XLVI. Kuala Lumpur, Bosnia
A più di 9 mila chilometri da Sarajevo, una comunità di bosniaci musulmani ha trovato rifugio nella capitale della Malesia durante la guerra. Un rapporto rinsaldato da lavoro, fede e lotta al COVID-19
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter che dà voce alle storie dai Balcani occidentali nel 30° anniversario dalle guerre nell’ex-Jugoslavia.
Sono le 11 di mattina di una classica giornata piovosa. Umida, ma caldissima.
Un gruppo di bosniaci si dà appuntamento in un bar del centro e davanti a un caffè discute della situazione della distribuzione dei vaccini anti-COVID nel Paese.
La Serbia sta facendo passi da gigante, mentre Sarajevo ha appena iniziato la campagna vaccinale. La pandemia continua a far paura e i casi sono in aumento.
Finiscono con calma il caffè bosniaco, si salutano e ciascuno torna alla propria abitazione.
Di Kuala Lumpur, capitale della Malesia.
Ma cosa ci fanno dei bosniaci a più di 9 mila chilometri di distanza da “casa”, radicati da decenni in una città del Sud-est Asiatico?
E perché al centro del loro discorso c’era la decisione del governo malese di aiutare la Bosnia e Erzegovina con una fornitura di decine di migliaia di vaccini?
Dietro un velo di tragicità e rinascita, si nasconde una storia di straordinaria normalità.
Una patria a 9 mila chilometri di distanza
Già prima dell’inizio degli anni Novanta - quando la nostra storia entra nel vivo - in Malesia esisteva una piccola, ma compatta, comunità di bosniaci.
Erano professionisti, tecnici e ingegneri inviati dalle aziende della Repubblica Socialista di Bosnia ed Erzegovina a lavorare nelle sedi malesi, come il gigante energetico Energoinvest.
Dopo la rottura dei rapporti tra la Jugoslavia e l’Unione Sovietica, il maresciallo Josip “Tito” Broz diede un forte impulso al Movimento dei Paesi non allineati e cercò di sfruttarne le connessioni per lo sviluppo economico della Federazione.
Si aprirono le porte del Sud-est Asiatico per le imprese statali della Jugoslavia, dall’Indonesia negli anni Sessanta alla Malesia negli anni Settanta.
Alla componente economica si innestò un altro incentivo per i bosniaci. Quello religioso.
In Malesia l’Islam era ed è religione di Stato: un habitat favorevole per i bosgnacchi, la popolazione slava di fede islamica. Per precisione, a unire la maggioranza dei malesiani e i bosniaci musulmani è la matrice sunnita.
Ecco perché l’apertura delle relazioni tra i due Paesi stimolò anche lo scambio culturale tra Sarajevo e Kuala Lumpur.
La comunità bosniaca “in trasferta” si arricchì di studenti e professori all’Università islamica internazionale della Malesia (IIUM), grazie a diverse borse di studio in Economia, Scienze islamiche e Scienze sociali.
L’obiettivo dell’Università era quello di integrare queste discipline. La doppia laurea e gli insegnamenti offerti in inglese e arabo ampliarono gli orizzonti di accademici e universitari.
A pochi mesi dall’inizio delle guerre nell’ex-Jugoslavia, per decine di bosniaci Kuala Lumpur era diventata una seconda patria.
Per centinaia di altri, la pulizia etnica messa in atto dal presidente serbo, Slobodan Milošević, li costrinse a trovare rifugio nella nuova casa dall’altra parte del mondo.
Comunità di profughi
Tra il 1992 e il 1995 la partenza senza visto per la Malesia - passando dalla Croazia - fu un’opzione considerata e messa in atto da molte famiglie bosgnacche.
Trovarono un governo pronto ad accoglierle, strenuo difensore dei diritti dei fratelli europei perseguitati.
In particolare, l’allora primo ministro, Mahathir Mohamad. Un politico che sposò totalmente la causa bosniaca, prendendo spesso posizioni dure nel corso della guerra.
Le ha raccolte lui stesso in un’autobiografia, dove si è soffermato con veemenza sul «forte turbamento» del genocidio in Bosnia:
«Quello che hanno fatto i serbi è stato inimmaginabile, ma quello che hanno fatto gli europei è stato altrettanto spaventoso e loro incoerenza vergognosa. Se un cane rimane bloccato in una fogna, spendono tempo e denaro per salvarlo. Eppure si sono rifiutati di aiutare persone innocenti, mentre venivano uccise».
I profughi bosgnacchi che riuscirono a raggiungere Kuala Lumpur furono alloggiati nel distretto meridionale di Serdang. Un altro gruppo, nella vicina area di Kajang. Un terzo gruppo si stabilì nello Stato malese del Sarawak, sull’isola del Borneo.
Soprattutto nella capitale, si iniziò a ricostruire la comunità bosniaco-musulmana, con tutte le sue caratteristiche sociali e culturali: Serdang divenne il centro degli eventi culturali e delle festività religiose bosgnacche in Malesia.
I figli e le figlie dei profughi frequentavano le scuole malesi - integrandosi nella nuova società - e in parallelo mantenevano vivo il ricordo della lingua, storia e cultura del Paese di provenienza, grazie a una scuola bosniaca aperta dalla comunità.
Nel maggio del 1994, il quotidiano malese New Straits Times pubblicò in prima pagina i bosniaci riuniti a Serdang per celebrare la festa musulmana di Eid al-Adha.
Ma fu grande lo spazio che il quotidiano dedicò loro e soprattutto agli eventi che stavano accadendo a Sarajevo in quegli anni tragici.
Quando nel 1995 la guerra in Bosnia finì, la maggior parte delle centinaia di membri della diaspora bosgnacca decise di tornare indietro.
Nonostante l’ospitalità malese, la distanza da casa, il clima tropicale e la cultura molto diversa giocarono un ruolo importante nella scelta.
Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, solo un piccolo gruppo di bosniaci era rimasto a Kuala Lumpur.
Quella della comunità bosniaco-musulmana non è stata però solo un’esperienza sui generis di emigrazione di guerra, ma anche un caso di fuga di cervelli all’incontrario, con un effetto moltiplicatore per il Paese di origine.
In quegli anni era aumentata la quota di studenti all’Università islamica internazionale della Malesia e furono loro al centro dell’emigrazione di ritorno.
L’esposizione internazionale e la diversità culturale di vivere nel Sud-est Asiatico per diversi anni aveva plasmato la loro visione del mondo, mentre la familiarità con i mezzi tecnologici li aveva specializzati professionalmente.
Giovani, istruiti e con grandi competenze in inglese, al loro ritorno in Bosnia trovarono facilmente lavoro in aziende e organizzazioni internazionali, con un impatto virtuoso sulla società del dopoguerra.
Una peculiarità resa possibile dalla diaspora bosgnacca in Malesia. Con un filo rosso che dalla guerra arriva fino alla lotta alla pandemia COVID-19.
Un legame indissolubile
Sui Balcani i progressi nell’avanzamento della campagna vaccinale vanno a rilento, in particolare in Bosnia.
[Se hai bisogno di un bell’approfondimento, ti consiglio di passare dalla 41ª tappa, “La battaglia dei vaccini nella Terra di mezzo”]
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), la Bosnia ed Erzegovina ha registrato 200 mila casi confermati di COVID-19 su 3,7 milioni di abitanti. Il tasso di mortalità è al 4,3%, con 8.762 decessi.
Le difficoltà del Paese fratello europeo hanno convinto la Malesia a intervenire.
In confronto, il Paese ha sì registrato 428 mila casi confermati, ma su una popolazione totale di 32 milioni di abitanti. Con 1.610 decessi, il tasso di mortalità è inferiore allo 0,4%.
Dati questi presupposti, a inizio aprile il governo di Kuala Lumpur ha accettato di inviare 50 mila dosi di vaccino anti-COVID a Sarajevo.
Il ministro deputato alle Funzioni speciali, Mohd Redzuan bin Md Yusof, ha spiegato che è stata proprio la presidenza tripartita bosniaca a chiedere sostegno «per affrontare l’aumento delle infezioni e le difficoltà nella comunità europea».
Non è stato ancora definito quale tipo di vaccino, perché bisognerà considerare le capacità logistiche della Bosnia ed Erzegovina.
Per Kuala Lumpur questo aspetto è fondamentale. L’accordo dovrà essere più semplice possibile, per far sì che l’aiuto non diventi un peso o vada sprecato.
Il ministero degli Affari esteri e quello della Salute si prenderanno carico della consegna del vaccino: «Sappiamo che non tutti i Paesi sono fortunati quanto noi», ha aggiunto il ministro. «Dalle nostre scorte, ne abbiamo accantonate 50 mila per loro».
Decenni di strette relazioni sedimentate nella politica e nelle comunità dei due Paesi, che hanno reso naturale un aiuto in un momento di difficoltà.
C’è un po’ di Bosnia a Kuala Lumpur.
C’è un po’ di Malesia in Bosnia.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Come la comunità bosniaca trapiantata in Malesia, anche per noi oggi l’esperienza al bancone di BarBalcani è un po’ particolare.
Scopriamo il teh tarik, la bevanda nazionale malese.
Introdotto nella penisola dagli immigrati musulmani indiani, è un the nero miscelato con latte caldo condensato.
Il termine teh tarik si compone di due termini di due lingue diverse: teh significa “the” nel dialetto hokkien, mentre tarik significa “tirato” in malese. Il nome deriva dal processo di versamento.
La miscela di the nero e latte caldo condensato viene versata ripetutamente avanti e indietro tra due contenitori, fino a ottenere una consistente parte spumosa.
Inoltre, questo processo raffredda il the, lo mescola con il latte condensato e ne migliora il sapore.
Tradizionalmente il teh tarik veniva portato ai lavoratori malesi delle piantagioni di gomma e per questo motivo è diventato comune associarlo a una fonte di energia per il lavoro.
Anche la comunità bosgnacca a Kuala Lumpur ha assorbito questa usanza e il gruppo rimasto lo alterna con grande disinvoltura al tradizionale caffè bosniaco.
Ma anche tante famiglie tornate in Bosnia ancora oggi preparano questa bevanda, in ricordo dell’esperienza nella loro seconda casa a 9 mila chilometri di distanza.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la quarantasettesima tappa!
Un abbraccio e buon cammino!
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