S2E2. Fuga dall'Afghanistan
Con la presa di potere dei talebani, migliaia di cittadini cercano rifugio all'estero. Tre Paesi balcanici hanno aperto le porte ai rifugiati, in attesa della decisione dell'Europa
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter dai confini sfumati.
Kabul è caduta.
L’Afghanistan è un Emirato islamico.
A 20 anni dall’inizio dell’invasione statunitense, i talebani hanno ripreso il controllo del Paese con una facilità disarmante.
Migliaia di cittadini stanno tentando la fuga con qualsiasi mezzo. Le immagini mostrano una situazione disperata.
È inevitabile ora aspettarsi un’ondata migratoria, di dimensioni ancora difficili da stimare.
Per l’Europa è arrivato il momento di rompere gli indugi sul riconoscimento della protezione internazionale.
Intanto tre Paesi balcanici hanno inviato un chiaro segnale in questa direzione.
Sarà una newsletter da leggere trattenendo il fiato. Iniziamo.
Breve riassunto
Se ti fossi perso qualcosa per strada o se avessi bisogno di una panoramica sintetica sugli eventi che hanno portato alla presa di Kabul da parte dei talebani, sei nel posto giusto.
L’origine di tutto risale agli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e Washington da parte dell’organizzazione terroristica Al-Qaeda.
L’amministrazione di George W. Bush decide di invadere l’Afghanistan governato dal 1996 dai talebani, dove trova rifugio il leader di Al-Qaeda, Osama bin Laden.
È il 7 ottobre 2001.
In un mese cadono Kandahar e Kabul: crolla l’Emirato Islamico.
Il 1° marzo 2003 viene dichiarata la fine dei combattimenti. Inizia la missione di ricostruzione dell’Afghanistan.
Hamid Karzai vince le elezioni e diventa il primo presidente dell’Afghanistan il 9 ottobre 2004. L’Occidente crede di essere riuscito a “esportare la democrazia”.
Ma l’attività di guerriglia dei talebani, da sud e oltre il confine pachistano, non si arresta. Negli anni continua ad aumentare il contingente armato USA e NATO.
Il 1° maggio 2011 viene ucciso Osama bin Laden dalle forze speciali statunitensi ad Abbottabad (Pakistan).
Si inizia a discutere del ritiro delle truppe occidentali e il trasferimento della responsabilità della sicurezza del Paese alle forze afghane.
Per l’addestramento dell’esercito afghano gli Stati Uniti hanno speso oltre 83 miliardi di dollari. 20 anni di missione sono costati 2.000 miliardi.
Nel 2018 iniziano i negoziati tra l’amministrazione di Donald Trump e i talebani. L’accordo per portare la pace in Afghanistan viene firmato il 29 febbraio 2020.
L’accordo sancisce il disimpegno degli Stati Uniti e della NATO, a fronte del cessate il fuoco e dell’impegno dei talebani nel dialogo con il governo di Ashraf Ghani.
Né la prima né la seconda promessa dei talebani viene davvero mantenuta.
Intanto il 1° maggio 2021 inizia il ritiro delle truppe, sotto l’amministrazione di Joe Biden. Ma non è accompagnato dalla tenuta dell’esercito afghano.
Al contrario, collassa in poche settimane. A inizio agosto, nel giro di qualche giorno cadono Zaranj, Kandahar, Herat.
Kabul dovrebbe resistere per almeno un mese e mezzo. Invece il 15 agosto i talebani fanno ingresso nella capitale senza sparare un colpo.
Migliaia di cittadini invadono l’aeroporto internazionale di Kabul per cercare di lasciare il Paese.
Le scene sono da brividi, con tentativi disperati di salire sugli aerei in partenza. Anche aggrappati alle ruote e alle ali o stipati dentro i cargo militari.
Mentre i talebani annunciano che il nuovo regime si ispirerà alla sharia, la ricerca di una via di fuga prosegue per tutta la settimana, fino a oggi.
Dal momento in cui la materia è molto vasta, ti lascio alcuni suggerimenti di letture (italiane, per quelle internazionali vedi la versione inglese di questa newsletter):
La guerra in Afghanistan era persa in partenza, Internazionale
Le lezioni della disfatta di Kabul, Internazionale
Perché l’esercito afghano è collassato così rapidamente, Il Post
Cos’è la sharia, spiegato bene, Il Post
Collasso afghano, Il Foglio
Afghanistan, il dramma di chi resta, La Repubblica (di Francesca Mannocchi)
Rifugio balcanico
Albania, Kosovo e Macedonia del Nord.
Già dopo poche ore dalle drammatiche immagini dell’aeroporto di Kabul è arrivata la decisione di accogliere i rifugiati politici afghani da parte dei tre Paesi balcanici.
«Senza dubbio non diremo di no. Non solo perché i nostri alleati ce lo chiedono, ma perché siamo l’Albania», ha dichiarato da Tirana il premier, Edi Rama.
«Il Kosovo rispetta il diritto e l’obbligo internazionale di non chiudere la porta ai rifugiati», gli ha fatto eco la presidente kosovara, Vjosa Osmani.
