XXXI. Le altre Lipa. O la vergogna europea
Dietro l'incendio al campo profughi in Bosnia, una tragedia annunciata, si celano le responsabilità dell'UE sulla rotta balcanica. A BarBalcani, la denuncia dell'eurodeputato Pierfrancesco Majorino
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter che dà voce alle storie dai Balcani occidentali nel 30° anniversario dalle guerre nell’ex-Jugoslavia.
È passato un mese esatto dall’incendio del campo profughi di Lipa, in Bosnia ed Erzegovina.
Mille e cinquecento persone - esseri umani, prima di chiamarli migranti - si sono trovate abbandonate in mezzo alla neve e al freddo di gennaio, su un altipiano al confine con la Croazia.
Una tragedia annunciata sulla rotta balcanica, che nasconde enormi responsabilità non solo del governo della Bosnia ed Erzegovina, ma di tutta Europa.
Se cerchi un’analisi approfondita della rotta balcanica in Bosnia, tra dati e politiche europee, l’ho preparata per te su Eunews. Clicca sull’immagine qui sotto per leggerla:
Una tragedia annunciata
Parlare di una delle più grosse macchie della storia recente europea a un mese di distanza non è semplice.
Per avere una panoramica completa, ti suggerisco di leggere alcuni reportage da Bihać. Quello di Annalisa Camilli per Internazionale, di Valerio Nicolosi per Domani e di Nello Scavo per Avvenire.
Il riassunto.
Campo di Lipa, località presso la città di Bihać, cantone di Una Sana, nord-ovest della Bosnia sul confine con la Croazia. Il 23 dicembre scoppia un incendio che devasta il riparo per circa 1.500 profughi pakistani, afghani e bangladesi.
L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) aveva annunciato che avrebbe chiuso il centro proprio il 23 dicembre. Quello di Lipa era un campo di tende di emergenza, non idoneo per le condizioni dell’inverno bosniaco.
Circa 900 migranti sono costretti a rimanere tra gli scheletri bruciati del campo di Lipa, dove l’esercito bosniaco ha allestito tende d’emergenza. Gli altri 600 si sono indirizzati verso altri campi sovraffollati.
La situazione è ancora fuori controllo.
Ma non c’era nulla che non avesse annunciato da tempo la tragedia del 23 dicembre.
A livello “ufficiale” sono 7 i campi profughi in Bosnia ed Erzegovina gestiti da IOM, oltre ai 2 statali di Salakovac e Delijas.
Quali sono e in che condizioni versano?
Nel cantone di Una Sana, attorno alla città di Bihać, ci sono 4 centri di accoglienza temporanea, oltre a 1 campo di tende d’emergenza (Lipa, chiuso e ora distrutto).
C’è il centro di Sedra. È occupato da 357 persone su 430 posti (i dati sono variabili, ma sono gli ultimi ufficiali di IOM, di ottobre 2020), principalmente famiglie con bambini e minori non accompagnati. La situazione al momento è gestibile.
C’è quello di Borici, con 322 posti disponibili su 580. Qui l’elettricità è appena arrivata, dopo un anno ad aspettare 30 metri di cavo elettrico.
Il centro di Miral da 700 posti letto è tutto occupato. È uno di quelli più vicini alla frontiera e si sono registrate diverse proteste tra gli ospiti per i respingimenti violenti al confine croato. L’atmosfera è potenzialmente esplosiva.
E infine c’è il centro di Bira da 1.500 posti letto. Lo scandalo più grande è che sarebbe già pronto e potrebbe ospitare tutti gli sfollati di Lipa. Anche in questo momento. Ma le autorità bosniache lo hanno chiuso il 30 settembre e non autorizzano la riapertura.
Gli ultimi 2 campi sono nel cantone di Sarajevo, ma sono ben oltre il limite di capacità. Una parte degli sfollati di Lipa si stanno dirigendo proprio qui.
A Ušivak ci sono già 860 rifugiati in un centro da 800 posti. A Blažuj la situazione è critica: la capacità è di 2.400 posti, ma sono ospitate 474 persone in più.
