XX. Miss (you) Sarajevo, ep. 3
Si conclude la trilogia sul capolavoro degli U2 e Pavarotti con il racconto di Nenad Novaković, abitante e guida turistica della capitale bosniaca, sul ruolo degli aiuti umanitari durante l'assedio
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter che dà voce alle storie dai Balcani occidentali alla vigilia dei 30 anni dall’inizio delle guerre nell’ex-Jugoslavia.
Siamo arrivati all’ultimo episodio di questa tappa/trilogia in stile Star Wars, verso il 25° anniversario di “Miss Sarajevo”.
Il 1° episodio lo abbiamo dedicato al tema dell’urbicidio e dell’anima architettonica della capitale assediata, con un racconto di Enrico Sciannameo: puoi recuperarlo qui.
Nel 2° episodio ci siamo concentrati sui retroscena della nascita della canzone e del film, insieme all’uomo che diede vita a tutto questo, Bill Carter: qui l’intervista.
Ce n’è abbastanza per invitare nuovi seguaci, no?
Oggi riprendiamo il filo del discorso, là dove lo avevamo interrotto. E cerchiamo di capire cosa si provava a vivere sotto assedio, aspettando gli aiuti dall’esterno.
Lo facciamo con un cittadino di Sarajevo, che ancora oggi nella sua città porta avanti il ricordo di quegli anni e dei segni visibili della guerra, come una “ferita che cammina” (cit. Bill Carter).
A BarBalcani è entrato Nenad Neno Novaković, guida turistica e fondatore di Neno & Friends Sarajevo Free Walking Tours.
Lasciamo a lui il racconto.
Orgoglio sotto assedio
Neno, cosa ti ricordi di quell’assedio?
“Avevo sette anni quando la guerra iniziò. Ero un bambino, i miei primi ricordi sono un po’ confusi.
Ma poi, diventando grande durante l’assedio, ho iniziato a capire molte cose e a interiorizzarle.
Ricordo benissimo la quotidianità in un seminterrato per 44 mesi. Le esplosioni, ogni giorno. Non ho vissuto tante cose che per gli altri bambini europei erano normali: mangiare caramelle e cioccolata, fare gite fuori città il fine settimana…
È un passato che porto con me. Con i miei colleghi, Merima e Davor, ancora oggi cerchiamo di educare le persone su cosa è stata la guerra in Bosnia.
L’assedio è una parte importante della nostra storia recente. Ma allo stesso tempo cerchiamo di mostrare che Sarajevo è molto di più.
Stiamo lottando per andare oltre e portare avanti la pace, facendo un lavoro sulla memoria collettiva di riscoperta delle nostre radici.
Quello bosniaco è un popolo fiero. Sarajevo l’ha dimostrato”.
Hai un esempio in mente?
“Anche in tempo di guerra, le persone volevano ancora vivere la loro vita di tutti i giorni. Mi verrebbe da dire che gli abitanti di Sarajevo non si arrendono facilmente.
La stessa idea di assedio era concepita per demoralizzarci, spezzare il nostro spirito, farci arrendere. Ma abbiamo dimostrato di essere resilienti, anche se potevamo rimanere feriti, o morire, in qualsiasi momento.
Le scuole hanno continuato a funzionare, così come i servizi pubblici. Mia mamma andava in ufficio ogni giorno.
E ricordo bene anche il suo atteggiamento. Curava la messa in piega dei capelli ogni settimana e ogni mattina si truccava: voleva continuare a essere orgogliosamente bella, nessuno poteva fermarla!
Se si coglie lo spirito di una donna comune, allora anche tutto il resto è più chiaro.
È così che organizzammo il concorso di bellezza “Miss Sarajevo 1993” e due anni dopo, il 25 ottobre 1995, mettemmo in piedi il Sarajevo Film Festival, che ancora oggi continua.
Il concorso di bellezza, il festival cinematografico, erano i nostri modi di mandare un messaggio al mondo e alla comunità internazionale.
Che noi eravamo ancora vivi, che esistevamo. E che non ci arrendevamo”.
Sarajevo calling
E quindi riceveste aiuto dalla comunità internazionale?
“Sì, in particolare aiuti umanitari sotto forma di cibo. Almeno a Sarajevo sono arrivati davvero.
Senza le Nazioni Unite e la zona franca dell’aeroporto internazionale da cui arrivavano gli aiuti, per esempio la mia famiglia non ce l’avrebbe fatta.
E la stessa cosa si può dire di tantissime altre famiglie.
I caschi blu furono molto professionali nella distribuzione del cibo ai cittadini di Sarajevo.
A differenza della mia esperienza, ho sentito anche di bambini che dai militari Onu ricevettero caramelle lanciate dai loro camion.
Certo, non fu tutto positivo”.
Per esempio?
“L’aspetto più negativo fu quello del mercato nero. Molte persone, più o meno disperate, cercarono un modo di guadagnare soldi sulla pelle dei propri concittadini.
Non tutti gli abitanti di Sarajevo furono così forti e fieri come dicevo prima.
È un lato che emerge un po’ in tutte le guerre. Probabilmente è una caratteristica umana che si manifesta nelle situazioni più estreme.
Un assedio è duro sotto molti punti di vista e può mettere alla prova la solidarietà tra persone private degli stessi beni primari.
E il cibo, in tempo di guerra, era sicuramente la cosa più importante”.
Black humor, taglia XXL
Parliamo del cibo. Cosa arrivava?
“A essere onesto, il cibo non arrivava molto di frequente e non era di gran qualità. Durante una guerra, non si ha molta possibilità di scelta.
Ma almeno avevamo qualcosa da mangiare.
A volte ne ricevevamo anche di buona qualità. Le famiglie con bambini avevano dei “benefici” rispetto a quelle senza. I miei genitori mi hanno raccontato che, grazie a me, potevano ricevere latte in polvere.
Poi è anche vero che il cibo più comune era l’orribile carne in scatola a cui è stato dedicato anche un monumento”.
Un monumento?
“Sì, alle spalle del Museo storico della Bosnia ed Erzegovina nel 2007 è apparso un monumento di un metro di altezza che raffigura una scatoletta di carne ICAR.
Erano le scatolette di carne di manzo che venivano distribuite più di frequente dai caschi blu. Non era carne scaduta, come altra che invece era stata riesumata dalle dispense della guerra in Vietnam di 20 anni prima. Era commestibile, ma terribile.
Sul piedistallo c’è un’iscrizione: Monumento alla comunità internazionale, dai riconoscenti cittadini di Sarajevo.
Chiaramente ironico, che mette in luce le scelte a volte discutibili sul tipo di aiuto che ci veniva offerto.
Vorrei però chiarire una cosa. Non è nato con intenti aggressivi contro la comunità internazionale, o di biasimo contro le Nazioni Unite, anzi. Come ho detto, qualsiasi aiuto era importantissimo.
È qualcosa legato al nostro spirito fiero e orgoglioso, anche un po’ dissacrante. Il nostro modo di rapportarci alla storia con un misto di ironia e di dadaismo.
Dopo tante morti e distruzioni, una sorta di black humor che ci ha permesso di fare pace con ricordi così dolorosi”.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
E così siamo arrivati alla fine del terzo episodio di questa tappa/trilogia.
Chi più di un vero cittadino di Sarajevo può dirci cosa bere al bancone del nostro BarBalcani? Avanti con le tradizioni!
Neno, cosa ci consigli?
Avrei un consiglio e una chicca.
Parto dalla seconda.
Noi bosniaci siamo conosciuti per la cultura del caffè. Ma chi non vive qui potrebbe non sapere che quando riceviamo un ospite, gliene offriamo tre.
Lo accogliamo in casa con il primo, il “caffè del benvenuto”. Poi abbiamo un “caffè di conversazione”, per parlare un po’. E infine il “caffè dell’arrivederci”: non bisogna inventare scuse, quando arriva il terzo lo si beve insieme e poi ci si saluta serenamente!
Per quanto riguarda il consiglio, anche questa è una cosa che in molti potrebbero non conoscere. Arriva da una delle influenze che ci sono state lasciate dalle molte occupazioni della Bosnia.
È la boza, una bevanda ottenuta dal mais fermentato, molto densa e dal colore giallo-marroncino. Ha un tasso alcolemico bassissimo, attorno all’uno per cento.
In epoca ottomana, consumare bevande alcoliche era proibito. Proprio per la sua quasi assenza di alcool, la boza era invece permessa e quindi i bosniaci la bevevano illudendosi di avere in mano un vero alcolico!”
Conclusa questa lunga tappa, è arrivato il momento di riprendere il cammino e scoprire quali nuove storie ci riserverà questo Sarajember, il mese dedicato a Sarajevo…
Ci vediamo fra una settimana, per la ventunesima tappa.
Un abbraccio e buon cammino!
«Dici che il fiume trova la via al mare
e come il fiume giungerai a me,
oltre i confini e le terre assetate.
Dici che come fiume,
come fiume,
l’amore giungerà,
l’amore.
E non so più pregare
e nell’amore non so più sperare.
E quell’amore non so più aspettare»- “Miss Sarajevo”
Passengers (U2 & Pavarotti) -
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