S2E22. Ulula nella Foresta di Bihać
"Poveri noi" è l'ultimo progetto della band ULULA & LaForesta, che mette a fuoco la situazione su una delle frontiere più delicate d'Europa. Un'esperienza in Bosnia che ci chiama all'azione
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter (e da oggi anche sito!) dai confini sfumati.
Nella tappa di oggi i confini sono davvero eterei e, se fai attenzione, il nostro cammino è accompagnato da una melodia diffusa.
Dall’Italia alla Bosnia, da Verona a Bihać, la musica ci culla e ci responsabilizza, aprendoci nuovamente gli occhi su una delle frontiere più delicate d’Europa.
Le note che ci guidano sono quelle di ULULA & LaForesta, progetto nato dall’incontro tra il cantautore Lorenzo Garofalo e il gruppo composto da Andrea Mandelli, Maximilian Agostini, Filippo Chiarini, Alessio Profeti e Simone Carradori.
Poveri noi.
È questo il titolo dell’ultimo singolo della band e dell’album in uscita martedì 11 gennaio.
Ma è anche il cuore di un progetto più profondo, che ha coinvolto direttamente ULULA & LaForesta e che ora si rivolge anche a noi.
Per rispondere all’appello, per iniziare ad agire.
A Verona BarBalcani ha incontrato Lorenzo Garofalo (ULULA) e Nicola Veronesi, curatore della produzione e dei montaggi video e dell’elaborazione dei contenuti sul progetto in Bosnia.
Bentrovata, Bihać.
Poveri noi
«Poveri noi che abbiamo tutto». Da cosa nasce questo attacco?
“Come succede spesso, è un progetto nato qualche anno prima rispetto all’uscita della canzone.
Si tratta di una critica ironica - ma allo stesso tempo non angosciante - al benessere e alla mentalità prevalente nella società in cui viviamo.
Un modo di vivere che ci porta a pensare di sapere sempre tutto, di avere sempre il diritto di autocommiserarci, di voler «abitare da mia zia, che se rubano in casa non era mica la mia».
Insomma, non avere responsabilità, non dover lottare e impegnarsi per essere parte del cambiamento.
Poveri noi è un’alternanza continua tra ricchezza e povertà. Non solo la nostra, ma anche delle realtà che si possono scoprire quando ci si mette in moto”.
Ma è solo quando si guarda il video che si scende a un livello ancora più profondo.
“Abbiamo voluto intrecciare il testo della canzone con le immagini delle persone, delle vite e delle esperienze che abbiamo incontrato a Bihać, in Bosnia.
Il video, realizzato grazie al supporto di Cesare Ambrogi, è proprio il racconto di quello che abbiamo sperimentato nel nostro viaggio a maggio dello scorso anno.
Abbiamo deciso di sacrificare qualcosa a livello di qualità per concentrarci sugli aspetti di ‘vita vissuta’. Come per esempio nelle prime clip, girate con il cellulare, che mostrano le difficoltà prima della partenza anche solo a livello di documenti necessari.
Il cuore del video sono gli incontri con le persone. I migranti nella Jungle, i cittadini bosniaci che vivono lì, in una situazione di difficoltà crescente a causa dell’apatia civile e dello spopolamento.
Ma anche le esperienze di chi sta cercando di costruire qualcosa di nuovo proprio a Bihać, per mettere in contatto persone migranti e bosniache, per costruire un futuro diverso.
Per dimostrare che c’è molto da fare e che c’è bisogno dell’aiuto di tutti.
L’uscita del singolo a novembre è stata anticipata da una serie di brevi video che hanno messo a fuoco i diversi temi al centro di tutto il progetto: il fenomeno migratorio e la Jungle, lo spopolamento del paese, l’impegno sul territorio, il ruolo dei volontari…”
Un equilibrio scoordinato
Come è nata l’idea di andare a Bihać?
“Siamo amici da una vita e Nicola è un grande conoscitore dei Balcani.
Tra Verona e Milano, è nato tutto durante la pandemia. E infatti all’inizio dubitavamo anche noi di poter riuscire a partire davvero.
Però è sempre stata forte l’esigenza di andare in Bosnia per toccare con mano la situazione e poterla raccontare come un’esperienza vissuta.
In più si è innestata la volontà di agire con l’obiettivo di offrire un supporto tangibile sul territorio.
Ecco perché ci siamo messi in contatto con la onlus veronese One Bridge to Idomeni, che dal 2016 lavora lungo i confini europei della rotta balcanica, aiutando le persone migranti in loco e riportando ‘a casa’ testimonianze preziose.
Con loro abbiamo iniziato a ragionare su come poter costruire un ponte metaforico verso la Bosnia, raccontando con musica, video e testi ciò che saremmo andati a fare.
Da questa collaborazione è nato un sostegno alla realtà bosniaca U Pokretu [In Movimento, ndr], una ONG che a Bihać lavora per offrire un presente e un futuro migliore ai giovani del luogo e alle persone migranti”.
Di getto. Le prime tre parole che vi vengono in mente per descrivere il clima che avete respirato a Bihać.