E infine il primo ministro macedone, Zoran Zaev: «Siamo un Paese solidale. La nostra gente ha sempre dato sostegno e aiuto, allo stesso modo in cui li abbiamo ricevuti durante le nostre grandi catastrofi».
Tirana, Pristina e Skopje ospiteranno temporaneamente un numero limitato di cittadini afghani che stanno subendo ritorsioni dai talebani, avendo collaborato con le forze NATO (anche se i talebani hanno promesso il perdono generale).
Gli Stati Uniti saranno la destinazione finale.
Ma i rifugiati politici dovranno prima rimanere in un Paese terzo per almeno un anno, mentre sarà analizzata la loro domanda di visto per Washington.
Secondo le prime stime in Albania dovrebbe arrivare un gruppo di 250 persone, in Macedonia del Nord circa 390, mentre in Kosovo ancora non è chiaro.
In un’intervista per Balkan Investigative Reporting Network Adrian Shtuni, specialista in controterrorismo nei Balcani, ha osservato che per i Paesi di transito «i costi finanziari saranno contenuti» e coperti in larga parte dagli Stati Uniti.
Inoltre, «dal punto di vista della sicurezza, non c’è motivo di credere che i rifugiati afghani rappresentino un rischio, essendo perlopiù interpreti, non ex-combattenti».
La mossa dei tre governi balcanici ha una duplice natura: «È tanto un segno di leadership morale e compassione umanitaria», tanto quanto «una conferma di essere partner affidabili» per Stati Uniti e NATO.
Per non parlare di possibili vantaggi economici e politici. Che soprattutto al Kosovo potrebbero far comodo.
Per quanto riguarda l’Albania, l’esperienza di ospitalità nei confronti di profughi mediorientali è già rodata.
Nei pressi del piccolo ex-villaggio di minatori di Manëz (Durazzo), il campo Ashraf-3 ospita circa tremila uomini e donne del partito dei Mojahedin del Popolo dell’Iran.
Il partito fuorilegge nella Repubblica Islamica dell’Iran - e per anni inserito nella lista nera internazionale delle organizzazioni terroristiche - si batte per l’instaurazione di un sistema laico e socialdemocratico, contro il regime teocratico.
A causa delle persecuzioni subite in patria, i Mojahedin si sono rifugiati prima in Iraq. Ma nel 2013 l’amministrazione di Barack Obama ha previsto il loro ricollocamento in Albania.
Il tutto con un accordo segreto con l’allora premier albanese, Sali Berisha.
La storia dei tremila profughi iraniani a Durazzo è stata raccontata con precisione da Courrier des Balkans.
Ora si aggiungeranno quelle dei civili in fuga dal vicino Afghanistan.
Tocca all’Europa
Mentre i tre Paesi iniziavano i preparativi per l’accoglienza, qualcuno sui Balcani andava controcorrente.
«Il Montenegro non si sente obbligato ad accettare temporaneamente i residenti dell’Afghanistan che hanno aiutato le forze alleate», ha messo in chiaro il ministro degli Esteri, Đorđe Radulović.
E qui si pone una questione più profonda.
Il Montenegro compare tra i 99 Paesi firmatari della dichiarazione con cui sono state invitate le autorità talebane a «rispettare e facilitare la partenza sicura e ordinata dei cittadini stranieri e afghani che desiderano lasciare il Paese».
La richiesta di «sicurezza, protezione e dignità» non è solo per gli afghani che hanno aiutato le forze NATO negli ultimi 20 anni, ma per tutto il popolo afghano.
Un’altra dichiarazione congiunta ha tenuto alta l’attenzione su questo aspetto:
«Siamo profondamente preoccupati per le donne e le ragazze afgane, per i loro diritti all’istruzione, al lavoro e alla libertà di movimento. Siamo pronti ad assisterle con aiuti umanitari e sostegno, per garantire che le loro voci possano essere ascoltate».
Ma oltre agli aiuti umanitari e gli appelli, è arrivato il tempo di creare corridoi umanitari per chi fugge dall’Afghanistan.
Anche perché già da tempo l’Europa ha un problema enorme con i profughi afghani, ben prima che i talebani riconquistassero il potere.
Lo dimostrano alcune statistiche pubblicate dall’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI) sui dati Eurostat.
Dal 2008 al 2020 quasi la metà delle richieste di asilo di cittadini afghani ricevute dai Paesi europei sono state respinte (290 mila). In un caso su quattro è seguito il rimpatrio.
L’Afghanistan non era un Paese insicuro, secondo l’Europa. Da anni sapevamo però che i rimpatriati venivano attaccati dai talebani.
Solo otto Paesi hanno concesso la protezione a più del 60 per cento di loro. L’Italia stavolta si è distinta in meglio.
Ma chi erano questi 290 mila afghani respinti?
Ogni cinque, una donna. Oltre 25 mila le bambine e ragazze, su un totale di 71.250 minori di 18 anni a cui è stato negato l’asilo.
Quasi 190 mila gli uomini adulti che hanno ricevuto un rifiuto.
