XLI. La battaglia dei vaccini nella Terra di mezzo
Sui Balcani ci si gioca il presente della lotta contro il COVID, ma anche i futuri rapporti di forza tra UE, Russia e Cina. L'arbitro è la Serbia, uno dei Paesi più efficienti nella campagna di massa
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter che dà voce alle storie dai Balcani occidentali nel 30° anniversario dalle guerre nell’ex-Jugoslavia.
Allora, diciamocelo schiettamente.
Da tempo avremmo dovuto parlare di Coronavirus e vaccini. È l’argomento dell’anno per evidenti motivi, ne scrivono tutti, ma quasi nessuno ha spiegato cosa stia succedendo appena oltre i confini dell’Unione Europea.
E poi l’ultima volta che qui abbiamo fatto un punto sul COVID-19 è stato nel luglio dello scorso anno, quando stava iniziando la seconda ondata sui Balcani (era la 5ª tappa, Generale Coronavirus).
Diverse volte abbiamo preso l’argomento di striscio, soffermandoci però su altro. Scelta editoriale: c’era e c’è bisogno anche di altra informazione, oltre la pandemia.
Dopo 37 settimane, è finalmente arrivato il momento di rimettere ordine sul tema.
Perché proprio ora?
Per un motivo puramente personale.
Mercoledì 31 marzo, a distanza di un paio d’ore l’uno dall’altro, il mio amico/collega/ex-compagno di Tobagi, Riccardo Congiu, ed io scriviamo per i nostri rispettivi giornali un articolo sullo stato della campagna vaccinale nei Balcani.
Senza - ovviamente - metterci d’accordo né ispirarci in precedenza.
All’ora di pranzo sono online:
Ecco perché proprio ora.
Un po’ perché - integrandoli tra loro - ne esce un quadro completo. Un po’ perché questa intesa andava celebrata in qualche modo. Un po’ perché Riccardo in realtà mi sta battendo 2 a 1 (Sui vaccini i Balcani occidentali stanno guardando più a est che a ovest, Il Post) e questa cosa mi brucia.
Mettiti comodo o comoda. Mai come oggi l’informazione ha bussato al tuo smartphone!
Speranze, ritardi e donazioni
Partiamo da qui: come arrivano i vaccini anti-COVID nei Paesi dei Balcani occidentali?
In diversi modi.
Attraverso contratti tra governi nazionali e case farmaceutiche, oppure con donazioni volontarie o accordi con altri Stati. E poi c’è il meccanismo COVAX.
COVAX è stato messo in piedi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per garantire ai Paesi a basso e medio reddito di tutto il mondo un accesso equo e universale ai vaccini.
Nei primi sei mesi del 2021 ai sei Paesi balcanici sono state destinate 952.200 dosi (su una popolazione totale di oltre 18 milioni di abitanti), con i primi carichi previsti tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo.
Aspettando un aprile più efficiente, al momento è stato consegnato solo un sesto delle dosi previste (160.200) per Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia.
A Tirana sono arrivate il 12 marzo (38.400), a Sarajevo il 25 (49.800), a Pristina, Podgorica e Skopje il 28 (24 mila ciascuno), mentre a Belgrado ancora nessuna.
Ma se la maggior parte dei Paesi balcanici ha pochissimi sieri a disposizione - a malapena sufficienti per vaccinare il personale sanitario - la Serbia è invece riuscita a garantirsi moltissime dosi.
Complice una politica di gestione della pandemia fondata sui rapporti con Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Cina, il presidente Aleksandar Vučić è riuscito a mettere in piedi una campagna vaccinale di massa efficace e tempestiva.
Non solo il programma COVAX, ma anche contratti con le singole case farmaceutiche (AstraZeneca e Pfizer/BioNTech) e accordi con la Russia per ricevere il vaccino Sputnik V e la Cina per il siero dell’azienda Sinopharm.
In questo modo la Serbia ha raggiunto uno dei migliori tassi al mondo di dosi somministrate ogni 100 abitanti: 34,15, mentre la media UE è ferma al 15,5.
