S2E4. C'era una volta una vaccinazione riuscita
Nel 1972 l'epidemia di vaiolo in Jugoslavia fu debellata in dieci giorni. Quasi 50 anni dopo, i Paesi balcanici stanno mostrando serie difficoltà nella campagna anti-COVID
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter dai confini sfumati.
Non è stata un’estate facile, tra la crisi umanitaria in Afghanistan e gli incendi che hanno devastato l’Europa sud-orientale.
Nonostante sia rimasta un po’ sullo sfondo, un’altra emergenza è ancora ben presente. Quella che viviamo da un anno e mezzo: la pandemia di COVID-19.
A qualche mese dall’ultima analisi presentata da BarBalcani, è tempo di scoprire come se la stanno cavando i Paesi dei Balcani Occidentali con la campagna di vaccinazione.
L’unico vero modo per uscire da questa emergenza.
Lo ha dimostrato un caso di epidemia del recente passato europeo, che ebbe come epicentro proprio la Jugoslavia.
Combattere il vaiolo in 10 giorni
14 marzo 1972.
In Jugoslavia scoppia un’epidemia.
«Ciò che il microscopio elettronico ha rivelato durante la notte non ha lasciato dubbi. Le strutture cellulari a forma di mattone, le stesse sugli otto campioni della stessa regione del Kosovo… non poteva essere una coincidenza. Si trattava di vaiolo».
A ricordarlo è la dottoressa Ana Gligić, ex-direttrice di laboratorio presso il Torlak Institute di Belgrado, specializzata in virologia.
Vaiolo. Malattia infettiva causata da un virus, che si trasmette per via aerea. Con un tasso di letalità del 30/35%.
La prima malattia eradicata nella storia dell’umanità (nel 1980), dopo essere stata la causa di morte per oltre 300 milioni di persone in tutto il mondo nel 20° secolo.
Nella penisola balcanica e in Europa, l’ultimo caso risale al 1930.
Ma nella primavera del ‘72 le autorità jugoslave devono riaffrontare una crisi sanitaria ormai quasi dimenticata, con pochissimo tempo a disposizione.
Focolai sono attivi a Belgrado, in Kosovo, in Vojvodina, nel Sangiaccato di Novi Pazar, nel nord del Montenegro e anche in Slovenia.
Secondo la versione ufficiale, il paziente zero è il kosovaro Ibrahim Hoti. Partito per il pellegrinaggio alla Mecca, tornando a casa in autobus si ferma a Baghdad. Lì contrae il virus da un mercante infetto.
Il vaiolo è riapparso recentemente in Medio Oriente e, su raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia ha permesso solo i viaggi aerei verso i luoghi santi in Arabia.
Il 15 febbraio torna nel suo villaggio, Danjane, dove diffonde il virus tra i parenti e altre persone solamente incrociate.
Come Latif Mumdžić, insegnate ventinovenne di Tutin, una cittadina vicino a Novi Pazar (Serbia). L’incontro con Hoti è stato casuale su un autobus in Kosovo.
Mumdžić si ammala il 3 marzo. I sintomi sono quelli del vaiolo: mal di schiena, mal di stomaco, vomito, gola infiammata e poi macchie rosse sulla pelle. Dall’ospedale di Novi Pazar viene trasferito a Belgrado.
Muore il 10 marzo, dopo aver contagiato una quarantina di persone. La causa della morte non viene identificata subito, perché la famiglia si rifiuta di sottoporlo all’autopsia.
Quando anche il fratello sviluppa gli stessi sintomi, i medici si rendono conto che si tratta di vaiolo. Il Torlak Institute lo certifica.
La macchina jugoslava si mette in moto.
La risposta è drastica e basata su due campagne a tappeto: quella di vaccinazione e quella di informazione.
In tre giorni viene costituita un’unità di crisi.
Inizia subito la vaccinazione degli abitanti dei comuni del Kosovo occidentale, mentre il villaggio di Danjane viene messo in quarantena. Il 18 marzo anche il personale medico di Belgrado viene immunizzato.
Una settimana più tardi viene revocato l’embargo sulle informazioni, che era stato imposto per non compromettere la stagione turistica in Dalmazia e per non rischiare tensioni sociali derivanti dal rischio che i kosovari fossero percepiti come “untori”.
Alla popolazione viene spiegato nei dettagli come comportarsi.
Circa 16 mila persone vengono messe in quarantena. Intanto viene attivata la logistica per immunizzare i dipendenti dei settori a rischio: alberghi e ristoranti, trasporti, polizia.
A questo punto può iniziare la vaccinazione sistematica della popolazione jugoslava.
La campagna d’informazione crea fiducia nel sistema: le persone si accalcano per essere vaccinate.
Su una popolazione di 22 milioni di jugoslavi, 18 milioni vengono vaccinati. In soli dieci giorni, dal 20 al 30 marzo.
L’epidemia viene portata sotto controllo in tempi record e salva migliaia di vite: i decessi registrati sono 37.
La polizia e l’esercito controllano i certificati di vaccinazione degli autisti in entrata e in uscita dalle città e sorvegliano le stazioni.
Un mese più tardi, il 30 aprile, le autorità jugoslave proclamano la fine dell’epidemia.
50 anni dopo
Da quel 30 aprile 1972 è passato quasi mezzo secolo. Ma di epidemia - anzi, di pandemia - stiamo ancora parlando.
Non più di vaiolo, ma di COVID-19.
Si tratta di una malattia infettiva, causata dal virus SARS-CoV-2 della famiglia dei Coronavirus.
Dal 31 dicembre 2019 - giorno della prima segnalazione a Wuhan (Cina) - sono stati registrati 218 milioni di casi e 4.5 milioni di morti nel mondo.
Per quanto riguarda i Balcani Occidentali, l’impatto più duro è stato quello di inizio giugno 2020, con lo scoppio della seconda ondata:
A oggi il bilancio complessivo è di 2.211.407 contagiati e 42.632 morti, così suddiviso:
Albania: 147.369 casi e 2.501 decessi
Bosnia ed Erzegovina: 214.759 casi e 9.815 decessi
Croazia: 374.803 casi e 8.338 decessi
Kosovo: 146.880 casi e 2.525 decessi
Macedonia del Nord: 177.399 casi e 5.964 decessi
Montenegro: 115.956 casi e 1.732 decessi
Serbia: 766.279 casi e 7.307 decessi
Slovenia: 267.962 casi e 4.450 decessi
Ma ciò che è più significativo analizzare è il livello di risposta in termini di vaccinazioni.
Rispetto a inizio aprile, in tutti i Paesi balcanici la campagna di vaccinazione è quantomeno cominciata.
Questo grazie al rilancio del meccanismo COVAX (attivato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per garantire ai Paesi a basso e medio reddito un accesso equo e universale ai vaccini) e del ruolo dell’Unione Europea (lo trovi approfondito in questo articolo per Eunews).
Poi è continuata la beneficenza strategica della Serbia ai Paesi della regione, grazie al successo della prima fase della campagna di vaccinazione e alla grande disponibilità di sieri, che avevamo analizzato qui:
Le dosi di AstraZeneca, Pfizer/BioNTech, Moderna e Sputnik V sono iniziate ad arrivare con più regolarità.
È stato così possibile iniziare a mettere in sicurezza il personale sanitario e i soggetti più fragili, prima di aprire al resto della popolazione.
Ora siamo a inizio settembre, sono passati cinque mesi.
Ma la situazione non è incoraggiante.
Consideriamo i dati dei vaccinati con almeno una dose, vale a dire quelli che in poche settimane saranno totalmente immunizzati.
Il Paese con la percentuale più alta di persone che hanno ricevuto almeno una dose di vaccino anti-COVID è la Slovenia, con il 47,9%.
Meno della metà della popolazione slovena, mentre la media UE è di oltre sei europei su dieci (64,6%).
Non va poi dimenticato il fatto che l’immunità di gregge - percentuale di individui immuni che impedisce a una malattia infettiva di diffondersi in modo epidemico - si considera raggiunta con una copertura superiore al 70%.
I Balcani Occidentali sono molto distanti.
Oltre alla Slovenia, sopra la soglia dei quattro vaccinati su dieci, anche la Serbia (43%) e la Croazia (42,2%).
Un terzo degli abitanti di Macedonia del Nord (35%) e Montenegro (33,7%) hanno ricevuto almeno una dose di vaccino.
Meno di un cittadino vaccinato su tre in Albania (28,9%) e Kosovo (27,9%).
Quasi tragica la situazione in Bosnia ed Erzegovina, al 17,4%. Lo stesso livello dell’Italia nella seconda metà di aprile.