A questi vanno aggiunti i jungle camps, o campi informali. Sono assembramenti spontanei sul confine. Si trovano nei boschi, negli impianti industriali dismessi e in centri di accoglienza chiusi. Tra gli innumerevoli, quelli di Vučjak e Velika Kladuša sono i più grossi.
Una particolarità è da rilevare. Quasi tutto è incentrato nella punta a nord-ovest del Paese, nel cantone di Una Sana.
Nel percorso lungo la rotta balcanica i migranti cercano di arrivare alla stazione di Trieste. Di qui si capisce la direzione.
Ma una domanda nasce spontanea guardando la cartina della Bosnia. Perché nessuno tenta la traversata su tutto il resto del confine a nord?
È il territorio della Republika Srpska, una della due entità che costituiscono la Bosnia ed Erzegovina [se ti serve un ripasso, ne abbiamo parlato nella 16ª tappa].
Lo spiega bene il giornalista bosniaco, Dragan Bursać:
«Per quanto terrificante possa suonare, secondo la politica ufficiale del presidente Milorad Dodik la Republika Srpska è una zona migrant free».
Questo significa che in Republika Srpska non esistono campi per migranti. E se anche queste persone devono attraversare Banja Luka (la capitale dell’entità) per arrivare a Bihać, non vi si fermano.
Perché i migranti vengono respinti verso la Federazione, non si permette loro di costituire campi improvvisati. Sono fantasmi e come tali vengono trattati.
«La situazione è simile anche in altre parti della Bosnia. Con l’unica differenza che in Republika Srpska lo sbarazzarsi dei migranti, il rifiuto di ospitarli, è quasi diventato un proclama politico».
Le macchie dell’Unione Europea
Facciamo un piccolo passo indietro. Di che numeri stiamo parlando?
Questa cartina dei movimenti migratori nel 2020 dell’UNHCR ci può aiutare:
Sulla rotta balcanica il fenomeno migratorio è stimato sugli oltre 50 mila di persone all’anno e interessa tutti gli Stati. In particolare Macedonia del Nord, Serbia e Bosnia.
A ben vedere, la Bosnia non sarebbe nemmeno il Paese più interessato. Con quasi 16 mila è dietro la Serbia (24 mila) e ben distante dalla Macedonia del Nord (40 mila).
Però:
Quello dalla Macedonia del Nord è un flusso di passaggio rapido, perché al momento quasi privo di ostacoli;
La Serbia è uno Stato solido, più o meno in grado di gestire il flusso con circa 20 campi profughi. Anche se Belgrado sta sviluppando forme di deportazione interna da nord a sud, per tenere i migranti lontani dalla frontiera con la Croazia;
(Presto faremo un punto sulla situazione della rotta balcanica in tutti gli altri Stati extra-UE);
La Bosnia ed Erzegovina è uno Stato fragile, instabile e diviso. Un Paese in cui le autorità sono quasi inermi di fronte a questa ondata, se non supportate dall’esterno.
Ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che prima di arrivare sui Balcani occidentali queste migliaia di civili sono già entrati sul suolo dell’Unione Europea: dalla Grecia.
Solo che la rotta li costringe a uscire dall’UE e cercare di entrarci di nuovo dalla Croazia.
È qui che abbiamo a che fare con l’Unione Europea. O meglio, con noi stessi. Noi, europei di prima classe.
La Commissione Europea ha scaricato tutta la responsabilità del disastro di Lipa sulla Bosnia, ricordando di aver finanziato Sarajevo con 88 milioni di euro per la gestione del flusso migratorio dal 2018 (più altri 3,5 milioni in arrivo).
Ma la questione è più complessa di un mero discorso economico.
Punto primo. Quanti fondi UE sono stati effettivamente spesi? Dal giugno 2018 l’IOM ha ricevuto 76,85 milioni e alla fine di dicembre 2020 ne sono stati spesi 51,56 per assistenza umanitaria, supporto alle istituzioni e allestimento dei 7 centri di accoglienza. Quasi due terzi di tutto il budget.