Due milioni di dosi singole di vaccini sono già state utilizzate, su una popolazione di poco meno di 7 milioni di abitanti.
È così che Belgrado da mesi si è potuta permettere di avviare una politica di relazioni esterne nella regione, sfruttando lo strumento dei vaccini contro il Coronavirus.
Da metà febbraio sono stati inviati migliaia di sieri alle altre capitali balcaniche. Dalle 8 mila di Pfizer/BioNTech a Skopje, alle 4 mila di Sputnik V a Podgorica, fino alle 10 mila di AstraZeneca a Sarajevo.
La Serbia non ha dimenticato nemmeno di aumentare la sua influenza strategica sulla Republika Srpska. Il governo dell’entità serbo-bosniaca ha ricevuto 22 mila dosi di Sputnik V, per iniziare la campagna vaccinale prima del resto della Bosnia.
Ma nell’ultimo fine settimana di marzo Belgrado ha mostrato di saper fare anche l’impensabile.
Beneficenza strategica
Tra il 27 e il 28 marzo migliaia di persone (22 mila secondo il governo serbo) si sono presentate in centri allestiti nelle città di Novi Sad, Belgrado e Nis per ricevere gratuitamente una dose di vaccino AstraZeneca, anche prive di prenotazione.
Qual è l’eccezionalità?
Che la campagna era aperta ai cittadini dei Paesi confinanti. Come se l’Italia decidesse di aprire i propri centri a francesi, svizzeri, austriaci e sloveni per un week-end. Più o meno.
L’iniziativa è senza precedenti. Soprattutto macedoni, bosniaci e montenegrini sono potuti entrare nel Paese, anche senza il risultato negativo di un tampone o il certificato medico per la somministrazione del siero. Bastava un documento di riconoscimento.
Attraversando i confini nazionali, migliaia di persone sono riuscite a ricevere una dose di vaccino molto prima di quanto avrebbero potuto sperare nel proprio Paese.
La campagna del 27-28 marzo si inseriva all’interno di un accordo tra la Camera di commercio serba e le autorità degli altri Stati. Inizialmente prevedeva la somministrazione di 10 mila dosi solo a uomini e donne d’affari, per favorire la ripresa delle relazioni commerciali.
Alla fine è stato consentito a chiunque di partecipare, per diverse ragioni.
Prima di tutto va considerata la versione delle autorità serbe. In un’intervista al Financial Times il presidente Vučić ha spiegato che «finché tutta la regione non sarà al sicuro, la stessa Serbia non lo sarà».
La premier, Ana Brnabić, si è spinta un po’ più in là. La campagna eccezionale è stata aperta a tutti perché altrimenti sarebbero andate distrutte tra le 20 mila e le 25 mila dosi in scadenza a inizio aprile, si è giustificata di fronte ai media.
Ci si può legittimamente chiedere come mai - se la vaccinazione di massa è stata così efficace - tutte queste dosi hanno rischiato di finire inutilizzate.
L’ha spiegato bene la giornalista Valerie Hopkins. Riportando i dati forniti dalla rivista scientifica The Lancet sulla fiducia nei confronti dei vaccini anti-COVID nel mondo, in Serbia si registra una situazione preoccupante.
Più di tre cittadini serbi su cinque esprimono dubbi (o sono contrari) a ricevere un siero.
Significa che Belgrado potrebbe trovarsi presto di fronte a un appiattimento della curva di dosi somministrate su 100 abitanti, se i cittadini smetteranno di vaccinarsi.
Con il conseguente accumulo di dosi in magazzino, che rischieranno di andare sprecate.
Infine, c’è una questione più squisitamente politica e geo-strategica.
Se è vero che i vaccini sono diventati un potente strumento di politica estera, la Serbia ha tutto l’interesse a sviluppare una politica di soft power nella regione.
Da quando ha mostrato di riuscire a gestire con efficacia la campagna vaccinale, il Paese si è ritagliato un ruolo-guida nei Balcani occidentali e - considerato anche l’episodio dello scorso fine settimana - si prospetta un aumento della sua influenza.