“Inquietudine, malinconia, condivisione.
È stato un tuffo nel passato, in luoghi di sofferenza anche estetica. Si percepisce un certo fatalismo rispetto a temi che per noi sono un tabù o a cui siamo abituati a ragionare in modo diverso, come per esempio la pandemia COVID-19.
C’è un equilibrio scoordinato tra la distanza in chilometri che separa la Bosnia dall’Europa Occidentale e la distanza di esperienze che si possono vivere.
Il fatalismo che si percepisce è ancestrale e probabilmente dipende anche dalla storia irrequieta dei Balcani.
Negli ultimi 25 anni la popolazione di Bihać si è più che dimezzata e oggi chi rimane deve convivere con la mancanza di opportunità.
È chiaro che sull’ultima frontiera della rotta balcanica la migrazione è un concetto molto più esteso che altrove.
Qui si intrecciano questioni profondamente viscerali per l’esistenza stessa della Bosnia.
[Leggi anche: XXXI. Le altre Lipa. O la vergogna europea]
Ma andando a Bihać ci siamo anche resi conto che le persone che ci vivono hanno esigenze uguali alle nostre: imparare un mestiere, dedicarsi all’arte, rendere più vivibile l’ambiente in cui si trovano.
Scoprendo giorno dopo giorno le attività di U Pokretu, abbiamo visto come è stata riqualificata la Dom Kulturni, la casa della cultura cittadina.
Un edificio dell’ex-Jugoslavia che è stato sottratto dalla decadenza grazie all’impegno di persone volenterose e in cui ora sono state allestite una sala prove, una sala da ballo ed è previsto uno spazio per le esposizioni.
Abbiamo incontrato alcune ragazze che imparavano le danze tradizionali con il loro maestro. La band Jall Aux Yeux, che fonde sonorità reggae, rock e R&B con toni in scala minore tipicamente orientali.
E poi Miograd, Daka per gli amici, il ‘santone del villaggio’. È l’unico residente di Lipa, la località dove si trova uno dei più grandi campi profughi dei Balcani.
Daka utilizza pannelli solari per ricavare energia pulita, coltiva un orto e ricostruisce i casolari con l’aiuto di ragazzi migranti, per dare loro un po’ di normalità oltre il campo di Lipa o la Jungle in cui sono costretti a vivere”.
A proposito, come avete percepito il fenomeno migratorio?
“La questione della migrazione rimane centrale a Bihać. Non è solo la militarizzazione del confine, ma anche la sensazione di sentirsi costantemente sotto osservazione.
Abbiamo avuto la percezione di essere sempre controllati. Noi e i volontari, così come le persone migranti, che devono anche subire leggi che vietano loro di salire sui mezzi pubblici o di avere un lavoro.
È dal 2018 che la rotta migratoria ha trovato uno sbocco nella parte nord-occidentale della Bosnia, nel cantone di Una Sana. Qui non ci sono solo campi profughi ufficiali, ma anche campi provvisori, le cosiddette Jungle.
[Leggi anche: III. In Croazia l'Europa ha un problema con #BlackLivesMatter]
A Bihać non ci eravamo nemmeno accorti dell’esistenza della Jungle nascosta nella vegetazione.
Siamo stati accompagnati da un ragazzino, che ci ha raccontato la sua storia e ci ha spiegato cos’è The Game, il nome che queste persone danno ai tentativi di varcare la frontiera senza essere intercettati dalle forze di polizia.
Abbiamo potuto scorgere i momenti di vita vissuta nella boscaglia. Le radure, la composizione delle tende, i bisogni delle persone che ci vivono.
In un ambiente così precario, che potrebbe essere sgomberato in qualsiasi momento, non ci si aspetterebbe mai di vedere le ragazze preoccuparsi di farsi le unghie!”
[Leggi anche: XV. Dear migrants, noi avremmo un Patto]
Si può fare qualcosa
Alla fine di questa esperienza che progetto ne è scaturito?
“Per prima cosa abbiamo voluto organizzare una raccolta fondi proprio a sostegno di U Pokretu, attraverso l’uscita del singolo e ora con la pubblicazione del disco il prossimo 11 gennaio.
Ma non è tutto qui e non è solo una questione di soldi.
Attraverso la musica e l’arte vogliamo portare avanti un’opera di sensibilizzazione per chi non vive in Bosnia.
Il nostro obiettivo è quello di creare un progetto di continuità a Bihać.
Un progetto che ruoti attorno al centro sicuro e stimolante della Dom Kulturni, dove si possa entrare in contatto sia con le persone bosniache, sia con quelle che arrivano da Afghanistan, Kashmir, Iraq.
Abbiamo voluto dimostrare che dall’arte e dalla musica si può attivare qualcosa di concreto, che metta in circolo non solo le idee ma anche le persone e i progetti.
Ci ha ispirato l’energia e la forza di Marine, una ragazza francese che ha fondato U Pokretu insieme a suo marito Dado e ad ragazze e ragazzi di Bihać.
Per costruire un presente e un futuro più giusti, Marine lotta ogni giorno per valorizzare il potenziale culturale della popolazione locale e delle persone migranti, per sensibilizzarli sull’inclusione, lo sviluppo sostenibile e la cittadinanza attiva.
La completa riqualificazione del centro culturale di Bihać è il perno di tutto questo progetto, che ognuno di noi può in qualche modo supportare”.
Che messaggio volete veicolare attraverso l’album in uscita?
“Prima di tutto attraverso Poveri noi vorremmo dare una voce a tutte le persone che abbiamo incontrato a Bihać. E ricordare che spesso la nostra ricchezza è semplicemente l’altra faccia della povertà di qualcuno che non conosciamo.
Questo è un disco ‘esotico’, grazie alle sperimentazioni e agli input condivisi da LaForesta. Le sonorità e le scale a cui siamo meno abituati, più di area mediterranea-orientale, diventano un mezzo per guidarci oltre le nostre frontiere mentali.
L’obiettivo è di stimolare la solidarietà verso il prossimo, il fine è dare qualcosa agli altri.
Si tratta di azioni concrete, non di moralismo.
Vorremmo che l’ascoltatore non fosse passivo, ma che dall’ascolto si metta in moto un circolo di nuovo impegno.
Dopo aver fatto eco sulla situazione alla frontiera bosniaca, ora anche altre persone possono attivarsi per sostenere U Pokretu o per partire per Bihać”.
Quale speranza sperate si possa concretizzare entro la fine del 2022?
“Per quanto riguarda direttamente questo progetto, vorremmo riuscire a tornare a Bihać altre tre o quattro volte per impostare quella continuità che ci siamo prefissati.
Sarà un successo se riusciremo a portare a Bihać altri artisti e professionisti - pittori, musicisti, ballerini - che possano supportare le attività nella Dom Kulturni attraverso contenuti.
Servirà un flusso di persone volenterose che si mettano a disposizione dei bisogni e della rinascita del territorio.
Insomma, la nostra speranza è quella di creare una sorta di ‘pacchetto’ di qualche giorno a Bihać, con workshop, esibizioni e confronti con persone del luogo e migranti.
Dalla parte ‘di qui’ della frontiera invece speriamo di poter ritornare a suonare live, magari con date in giro per l’Italia e l’Europa.
Dopo due anni di realtà virtuale siamo stanchi di rapportarci con le persone attraverso mezzi che non restituiscono tutte le sensazioni che dà un concerto.
L’idea alla base rimane sempre quella di entrare e uscire, scambiarsi storie ed esperienze, mettersi in contatto, conoscere ciò che prima era solo un racconto distante o sconosciuto.
In Bosnia, in Italia, in Europa”.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Di fronte alla birra che accompagna la nostra chiacchierata veronese, Lorenzo e Nicola ci salutano con un ultimo racconto.
E si guardano sorridendo quando chiediamo loro un consiglio per BarBalcani.
Cosa si beveva a Bihać, ragazzi?
“Decisamente rakija alla mela, la grappa a chilometro zero!
Una delle tappe fisse era al Cafè Libar, un pub vicino al centro.
Dietro il bancone c’è Tarik, un ragazzo diplomato in infermieristica. Sono molti i ragazzi bosniaci che scelgono questo indirizzo, per cercare un lavoro soprattutto in Austria e Germania come professionisti.
Ma Tarik è anche un aspirante musicista e durante la nostra permanenza a Bihać è stato lui a coinvolgere i suoi amici di Jall Aux Yeux per organizzare una jam session.
E poi ama la recitazione, vorrebbe un corso di teatro a Bihać. Qui c’è bisogno anche di questo.
Ecco perché servono persone che abbiano voglia di mettersi a disposizione”.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la ventitreesima tappa insieme ai ragazzi e alle ragazze di One Bridge!
Un abbraccio e buon cammino!
“Dì la verità, ci siamo mancati.
Io volevo colpirti in faccia,
ma siamo caduti.
La verità ha la faccia
di chi le prende sempre.
Di chi ha perduto troppe volte
e adesso mente”.
Ti è piaciuta questa tappa? Inoltrala a qualcuno a cui pensi possa interessare!
BarBalcani è una newsletter settimanale gratuita. Dietro però si nasconde molto lavoro: proprio questa settimana è nato il nuovo sito
Se vuoi permettere a questo progetto di esistere, ti chiedo di valutare la possibilità di fare una donazione. Ogni secondo mercoledì del mese riceverai un omaggio sulla storia della dissoluzione della Jugoslavia.
Un’anteprima di BarBalcani - Podcast puoi ascoltarla ogni mese su Spreaker e Spotify. Il prossimo episodio uscirà mercoledì prossimo, non perderlo!
Attenzione! Potresti trovare la newsletter nella cartella “Spam” o, se usi Gmail, in “Promozioni”. Se vuoi riceverla in automatico nella cartella “Principale”, spostala lì. In alto, in un box giallo, apparirà l’opzione per far arrivare le successive in “Principale”.
Io come sempre ti ringrazio per essere arrivato fino a questo punto del nostro viaggio. Qui puoi trovare tutte le tappe passate.