La campagna di vaccinazione nei Balcani ha degli evidenti, fortissimi ritardi. Sia per chi è partito forte dal primo giorno, sia per chi ha difficoltà nell’approvvigionamento di sieri, ma anche per chi può contare sul coordinamento dell’Unione Europea.
Per la Serbia, dopo il grande entusiasmo durato fino a inizio giugno, la curva delle somministrazioni si è sostanzialmente appiattita (l’incremento negli ultimi tre mesi è stato del 5%, in Italia del 30%).
A rallentare il ritmo - come già si temeva - lo scetticismo generale della popolazione a farsi vaccinare e una campagna d’informazione scoordinata. Tra i contrari ci sono anche molti medici, fattore che pesa sull’opinione pubblica.
In Bosnia ed Erzegovina la divisione politica-amministrativa tra la Federazione e la Republika Srpska sta creando dei disastri sul piano sanitario.
Il tasso di mortalità è il più alto al mondo, appena dopo il Perù e l’Ungheria.
Ben prima della crisi COVID-19 l’OMS avvertiva che «il sistema sanitario bosniaco fornisce solo una copertura nominale» a molti cittadini.
La Presidenza tripartita non ha il potere legale per negoziare direttamente con i produttori, mentre a maggio è fallita un’iniziativa parlamentare per accelerare gli emendamenti alla legge sugli appalti pubblici per gli acquisti di vaccini.
In tutta questa inefficienza e mancanza di responsabilità politica, lo Stato si trova a dipendere totalmente dagli aiuti internazionali (COVAX e dell’UE).
Ma non sa nemmeno quanti siano esattamente gli abitanti vaccinati, visto che la vicina Serbia cerca di estendere la sua influenza sull’entità serbo-bosniaca offrendo sieri che stanno per scadere.
In Slovenia e Croazia - Paesi membri dell’Unione Europea - da settimane si monitora la nuova ondata di contagi.
L’aggravamento della situazione epidemiologica preoccupa i governi di Lubiana e Zagabria, che durante l’estate non sono riusciti a tenere il passo degli altri Stati membri UE sul fronte della vaccinazione di massa.
Anche se i due Paesi potranno contare sullo strumento del Green Pass per evitare nuovi lockdown e garantire gli spostamenti in Europa - come la Macedonia del Nord, a cui Bruxelles ha riconosciuto l’equivalenza della certificazione nazionale - ciò non fa scomparire il problema della diffusione e di un nuovo mutamento del virus.
La campagna vaccinale serve proprio per questo.
Se la Storia è davvero magistra vitae, forse è il caso di portare le lancette indietro di 50 anni e prendere esempio dalla gestione dell’epidemia di vaiolo in Jugoslavia.
L’entità del COVID-19 è certamente più vasta, pandemica.
Ma tutti gli strumenti per combatterla sono già a disposizione.
Si tratta di una questione di responsabilità. Personale e collettiva.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Pfizerr, Monderna, Astra Zenecca e Sputnjik 6.
No, non siamo ubriachi. Quelli che sembrano storpiature sgrammaticate dei vaccini anti-COVID, sono in realtà i nomi di nuovi cocktail che il nostro oste di fiducia ci presenta sul bancone di BarBalcani.
Ed è tutto vero.
Sono stati ideati in un bar croato, il Roots Juice & Cocktail Bar, nel cuore di Zagabria.
Al proprietario, Tomislav Perko, è venuta l’idea mentre beveva un Penicillin, un noto cocktail preparato in tutto il mondo.
Di lì l’intuizione: perché non attualizzarlo?
Si è ispirato ai quattro vaccini più utilizzati contro il COVID-19 - Pfizer/BioNTech, Moderna, AstraZeneca e Sputnik V - e per ognuno ha pensato a un ingrediente caratteristico.
In breve, la base alcolica di ogni cocktail proviene dal Paese in cui viene prodotto il vaccino.
Whisky e Jägermeister per il tedesco-americano Pfizerr. Bourbon per l’americano Monderna. Gin per l’anglo-svedese Astra Zenecca. Vodka per il russo Sputnjik 6.
«I cocktail sono forti, non raccomandiamo più di due dosi a persona», ha suggerito Perko. «Ma a parte i postumi di una sbornia, non ci sono effetti collaterali».
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la quinta tappa.
Un abbraccio e buon cammino!
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