolse proprio a Koversada. Una prima volta assoluta in un Paese non del blocco occidentale, che vide la partecipazione di circa 400 persone alla cerimonia di apertura.
La Chiesa Cattolica fu l’unica istituzione veramente contraria e, in quanto ben radicata in Croazia, cercò addirittura di impedire lo svolgimento del Congresso nel 1972.
Diversamente i funzionari della Repubblica Socialista di Croazia e della Lega dei Comunisti di Croazia si mostrarono tolleranti e favorirono l’evento a Koversada, partecipando - in modo comunque limitato - con discorsi inaugurali.
La direzione della Federazione Naturista Internazionale rispose in modo entusiasta all’accoglienza riservata dalla Federazione: «La Jugoslavia è un Paese democratico, che nella sua concezione della libertà umana ha anticipato di mezzo secolo gli altri».
Perché proprio in Jugoslavia
L’accettazione del turismo naturista è stato uno dei fattori più evidenti della diversità del socialismo jugoslavo dal blocco sovietico, oltre che da quello occidentale.
La Jugoslavia vedeva nel naturismo non solo un’opportunità di profitto economico, ma anche una leva di promozione dell’immagine di sistema aperto e non allineato a nessuno dei due blocchi egemoni.
Per esempio, non rinnegando un modello sociale legato alla morale pubblica, la nudità - in particolare quella femminile - non era demonizzata come nell’Unione Sovietica, ma dalla fine degli anni Sessanta penetrò attraverso le contaminazioni occidentali soprattutto dell’industria cinematografica e discografica.
Allo stesso tempo lo sviluppo del naturismo in Jugoslavia si intersecò con la richiesta di una certa parte della società occidentale di una maggiore libertà nella sfera del vivere la nudità, che in Paesi come l’Italia non era affatto garantita.
Fino alla fine della Guerra Fredda i turisti italiani che volevano praticare il naturismo dovevano attraversare l’Adriatico per scampare alla pressione della Chiesa Cattolica, che aveva condizionato in modo quasi totalizzante il dibattito pubblico e politico.
Ecco perché il naturismo ebbe un così grande sviluppo in Jugoslavia, grazie all’intersezione di diversi fattori concomitanti. La tolleranza sociale e politica verso la nudità (entro certi limiti), le imprese turistiche locali in cerca di guadagno, la spinta delle agenzie di viaggio occidentali, i naturisti (soprattutto tedeschi e austriaci) alla ricerca di coste incontaminate e clima mediterraneo.
A Koversada - e non solo - c’era tutto questo.
A parlare di Koversada e naturismo lungo le coste croate erano anche i giornalisti occidentali, che cercavano di capire le implicazioni e le ragioni del successo di questa tipologia di turismo. Come dimostra l’articolo New Tourism Is Uncovered In Yugoslavia pubblicato sul New York Times l’11 agosto 1977:
«Il flusso [turistico, ndr] è diventato così grande che in qualsiasi momento dell’estate in Jugoslavia ci sono quattro milioni di turisti stranieri. La maggior parte di loro, e almeno altrettanti turisti jugoslavi, si concentra sulla costa adriatica […] Con la consapevolezza di aver investito troppo nell'industria turistica, le imprese jugoslave hanno cercato di riempire gli alberghi e i resort con categorie speciali di turisti, tra cui i nudisti».
Tuttavia,
«il naturista moderno è sempre più riluttante a sottoporsi all’isolamento. Inoltre, le condizioni sono ormai così affollate all’interno e intorno alle più popolari località balneari jugoslave che la separazione totale è impraticabile».
E a proposito della visione del nudo nella società jugoslava, il New York Times osservava:
«Il Paese è tradizionalmente conservatore nelle abitudini sociali e l’ideologia purista del marxismo-leninismo tende a rafforzare il conservatorismo […] La prostituzione è poco visibile e gli spettacoli di strip-tease e simili sono limitati a pochi alberghi turistici. D’altra parte, se il nudismo viene separato dalle connotazioni sessuali, può essere visto come coerente con la visione “mens sana in un corpo sano” del buon comunista. Inoltre, il nudismo è una buona fonte di valuta estera».
Anche se filtrato dalla lente occidentale, che spesso assimilava in maniera molto grossolana il socialismo jugoslavo con il comunismo sovietico, il New York Times presentava diversi spunti di osservazione validi.
La tolleranza verso una pratica di libertà quasi assoluta in una società comunque attenta alla morale pubblica, l’aspirazione sociale al benessere fisico e mentale, e lo sviluppo economico anche grazie al turismo naturista.
Uno sviluppo che non conobbe ostacoli fino alla fine della storia della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, quando, in maniera traumatica, le sue componenti nazionali presero strade diverse. Anche sul piano della tolleranza verso il naturismo nei mari, nei fiumi e nei laghi della penisola balcanica.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Sulle coste istriane, dove i turisti naturisti sono ancora ben accetti, il bancone di BarBalcani offre biska, un distillato tradizionale aromatizzato al vischio.
La base è solitamente la komovica, distillato di vinaccia, ma può anche essere la jabukovača, distillato di mele. Alla base si aggiungono foglie di vischio bianco accuratamente raccolte dagli alberi di mele e lasciate macerare per mesi, prima della distillazione finale.
La ricetta originale risale a circa duemila anni fa ed è attribuita ai druidi delle popolazioni celtiche che popolavano la penisola istriana. Bisca è il nome locale del vischio bianco (Viscum album), la cui forza curativa era già nota nell’antichità, dai greci ai Celti fino ai romani.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per la sesta tappa di questa stagione.
Un abbraccio e buon cammino!
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