Punto secondo. Perché la Bosnia dovrebbe mantenere sul suo territorio i migranti che l’UE non vuole? «In proporzione al numero degli abitanti, il loro numero è molto più alto rispetto agli altri Paesi», ha fatto notare il premier bosniaco Zoran Tegeltija. «Dall’Europa abbiamo bisogno di aiuto non solo finanziario».
Punto terzo, il più grave. Come può l’Unione dare lezioni alla Bosnia, quando è corresponsabile di violazioni al confine bosniaco-croato e non solo?
Se ricordi, già nell’ottobre 2020 abbiamo parlato di cosa succede sulla rotta balcanica e di che cos’è The Game [lo puoi recuperare nella 15ª puntata].
Facciamo un breve ripasso delle regole del “gioco”.
Si parte dalle ultime frontiere prima della fortezza-Europa, la Bosnia o la Serbia. Destinazione: stazione di Trieste.
Si vince se si riesce a raggiungere la stazione senza imbattersi nei controlli delle polizie croata, slovena e italiana.
Se si viene intercettati, allora si è rispediti indietro dall’Italia alla Slovenia, dalla Slovenia alla Croazia, dalla Croazia alla Bosnia o alla Serbia.
Con una buona dose di violenze da parte della polizia di confine croata, allo scopo di dissuadere sia chi ha tentato di giocare, sia chiunque altro fosse tentato.
Questi si chiamano pushback, respingimenti illegali operati da un Paese UE alla frontiera esterna per impedire a un migrante l’accesso al territorio e la protezione internazionale (richiederla è un diritto).
Probabilmente ricorderai che questo è stato il tema di una delle primissime tappe di BarBalcani, “In Croazia l’Europa ha un problema con #BlackLivesMatter” [se non segui la newsletter dall’inizio, puoi recuperare la 3ª puntata qui].
Tutti i migranti che percorrono la rotta balcanica conoscono The Game. Il 60/70% di coloro che l’hanno provato, ha “perso”: da maggio 2019 a oggi sono 22.550 le vittime dei pushback violenti della polizia croata.
Lo scorso 10 novembre la mediatrice europea Emily O’Reilly (il Mediatore è la carica europea adibita a ricevere le denunce su casi di cattiva amministrazione delle istituzioni UE) ha avviato un’indagine contro la Commissione UE per il mancato controllo del “meccanismo di monitoraggio” dei diritti umani in Croazia [lo trovi spiegato più approfonditamente in questo articolo di Eunews].
Ma c’è di più.
Sulla frontiera slovena e su quella italiana i migranti rischiano ancora di essere respinti. Non con i pushback, ma con procedure di riammissione.
Se la polizia italiana rintraccia sul confine un migrante privo di richiesta di protezione internazionale può riammetterlo automaticamente in Slovenia, anche se manifesta l’intenzione di fare domanda di asilo.
Con questa motivazione, da maggio 2020 l’Italia ha respinto 1.300 persone. Lo stesso ha fatto la Slovenia verso la Croazia. Parliamo di 10 mila migranti in tutto.
I governi impediscono le richieste di asilo senza provvedimenti formali e notificati, così che nessuno possa impugnarli. Una pratica del Viminale che il Tribunale di Roma ha riconosciuto come incostituzionale e contro la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea [qui l’approfondimento su Eunews].
Quando si parla di rotte migratorie troppe cose, dentro e fuori l’Unione Europea, vanno contro i principi dello Stato di diritto.
Voci controcorrente
Ma a Bruxelles non sono proprio tutti soddisfatti dell’operato della Commissione Europea. Al Parlamento Europeo molti gruppi che stanno mordendo il freno.
Socialdemocratici, verdi, sinistra radicale e liberali si oppongono non solo alle destre europee, ma incalzano la Commissione ad abbandonare le ipocrisie e affrontare di petto i problemi alle frontiere esterne.
Oggi a BarBalcani ospitiamo Pierfrancesco Majorino, europarlamentare italiano tra le fila del gruppo S&D, e la panoramica che ci dà dall’interno.
Majorino, Lipa era davvero una tragedia annunciata?
“Sì, da mesi al Parlamento Europeo stavamo raccogliendo le testimonianze dei giornalisti e delle ONG che operano sul confine tra Bosnia e Croazia. Condizioni assolutamente inaccettabili per le persone che cercano di compiere l’ultimo tratto della rotta balcanica.
È il frutto delle politiche di chiusura dell’Unione Europea, ma anche delle azioni di alcuni governi nazionali: respingimenti illegali della Croazia con azioni terrificanti e riammissioni dell’Italia verso la Slovenia per non permettere di fare richiesta di asilo.
Intanto, mentre parliamo, migliaia di persone dormono in mezzo alla neve. È molto semplice nella sua brutalità”.
La risposta della Commissione è che sono stati versati milioni di euro alla Bosnia per gli aiuti umanitari. Possiamo ridurla a una questione di denaro?
“Io ribalterei brutalmente il ragionamento. La situazione è inaccettabile: sì o no?
Perché se lo è, allora vuol dire che a Bruxelles non abbiamo fatto quello che dovevamo. Prima di valutare l’intervento dell’Unione Europea, bisogna guardare alle persone. E qui c’è un dramma annunciato, una dignità calpestata.
Poi le risorse possono essere sufficienti o meno, ma dipende da che intervento si vuole realizzare. Vorrei capire come la Commissione si era immaginata che fossero spesi questi soldi e che tipo di programmazione aveva fatto la Bosnia.
Su questo l’Unione deve essere esigente. Nei confronti di Sarajevo, ma anche di se stessa”.
Ma cos’è che non sta funzionando nella strategia dell’UE?
“Non sta funzionando praticamente nulla.
L’Europa continua a concepirsi come una fortezza assediata, a lavorare solo sul terreno della logica del presidio e dell’esternalizzazione dei confini per limitare il “danno” dell’immigrazione.
Noi socialdemocratici europei abbiamo un’impostazione ideologica, politica e culturale diversa. Crediamo che l’immigrazione sia vita vera di uomini, donne e bambini: sembra quasi incredibile doverlo ribadire.
Il dramma si sta consumando nell’ipocrisia silenziosa di troppa gente. È necessario intervenire immediatamente, senza perdere altro tempo. Poi bisogna cambiare radicalmente la politica di accoglienza dell’Unione”.
Qual è il sentimento che prevale?
“Preoccupazione. Perché il piano presentato dalla Commissione rischia di formalizzare e replicare questo modello. Non è sufficiente «superare gli accordi di Dublino», perché si possono superare anche in peggio.
Sulla politica migratoria l’Europa non si sta dimostrando innovativa e ambiziosa come sul Next Generation EU. È troppo impostata sul respingimento e non affronta il tema della condivisione della responsabilità dell’accoglienza.
La Bosnia è il racconto di scelte sbagliate a livello europeo. C’è da ricostruire una dimensione morale e noi europarlamentari possiamo intervenire”.
Come?
“Al Parlamento Europeo gli allarmi sono arrivati da tempo e già l’anno scorso una delegazione di eurodeputati è stata nel cantone di Una Sana. Ne stiamo preparando un’altra, che a breve tornerà in Bosnia.
Dobbiamo usare il Parlamento come una cassa di risonanza e continuare a presentare questo tema, come abbiamo fatto nell’ultima planaria [su Eunews ti ho riassunto la discussione sui diritti umani alle frontiere dell’UE di lunedì 19 gennaio].
E poi, se si è coerenti, bisogna respingere il Patto per la migrazione presentato dalla Commissione finché non sarà cambiato, puntando di più sulla solidarietà diffusa”.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questa tappa.
C’è poco per cui vale la pena dilungarsi nell’ultima parte del nostro racconto.
Lasciamoci con le immagini degli aiuti umanitari che vengono portati in questi giorni agli uomini di Lipa.
Oltre a cibo, coperte, scarpe e legna da ardere, c’è anche il the caldo.
Un simbolo della lotta contro il gelo dell’inverno bosniaco. E della speranza che finalmente in Europa le coscienze si possano risvegliare.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la trentaduesima tappa!
Un abbraccio e buon cammino!
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