Al punto da attrarre l’interesse di Russia e Cina, le due potenze orientali che da tempo cercano di contendere all’Unione Europea l’influenza nella penisola.
La battaglia nella Terra di mezzo
Della politica di allargamento UE nei Balcani occidentali ne abbiamo parlato diverse volte (se ti serve un ripasso, ti lascio la 13ª tappa, E tu, ci sei mai stato?).
Da quando è scoppiata la pandemia ed è iniziata la campagna di vaccinazione sul continente, Bruxelles ha dimostrato di avere difficoltà a far seguire le dichiarazioni ad azioni tempestive.
L’UE sostiene con oltre un miliardo di euro il meccanismo COVAX e ha previsto un meccanismo di solidarietà per sostenere i partner strategici tra i Balcani e il Mediterraneo.
Tuttavia, tra limitazioni delle esportazioni dei vaccini dal suolo comunitario e ritardi COVAX, il commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, ha ammesso che «la consegna di vaccini anti-COVID ai Paesi dei Balcani occidentali si sta rivelando più difficile di quanto avessimo sperato».
Queste difficoltà fanno il gioco di Russia e Cina, facilitate nel mettere in campo la propria strategia di destabilizzazione del progetto di integrazione della penisola nell’Unione.
Questo vale soprattutto per il concorrente più vicino, il Cremlino.
Il tasso di somministrazioni di dosi per 100 abitanti in Russia è di 7,26, meno della metà rispetto a quello europeo. Il vaccino Sputnik V sembra quasi più alimentare i progetti geopolitici del Cremlino che mettere al sicuro i circa 146 milioni di cittadini russi.
Questa politica si riflette anche nei Balcani occidentali. A partire dal 20 maggio in Serbia sarà avviata la produzione locale di Sputnik V.
Il ministro serbo per l’Innovazione, Nenad Popović, dopo un incontro a Mosca l’11 marzo con il ministro russo per il Commercio, Denis Manturov, ha annunciato che «la prima fase prevede il trasporto di sieri dalla Russia, l’imballaggio e la distribuzione».
Anche la Cina si sta accodando (anche se la strategia è chiara da almeno un anno, come dicevamo nella 2ª tappa, Il poker cinese in Serbia).
Ancora non ci sono conferme ufficiali, ma si sta iniziando a pianificare la produzione in loco del vaccino cinese Sinopharm. L’avvio ufficiale dovrebbe essere a metà ottobre.
Cina e Russia puntano a conquistare l’opinione pubblica della regione, assicurandosi la penetrazione con una catena di produzione nel miglior Paese balcanico sul fronte della campagna vaccinale.
C’è in ballo la vittoria nella battaglia dell’approvvigionamento di vaccini.
Da qui potrebbe passare l’estensione della sfera d’influenza europea o sino-russa nei Balcani occidentali.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
L’abbiamo iniziato in modo un po’ autoreferenziale. E così lo finiremo.
Se ci dessimo appuntamento nella nostra città, a Milano, Riccardo e io ti accoglieremmo al “Colorificio” rigorosamente con un bicchiere di Negroni in mano.
Però, come ben sai, siamo al BarBalcani e qui si fanno le cose in altro modo.
Ma chi l’ha detto che ci si dovrebbe accontentare?
Sul nostro bancone ci sta aspettando un Rakoni, il cugino balcanico del celebre cocktail italiano.
È un classico Negroni, ma con la variante della rakija al posto del gin.
Difficile pensare a nuove versioni di un cocktail che ormai rappresenta un pezzo di storia, una pietra miliare degli aperitivi.
Ma quando si mette in mezzo il più celebre distillato dei Balcani, si può ottenere un mix perfetto tra le due sponde dell’Adriatico, una nuova identità alcolica atipica ma decisa.
La ricetta del Rakoni è identica a quella del Negroni originale, con le stesse dosi.
Bitter Campari, vermut rosso e rakija in sostituzione del gin.
Solo adesso, forse, i conti sono stati pareggiati!
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la quarantaduesima tappa!
Un abbraccio e buon cammino!
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