A Bruxelles la questione della gestione del flusso migratorio dall’Afghanistan sta però iniziando a prendere piede.
L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha alzato l’asticella, aprendo alla possibilità di applicare per la prima volta la Direttiva europea sulla protezione temporanea (adottata proprio nel 2001).
Si tratta di una misura eccezionale per fornire protezione immediata a sfollati che non possono tornare nel Paese di origine. È prevista se il sistema standard di asilo rischia di non riuscire a far fronte a un afflusso massiccio di richiedenti.
La sua nascita si fa risalire ai conflitti nell’ex-Jugoslavia degli anni Novanta e alla necessità di doversi dotare di procedure speciali per affrontare situazioni di grave emergenza.
Peccato che Borrell sia stato immediatamente sconfessato da un portavoce dell’esecutivo UE: «Abbiamo proposto di abrogarla e di sostituirla con un nuovo regolamento meglio concepito».
La commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, al termine del vertice straordinario con i 27 ministri UE di mercoledì 18 agosto ha però ammesso che «ci stiamo preparando a tutti gli scenari».
In una dichiarazione alla stampa ha ribadito che «la priorità immediata è l’evacuazione del personale e dei cittadini comunitari e del personale locale che ha lavorato con gli Stati membri in Afghanistan».
Ma considerata «l’instabilità che porterà probabilmente a un aumento della pressione migratoria», la commissaria ha fatto un punto anche sui profughi.
Prima di tutto, si tenterà di sostenere programmi legati allo sfollamento nei Paesi vicini (Iran e Pakistan). «Dobbiamo impedire che le persone si dirigano verso l’Unione Europea attraverso rotte non sicure, irregolari e gestite da contrabbandieri».
Ma c’è di più. «Allo stato attuale la situazione nel Paese non è sicura e non lo sarà per un po’ di tempo», ha sottolineato Johansson. «Pertanto non possiamo costringere le persone a tornare in Afghanistan».
Questo significa che dovrà essere trovata una soluzione condivisa a livello europeo per chi richiede l’asilo. E stavolta il tempo scarseggia.
Ma c’è già qualcosa che si può fare, anche adesso.
Diversi eurodeputati lo hanno ricordato in questi giorni, in particolare gli italiani del gruppo S&D che a gennaio si erano recati in missione sul confine tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina, teatro di respingimenti illegali di migranti.
Nei campi profughi della Bosnia - di Lipa come di tanti altri - stiamo lasciando migliaia di persone in condizioni di vita vergognose.
Anche - e soprattutto - cittadini di nazionalità afghana: nel 2020 rappresentavano più di un terzo di tutti i richiedenti asilo lungo la rotta balcanica (su oltre 50 mila).
Ce lo eravamo detti ancora a gennaio, qui a BarBalcani. Sul confine bosniaco noi, europei di prima classe, dobbiamo fare i conti con le nostre mancanze.
Solo ora che i talebani hanno ripreso il potere, l’Afghanistan non ci sembra più un posto così sicuro.
Per agire siamo ancora in tempo. Dobbiamo pretendere un’azione decisa da parte dei governi nazionali e dell’Unione Europea nel suo insieme.
Basta solo volgere lo sguardo verso i Balcani e iniziare a risolvere i problemi che da anni abbiamo relegato appena fuori l’uscio d’Europa.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Trovare le parole giuste oggi è molto difficile. Per questo mi dovrai perdonare una deviazione dal nostro solito consiglio balcanico.
Ci tenevo piuttosto a raccontarti una delle tante storie afghane di women empowerment che con la presa di Kabul saranno soffocate dal fondamentalismo talebano.
Quella dei café di Kabul. Luoghi diventati emblema di progresso.
A differenza dei ristoranti, che riservano aree separate per sesso, nei café sorti negli ultimi anni le donne possono socializzare anche con gli uomini.
Non a caso nel 2014 i talebani lanciarono una serie di attacchi armati e suicidi. Il più grave uccise 21 clienti nel famoso café Taverna du Liban, dove veniva servito alcool e donne e uomini afghani sedevano allo stesso tavolo degli occidentali.
Dopo un primo periodo di paura, nuovi café sono iniziati a fiorire nel centro della capitale, per accogliere i giovani e le giovani che vogliono sentirsi liberi in pubblico.
Nel 2018 la trentenne Mina Rezaee ha aperto il Simple Café a Kabul. Fino a oggi si è assicurata ogni giorno che le proprie clienti non siano molestate perché siedono con uomini, perché indossano abiti alla moda o perché senza velo sul capo.
«Qui sono le donne a fare la cultura, non gli uomini», ha affermato Rezaee in un’intervista per The New York Times. «Sono i talebani che devono cambiare la loro ideologia, non noi. Questa è la mia linea rossa».
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la terza tappa.
Un abbraccio e buon cammino!
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Io come sempre ti ringrazio per essere arrivato fino a questo punto del nostro viaggio.
Qui trovi la prima tappa di questa stagione, ma vorrei lasciartene altre due dello scorso anno sul tema della gestione della migrazione in Europa: