S5E17. In Republika Srpska sta succedendo di tutto
Su Milorad Dodik, presidente dell'entità serba della Bosnia ed Erzegovina, pende un mandato di arresto per tentata secessione. Sempre più isolato, è rimasto ormai quasi senza opzioni
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È una crisi lunga anni, forse decenni, a dire il vero. Una crisi che affonda le radici nelle origini stesse del progetto della Bosnia ed Erzegovina unita, così come disegnata 30 anni fa per mettere fine alle guerre degli anni Novanta.
E che ora si sta rivelando in tutto il suo caos.
Perché c’è il presidente di una delle due entità che costituiscono la Bosnia - la Republika Srpska - che sta spingendo fino in fondo il suo progetto secessionista.
E poi c’è il tribunale di più alto grado dell’intero Paese che ha spiccato un mandato di arresto contro quello stesso presidente, che volato all’estero con una fuga (mascherata da visita ufficiale) in Israele e Russia.
In Republika Srpska sta davvero succedendo di tutto. Dove si andrà a finire, però, è ancora un’incognita che incombe sull’intera Bosnia ed Erzegovina.
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Una crisi che viene da lontano
Sono anni che Milorad Dodik sta spingendo la sua agenda secessionista nell’entità serbo-bosniaca. In modo esplicito almeno dall’ottobre del 2021.
Quando era leader dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD) - un anno dopo sarebbe tornato anche a ricoprire il ruolo di presidente della Republika Srpska - aveva promesso di ritirare l’entità serba dall’autorità centrale della Bosnia ed Erzegovina su questioni di difesa, di amministrazione fiscale e di giustizia.
La creazione di una propria forza armata è centrale in questo progetto secessionista, così come la sospensione delle leggi emanate dall’Alto Rappresentante dell’Onu che hanno conferito alle istituzioni centrali poteri nella difesa e giustizia.
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Di fatto Dodik mette in discussione alla radice il principio cardine su cui si fonda lo Stato bosniaco: il rispetto degli Accordi di Dayton, siglati nel novembre del 1995 sotto pressione diplomatica statunitense per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1992.
La Bosnia post-Dayton è uno Stato multietnico e unitario, ma con forme avanzate di decentralizzazione che garantiscono un margine di autonomia ai tre gruppi etnici definiti “costituenti”: serbi, croati e bosgnacchi (bosniaci musulmani).
La conseguenza più evidente è stata la divisione in due entità, che ricalcano i confini territoriali emersi dal conflitto: la Federazione di Bosnia-Erzegovina - abitata in prevalenza da bosgnacchi e croato-bosniaci - e la Republika Srpska - caratterizzata da un’omogeneità etnica serba.
Nazionalista filo-russo, il presidente serbo-bosniaco Dodik nel 2023 ha introdotto nella Republika Srpska una legge sugli “agenti stranieri” (che impone la registrazione delle organizzazioni e delle fondazioni finanziate dall'estero) e sanzioni per diffamazione nei media (all’interno del Codice penale).
Ma soprattutto ha firmato alcune leggi che sospendono le sentenze sia della Corte costituzionale della Bosnia sia dell’Alto Rappresentante. Per questo i pubblici ministeri bosniaci lo hanno portato davanti alla Corte di Sarajevo.
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Il 26 febbraio 2025 la Corte di Bosnia ed Erzegovina l’ha condannato a un anno di carcere e a sei anni di interdizione dalla vita politica per le sue azioni separatiste.
Lo stesso Dodik ha aumentato il livello di scontro, ventilando lo scenario della sollevazione popolare per ottenere l’indipendenza e realizzare la “Grande Serbia”, ovvero l’unione di tutti i territori storicamente significativi per l’etnia serba.
Nel frattempo però, sfidando la sentenza, il presidente serbo-bosniaco è uscito dai confini del Paese per recarsi in Israele prima (passando dalla Serbia) e a Mosca poi, dove il 1° aprile ha incontrato l’autocrate russo Vladimir Putin.

Visto da Bruxelles
«Dodik ha sbagliato i suoi calcoli e non ha più carte da giocare. Sta semplicemente lottando per rimanere politicamente in vita». È così che l’eurodeputato ceco Ondřej Kolář (PPE), relatore del Parlamento Europeo per la Bosnia ed Erzegovina, descrive l’intera situazione.
In un’intervista a BarBalcani, l’eurodeputato ceco sottolinea che il presidente della Republika Srpska si trova ora «sempre più isolato, con quasi nessuna parte interessata che lo sostiene, fatta eccezione per il suo stesso partito».
Nemmeno un potenziale arresto di Dodik potrebbe scatenare una rivolta popolare, dal momento in cui «persino il presidente serbo Aleksandar Vučić sembra pronto ad abbandonarlo». Non solo perché sostenerlo è diventato «troppo costoso dal punto di vista politico», ma anche perché «Vučić deve concentrarsi sulla propria sopravvivenza politica in patria».
È così che «gli unici alleati rimasti sono l’Ungheria e la Russia», spiega ancora Kolář. A proposito del premier ungherese, «è solo un sostenitore di Putin, che sta facendo tutto il possibile per indebolire l’Unione Europea», è l’attacco dell’eurodeputato ceco.
Per quanto riguarda la Russia, invece, mentre attacchi informatici e influenza ibrida sono strumenti che Mosca «continuerà a utilizzare», bisogna notare che «lo sosterranno solo finché sarà loro utile». Per esempio, Dodik ha esortato Mosca a porre il veto all’estensione della missione EUFOR Althea in sede ONU. Ma «i russi non sono così ingenui, sanno che, se lo facessero, la NATO interverrebbe».
E poi c’è un altro «errore di valutazione» commesso da Dodik, che ha dato per scontato che la nuova amministrazione statunitense di Donald Trump avrebbe revocato il supporto agli Accordi di Dayton. «Almeno per ora», non ha invece messo in discussione il quadro istituzionale della Bosnia.
Tuttavia, avverte Kolář, «non ci si può fidare di Trump, cambia idea ogni giorno», come se alla Casa Bianca ci fosse una ruota della fortuna: «Ogni mattina, quando si sveglia, nessuno sa cosa dirà o farà».
Questa imprevedibilità ha conseguenze dirette per l’Europa. «I Balcani Occidentali sono la priorità, non possiamo permetterci di fallire». Dodik non ha «nulla da offrire» alle bosniaci che vogliono vivere secondo gli standard europei, e per questo l’Ue deve essere «risoluta» nei negoziati di adesione con i Paesi candidati, conclude Kolář.
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Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Nella speranza di un futuro più sereno per la Bosnia ed Erzegovina, il bancone di BarBalcani fa tappa a Trebinje, nella parte più meridionale della Republika Srpska.
La tradizione vinicola della regione risale alle prime colonie elleniche sulla costa adriatica. Il clima sub-mediterraneo, con estati calde e inverni miti, crea le condizioni perfette per i vitigni autoctoni Žilavka e Vranac.
L’origine del vitigno a bacche bianche Žilavka potrebbe essere collegata alle varietà piantate dagli antichi Greci lungo le coste del Mediterraneo. Il vitigno a bacca rossa Vranac fu introdotto in epoca austro-ungarica.
È proprio qui, nell’Erzegovina meridionale, che sorge il monastero ortodosso di Tvrdoš. Costruito alla fine del XIII secolo sulla riva destra del fiume Trebišnjica, dall’epoca medievale è noto per la sua produzione vinicola.
Nella cantina a volte in pietra del XVI secolo, in grandi botti di quercia centenarie invecchiano i migliori Vranac prodotti dai vitigni che circondano il monastero. Mentre altre due cantine costruite negli ultimi 20 anni ospitano le più moderne tecnologie di vinificazione e di invecchiamento del vino.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per la diciottesima tappa.
Un abbraccio e buon cammino!
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